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Calano i tassi di mortalità per tumore in Ue, ma quest’anno attesi oltre 1,2 milioni di decessi

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Nonostante l’epidemia di nuovi casi di cancro in Italia, trainata in modo determinante da stili di vita malsani, migliorano le probabilità di sopravvivenza dei pazienti dopo la diagnosi di tumore, nel nostro Paese come nel resto dell’Ue. Un nuovo studio internazionale pubblicato su Annals of oncology, coordinato dall’Università Statale di Milano e sostenuto dall’Airc, stima in particolare un calo nei tassi di mortalità per tumore in Ue sia negli uomini (-6,5%) sia nelle donne (-3,7%) tra il 2018 e il 2023, anche se il numero assoluto di decessi aumenterà a causa dell’invecchiamento della popolazione: una maggiore proporzione di anziani nella popolazione comporta infatti un maggior numero di persone con un elevato rischio di sviluppare un tumore. Più nel dettaglio, nel 2023 nell’Ue ci si aspetta che muoiano circa 1.262.000 persone per tumore. Rispetto al picco di mortalità per cancro del 1988, i ricercatori stimano però che, grazie agli andamenti favorevoli osservati e previsti tra il 1989 e il 2023, nell'Ue saranno stati evitati circa 5,9 milioni di morti. «Se l'attuale tendenza favorevole dei tassi di mortalità per tumore dovesse continuare – spiega l’epidemiologo della Statale Carlo La Vecchia, che ha guidato il gruppo di ricerca – un’ulteriore riduzione del 35% entro il 2035 sarebbe possibile. La cessazione del consumo di tabacco ha contribuito a questi andamenti. Per mantenerli nel tempo sono necessari ulteriori sforzi per controllare l’epidemia di sovrappeso, obesità e diabete, limitare il consumo di alcol, migliorare l’utilizzo degli screening per diagnosi precoce e le terapie, e controllare le infezioni virali per le quali esistono vaccini e terapie». Ci sono ancora ampi margini di miglioramento, in particolare tra le donne, per le quali i tassi di mortalità per tumore del polmone e del pancreas continuano ad aumentare; tra le donne è infatti previsto un aumento del 3,4% per il tumore al pancreas e dell’1% per quello del polmone. «Tra un quarto e un terzo di queste morti può essere attribuito al tabagismo, e le donne, soprattutto nei gruppi di età più avanzata, non hanno smesso di fumare», osserva Eva Negri, docente di Medicina del lavoro all'Università di Bologna. L'articolo Calano i tassi di mortalità per tumore in Ue, ma quest’anno attesi oltre 1,2 milioni di decessi sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Particolato PM2,5: solo lo 0,001% della popolazione mondiale al di sotto dei livelli di sicurezza Oms

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Lostudio“Global estimates of daily ambient fine particulate matter concentrations and unequal spatiotemporal distribution of population exposure: a machine learning modelling study”, pubblicato su The Lancet da un team di ricercatori australiani - cinesi guidati dalla Monash University, è il primo ad analizzare particolato fine (PM 2.5 ) ambientale quotidiano in tutto il mondo e ha rivelato che «Solo lo 0,18% della superficie terrestre globale e lo 0,001% della popolazione mondiale sono esposti a livelli di PM 2,5 – il  principale fattore di rischio per la salute ambientale al mondo - al di sotto dei livelli di sicurezza raccomandati dall'Organizzazione mondiale della sanità (OMS)». Alla Monash University di Melbourne  dicono che «E’ importante sottolineare che mentre i livelli giornalieri si sono ridotti in Europa e Nord America nei due decenni fino al 2019, i livelli sono aumentati in Asia meridionale, Australia, Nuova Zelanda, America Latina e Caraibi, con oltre il 70% dei giorni a livello globale che vedono livelli al di sopra di quel che è sicuro». La mancanza di centraline di monitoraggio dell'inquinamento atmosferico a livello globale ha comportato una mancanza di dati sull'esposizione locale, nazionale, regionale e globale al PM 2,5, il nuovo studio condotto dal team guidato da Yuming Guo, della Monash University School of Public Health and Preventive Medicine, fornisce una mappa di come il PM 2.5 è cambiato in tutto il mondo negli ultimi decenni Guo spiega che «Per valutare più accuratamente le concentrazioni di PM 2,5 a livello globale Il team di ricercatori ha utilizzato le tradizionali osservazioni di monitoraggio della qualità dell'aria, rilevatori meteorologici e di inquinamento atmosferico satellitari, metodi statistici e di apprendimento automatico. In questo studio, abbiamo utilizzato un approccio innovativo di apprendimento automatico per integrare più informazioni meteorologiche e geologiche per stimare le concentrazioni giornaliere di PM 2,5 a livello della superficie globale a un'elevata risoluzione spaziale di circa 10 km×10 km per le celle della griglia globale nel 2000-2019, concentrandosi su aree superiori a 15 μg/m3 che è considerato il limite di sicurezza dall'Oms (la soglia è ancora discutibile)». Dallo studio emerge che la concentrazione annuale di PM 2,5 e i giorni di elevata esposizione a PM 2,5 in Europa e Nord America sono diminuiti nel corso dei 20 anni di durata della ricerca, mentre le esposizioni sono aumentate in Asia meridionale, Australia e Nuova Zelanda, America Latina e Caraibi. Inoltre, lo studio ha rilevato che: Nonostante una leggera diminuzione dei giorni di esposizione ad alto PM 2,5 a livello globale, nel 2019 oltre il 70% dei giorni presentava ancora concentrazioni di PM 2,5 superiori a 15 μg/m3. Nell'Asia meridionale e orientale, oltre il 90% dei giorni ha avuto concentrazioni giornaliere di PM 2,5 superiori a 15 μg/m3. Australia e Nuova Zelanda hanno registrato un marcato aumento del numero di giorni con alte concentrazioni di PM 2,5 nel 2019. A livello globale, la media annua di PM 2 . 5 dal 2000 al 2019 era di 32,8 µg/m3. Le concentrazioni più elevate di PM 2,5 sono state distribuite nelle regioni dell'Asia orientale (50,0 µg/m3) e dell'Asia meridionale (37,2 µg/m3), seguite dall'Africa settentrionale (30,1 µg/m3). L'Australia e la Nuova Zelanda (8,5 μg/m3), altre regioni dell'Oceania (12,6 μg/m3) e l'America meridionale (15,6 μg/m3) hanno registrato le concentrazioni annuali di PM 2,5 più basse. Sulla base del nuovo limite delle linee guida dell'Oms del 2021, solo lo 0,18% della superficie terrestre globale e lo 0,001% della popolazione mondiale sono stati esposti a un'esposizione annuale inferiore a questo limite delle linee guida (media annuale di 5 μg/m3) nel 2019. Guo fa notare che «Le concentrazioni non sicure di PM 2,5 mostrano anche diversi modelli stagionali. Incluse la Cina nord-orientale e l'India settentrionale durante i mesi invernali (dicembre, gennaio e febbraio), mentre le aree orientali del Nord America avevano un alto PM 2,5 nei mesi estivi ( giugno, luglio e agosto). Abbiamo anche registrato un inquinamento atmosferico da PM 2,5 relativamente elevato in agosto e settembre in Sud America e da giugno a settembre nell'Africa subsahariana». Guo conclude: «Lo studio è importante perché fornisce una profonda comprensione dello stato attuale dell'inquinamento dell'aria esterna e dei suoi impatti sulla salute umana. Con queste informazioni, i responsabili politici, i funzionari della sanità pubblica e i ricercatori possono valutare meglio gli effetti sulla salute a breve e lungo termine dell'inquinamento atmosferico e sviluppare strategie di mitigazione dell'inquinamento atmosferico». L'articolo Particolato PM2,5: solo lo 0,001% della popolazione mondiale al di sotto dei livelli di sicurezza Oms sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Cnr, intelligenza artificiale al lavoro per migliorare la tutela dei cetacei nel Golfo di Taranto

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Il Cnr-Stiima di Bari ha condotto – insieme a Jdc, Cmcc e le Università di Bari e della Basilicata – uno studio per comprendere meglio habitat e usi dei cetacei nel Golfo di Taranto, usando per la prima volta tecnologie di intelligenza artificiale. «I cetacei sono esposti a molteplici stress di natura antropica e ai cambiamenti climatici. Valutare lo stato di conservazione di queste specie diventa dunque strategico per impostare efficaci piani di gestione sostenibile della risorsa mare e, nello stesso tempo, per la conservazione delle aree critiche per la fauna marina d’interesse comunitario – spiega Rosalia Maglietta esperta di intelligenza artificiale del Cnr-Stiima – Per farlo, abbiamo utilizzato descrittori ambientali forniti dalla Fondazione Cmcc e ricavati mediante l’uso di tecniche di telerilevamento spaziale e di prodotti di modellistica numerica del Servizio europeo Marine Core Service, che forniscono una vasta gamma di informazioni in relazione ai dati raccolti sull’ambiente in cui i delfini vivono, per la prima volta investigati e presentati in uno studio scientifico. Sfruttando le informazioni contenute nei descrittori ambientali forniti dal Servizio Copernicus, le intelligenze artificiali hanno consentito di predire l’abbondanza di tre odontoceti più diffusi nel Mar Ionio settentrionale: la stenella striata, il tursiope e il grampo». I risultati della ricerca sono stati pubblicati su Scientific Reports, grazie allo studio Environmental variables and machine learning models to predict cetacean abundance in the Central-eastern Mediterranean Sea. «Preziosi per l’esame dell’habitat sono stati i dati di avvistamento raccolti nell’area di studio dall’Associazione Jonian Dolphin Conservation, lungo un arco temporale di oltre 10 anni, tra l’estate del 2009 e quella del 2022, secondo un rigido protocollo scientifico. Le attività di Citizen Science sviluppate dall’associazione, con il coinvolgimento di cittadini, studenti e turisti, sono inoltre risultate strategiche per l’acquisizione con continuità temporale di questi dati – conclude Maglietta – Lo studio, con il suo carattere multidisciplinare, porta avanzamento e nuova conoscenza sull’utilizzo dell’habitat da parte di questi odontoceti.  Inoltre, la strategia di analisi e studio sviluppata potrebbe essere efficacemente applicata anche in altre aree geografiche e su specie di cetacei differenti». L'articolo Cnr, intelligenza artificiale al lavoro per migliorare la tutela dei cetacei nel Golfo di Taranto sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Cambiamento climatico: aumenta la diffusione di un parassita pericoloso per la salute umana

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Secondo lo studio “Current and future distribution of a parasite with complex life cycle under global change scenarios: Echinococcus multilocularis in Europe”, pubblicato su Global Change Biology da un team di ricercatori dell’università di Pisa, Istituto di bioeconomia CNR Firenze e Fondazione Edmund Mach di Trento, « Per effetto del cambiamento climatico la distribuzione di Echinococcus multilocularis, un parassita di canidi e piccoli mammiferi, e dannoso per la salute umana, è in espansione». Echinococcus multilocularis è un verme piatto che circola tra canidi (selvatici e domestici) e piccoli mammiferi (soprattutto roditori) e che causa una grave patologia denominata Echinococcosi alveolare che ha spesso esiti fatali nell’uomo. Si tratta del secondo più importante parassita trasmesso per via orale all’uomo in Europa, e terzo al mondo dopo la Taenia solium e l’Echinococcus granulosus. Il professor Alessandro Massolo del Dipartimento di biologia dell’università di Pisa, che ha condotto il team di ricerca, a spiega che «Il cambiamento globale in corso sta influenzando drammaticamente la diffusione e l’emergere di molte malattie infettive, sia nelle popolazioni umane, sia in quelle animali, si stima infatti che oltre il 60% delle malattie infettive umane conosciute e circa il 75% di quelle emergenti siano causate da agenti patogeni di origine animale; comprendere dunque l'impatto del cambiamento globale sulla distribuzione e la prevalenza dei parassiti è una questione cruciale per la salute pubblica». Insieme al professor Massolo, per l’Ateneo pisano hanno lavorato alla ricerca Lucia Cenni, dottoranda in biologia, e Andrea Simoncini, studente di magistrale di biologia in conservazione ed evoluzione - WCE. Hanno partecipato allo studio anche Heidi Christine Hauffe e Annapaola Rizzoli della Fondazione Edmund Mach di Trento e Luciano Massetti dell’Istituto per la Bioeconomia del CNR di Firenze. Con l’aiuto di tecniche di machine learning, il team di ricercatori ha analizzato, la distribuzione attuale e futura in Europa di Echinococcus multilocularis, sulla base di scenari di cambiamento climatico e di uso del suolo e ne è venuto fuori che «Le proiezioni suggeriscono un aumento generale di aree ad molto idonee per questo parassita verso le latitudini settentrionali (Gran Bretagna e Penisola Finno-scandinava) e nell'intera regione alpina, mentre ne prevedono una diminuzione in Europa centrale (Germania, Polonia, Svizzera, Austria e Repubblica Ceca)». Masslo evidenzia che «Per la prima volta abbiamo stimato la distribuzione di Echinococcus multilocularis in base a vari scenari relativi ai cambiamenti climatici e all’uso del suolo, per farlo abbiamo integrato varie discipline quali l’ecologia animale, la modellizzazione ecologica, la parassitologia e la epidemiologia».   L'articolo Cambiamento climatico: aumenta la diffusione di un parassita pericoloso per la salute umana sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Cinque ricercatori dall’Ucraina all’Italia: due saranno ospitati all’Università di Pisa

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Il bando MSCA4Ukraine (Marie- Skłodowska Curie Actions for Ukraine), finanziato dall’Ue, permetterà a ricercatori e ricercatrici ucraini di continuare il loro lavoro presso università ed enti di ricerca in 21 paesi europei, con l’Ateneo pisano in prima fila. «Dare la possibilità a studenti, docenti e ricercatori ucraini di continuare i loro studi e le loro attività di ricerca nelle nostre aule e nei nostri laboratori è l’azione più concreta che possiamo mettere in campo come comunità accademica – dichiara il rettore, Riccardo Zucchi – per aiutare una popolazione colpita dalla guerra. Il programma MSCA4Ukraine nasce proprio con questo intento e come Università di Pisa siamo onorati di poter ospitare due dei cinque ricercatori che arriveranno in Italia». Il progetto presso dipartimento di Chimica e chimica industriale durerà 12 mesi e verrà svolto da uno studente di dottorato dell’Istituto di chimica organica della National academy of sciences dell’Ucraina, con sede a Kyiv. Lo studente avrà come tutor il professor Gaetano Angelici e svolgerà un progetto di ricerca dal titolo “Sintesi di eterocicli funzionalizzabili per lo studio di nuovi coniugati peptidomimetici per applicazioni biomediche”. Il progetto presso il dipartimento di Ingegneria civile e industriale durerà 24 mesi e verrà svolto da un ricercatore dell’Istituto di geochimica ambientale della National academy of sciences dell’Ucraina. Il ricercatore avrà come tutor la professoressa Rosa Lo Frano e svolgerà un progetto dal titolo “Valutazione dell'accumulo, della contaminazione e della migrazione del trizio in impianti nucleari in calcestruzzo”. E una volta finita la durata del progetto di ricerca? Il programma MSCA4Ukraine ha anche l’obiettivo di facilitare il reinserimento dei ricercatori in Ucraina nel caso, dopo il periodo del finanziamento, siano soddisfatte le condizioni per un rientro sicuro, al fine di prevenire la fuga permanente dei cervelli e contribuire a rafforzare il settore universitario e della ricerca ucraino e la collaborazione e lo scambio con la comunità di ricerca internazionale. L'articolo Cinque ricercatori dall’Ucraina all’Italia: due saranno ospitati all’Università di Pisa sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

I cani randagi di Chernobyl, sopravvissuti al disastro nucleare (VIDEO)

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Il 26 aprile 1986 due esplosioni squarciarono la centrale nucleare di Chernobyl (CNPP), allora nell’Ucraina sovietica, casando il più grande disastro nucleare civile che costrinse migliaia di persone a fuggire dall’area più contaminata, lasciandosi dietro case, cose e  gli animali domestici. Nei giorni successivi al disastro, le squadre di intervento  - i famosi liquidatori - hanno cercato i cani abbandonati e randagi per ucciderli ed evitare che diffondessero la radioattività. Ma alcuni di quei cani sembrano essere sopravvissuti e il nuovo studio “The dogs of Chernobyl: Demographic insights into populations inhabiting the nuclear exclusion zone”, pubblicato su Science Advances da un team di ricercatori statunitensi, ucraini e polacchi, è il risultato della prima ricerca genetica su cani di Chernobyl e, quindi, su un grande mammifero che vive nell'area vietata e il primo passo di un progetto più ampio per determinare come i cani si sono adattati per sopravvivere in uno dei luoghi più radioattivi della Terra. Gli scienziati sperano di utilizzare le conoscenze acquisite per comprendere meglio gli effetti dell'esposizione alle radiazioni a lungo termine sulla genetica e sulla salute umana. Intanto dallo studio pubblicato su Science Advances emerge che «Il DNA raccolto dai cani rinselvatichiti che vivono oggi vicino alla centrale elettrica rivela che sono i discendenti di cani che erano presenti al momento dell'incidente o che si erano stabiliti nell'area poco dopo». I ricercatori evidenziano che «In questo studio, caratterizziamo la composizione genetica dei cani riproduttori liberi che vivono all'interno e intorno al sito del disastro nucleare di Chernobyl del 1986. Precedenti studi hanno dimostrato che i due più grandi disastri nucleari della storia, verificatisi al CNPP nel 1986 e alla centrale nucleare di Fukushima Daiichi nel 2011, hanno entrambi portato a enormi conseguenze ecologiche per la fauna selvatica e gli animali domestici (16-18 ) . Tuttavia, a Chernobyl è stata rilasciata molta più radioattività che a Fukushima, compreso circa sei volte più cesio-137, un radionuclide di lunga vita con un'emivita di oltre 30 anni». Una delle autrici dello studio, Elaine Ostrander del National Human Genome Research Institute del  National Institutes of Health Usa, sottolinea in un’intervista a Nature che «Abbiamo così tanto da imparare da questi animali. Questa è un'occasione d'oro per vedere cosa succede quando generazioni di grandi mammiferi vivono in un ambiente ostile». Gli impatti immediati dell'incidente di Chernobyl sono stati evidenti: circa 30 persone che lavoravano alla centrale elettrica e vigili del fuoco e liquidatori sono morti per avvelenamento da radiazioni entro pochi mesi dalla catastrofe, ancora di più per cancro negli anni successivi. Nelle zone intorno alla centrale esplosa i pini sono appassiti e molte specie di insetti sono scomparse, incapaci di sopravvivere nel suolo radioattivo. Quello che è meno chiaro è come i bassi livelli di materiale radioattivo persistente dopo il disastro colpiscano oggi le piante e gli animali che vivono nei dintorni di Chernobyl. Una manciata di studi ha riportato tassi di mutazione genetica insolitamente elevati nelle rondini e nei moscerini della frutta nelle vicinanze del reattore, che ora è sepolto in un sarcofago di acciaio e cemento. «Ma – ricorda David Brenner, un biofisico delle radiazioni alla Columbia University che non ha partecipato al nuovo studio - gli effetti sulla salute dei bassi livelli di radiazioni sono ancora oggetto di accesi dibattiti. Questo è importante perché le persone rischiano l'esposizione a basse dosi di radiazioni in tutti i tipi di contesti, anche attraverso determinate scansioni mediche o mentre lavorano in centrali nucleari. E’ davvero difficile capire gli effetti di questo tipo di esposizione, ma è piuttosto importante che lo facciamo». E’ stato questo uno dei fattori che nel 2017 ha portato l’autore senior dello studio, Timothy Mousseau, Department of biological sciences dell’università della South Carolinaa unirsi a una missione di volontariato per fornire assistenza veterinaria alle centinaia di cani randagi che vivono nella zona di esclusione, un'area di 2.600 Km2 attorno alla centrale nucleare dove è limitato l'accesso per motivi di sicurezza e da dove i militari russi che hanno invaso l’Ucraina nel 2022 si sono ritirati rapidamente dopo che i soldati hanno cominciato ad ammalarsi in massa. In tre anni di viaggi nell'area di Chernobyl, Mousseau e i suoi colleghi hanno raccolto campioni di sangue da circa 300 cani che vivevano accanto alla centrale nucleare e intorno alla città di Chernobyl e l'analisi del DNA dei cani ha rivelato che, a differenza di lupi e orsi e di altri animali che sono ritornati nell’area dalla quale erano scomparsi prima del disastro, i cani randagi «Non erano nuovi arrivati ​​nella zona». Confrontando i profili genetici dei cani di Chernobyl con quelli di altri cani randagi che vivono nell'Europa orientale, il team ha scoperto che «I canidi nelle vicinanze della centrale elettrica, alcuni dei quali sono imparentati con razze da pastore, sono rimasti isolati da altre popolazioni canine per decenni» e che, nonostante le preoccupazioni dei funzionari sovietici che i cani di Chernobyl migrassero e diffondessero materiale radioattivo, «La maggior parte di questi animali non si era spostata lontano: quelli che vivono più vicino alla centrale elettrica sono geneticamente distinti dai loro parenti che vivono a pochi chilometri di distanza». I ricercatori sottolineano anche un altro aspetto: «Coerentemente con studi precedenti, i nostri risultati evidenziano la tendenza dei cani semi-selvatici, proprio come i loro antenati canidi selvatici, a formare branchi di individui imparentati. Tuttavia, i nostri risultati rivelano anche che all'interno di questa regione, piccoli gruppi familiari o branchi di cani in libertà coesistono in stretta vicinanza l'uno con l'altro, un fenomeno in contrasto con la natura generalmente territoriale del più vicino antenato del cane domestico, il lupo grigio. I cani in libertà nelle aree urbane tendono ad adattare la loro territorialità e il movimento quotidiano in risposta agli esseri umani nella regione; generalmente il loro home range è costituito da un piccolo nucleo, dove dormono, e da una zona cuscinetto, dove cercano il cibo. La combinazione dei comportamenti osservati nei cani di Chernobyl e delle loro complesse strutture familiari suggerisce che le popolazioni di cani di Chernobyl violano il presupposto dell'accoppiamento casuale che è inerente a molti modelli genetici di popolazione. Quando si aumenta la specificità del solo luogo di campionamento, ad esempio, considerando solo i cani del CNPP o della stessa città di Chernobyl, rimane l'osservazione della complessa struttura familiare». Ostrander  fa notare che «La continua presenza dei cani nell'area dimostra che sono stati in grado di sopravvivere e riprodursi, anche mentre vivevano vicino al reattore. Il che è notevole. L'incidente del 1986 ha depositato il micidiale isotopo radioattivo cesio-137 a livelli da 10 a 400 volte più alti vicino alla centrale che nella città di Chernobyl, a soli 15 chilometri di distanza. I campioni di DNA canino sono incredibilmente preziosi perché i cani tendono a condividere molti degli stessi spazi e diete degli esseri umani. Non abbiamo mai avuto l'opportunità di fare questo lavoro su un animale che ci rispecchia così come i cani». Ma Brenner  avverte che «Scoprire quali cambiamenti genetici nei cani sono causati dalle radiazioni e quali sono causati da altri fattori, come consanguineità o inquinanti non radioattivi, non sarà facile». Il team è consapevole di questi problemi, ma i ricercatori sostengono che «La nostra conoscenza dettagliata degli antenati di questi cani, così come la conoscenza dei livelli di radiazioni a cui diversi cani sono stati storicamente esposti, fornisce un focus group ideale per i nostri studi futuri». Lo studio conclude: «In modo univoco, ogni singola popolazione [di cani]nella regione di Chernobyl ha sperimentato livelli differenziali di contaminazione che sono ben registrati, fornendo ulteriori vantaggi nella progettazione sperimentale. La nostra identificazione di aplotipi genomici condivisi e l'istituzione di origini moderne rispetto a quelle ancestrali rappresentano un obiettivo per futuri studi genetici sulle firme delle radiazioni. La popolazione di cani di Chernobyl ha un grande potenziale per informare gli studi sulla gestione delle risorse ambientali in una popolazione in ripresa. Il suo più grande potenziale, tuttavia, risiede nella comprensione delle basi biologiche della sopravvivenza animale e, in ultima analisi, umana in regioni ad alto e continuo impatto ambientale». Intanto, guerra permettendo, Mousseau ha in programma un'altra spedizione di campionamento a giugno. Se la guerra non ha fermato la ricerca, meno turisti “della catastrofe” visitano l’area della centrale nucleare e quindi non lasciano avanzi di cibo e i cani di Chernobyl stanno lottando per cavarsela. Quindi il team di scienziati sta lavorando con l’ONG Clean Future Fund per fornire cibo ai randagi, salvaguardando la sopravvivenza dei cani di Chernobyl - e la loro eredità radioattiva – anche negli attuali durissimi tempi di guerra e nella penuria che seguirà la guerra. L'articolo I cani randagi di Chernobyl, sopravvissuti al disastro nucleare (VIDEO) sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Dall’Ue nuove limiti all’arsenico negli alimenti per ridurre il rischio di cancro

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L'arsenico è un elemento chimico presente in natura a basse concentrazioni nelle rocce, nel suolo e nelle acque sotterranee: gli alimenti e l'acqua potabile sono le principali vie di esposizione umana a questo inquinante, in grado di aumentare il rischio cancerogeno. Per questo la Commissione europea ha adottato nuove norme per ridurre la presenza di arsenico nei prodotti alimentari, considerando che le emissioni industriali dovute all'estrazione e alla combustione di combustibili fossili, come anche l'uso di fertilizzanti, preservanti del legno, insetticidi o erbicidi che contengono il contaminante, possono contribuire a livelli più elevati di arsenico nell'ambiente. «Adottiamo nuove misure per ridurre ulteriormente il rischio di esposizione a un contaminante cancerogeno nella filiera alimentare. I cittadini vogliono sapere che gli alimenti che consumano sono sicuri e queste nuove norme sono un'ulteriore prova del fatto che le regole di sicurezza alimentare dell'Ue rimangono le più rigorose al mondo», commenta la commissaria per la Salute e la sicurezza alimentare, Stella Kyriakides. La decisione, basata su una relazione scientifica dell'Efsa del 2021, è stata adottata dopo che gli Stati membri erano stati invitati a monitorare la presenza di arsenico negli alimenti; finora i tenori massimi di arsenico nei prodotti alimentari erano stati stabiliti nel 2015 sulla base di un parere dell'Efsa, secondo cui l'arsenico inorganico può provocare il cancro della pelle, della vescica e dei polmoni. In particolare, la nuova misura riduce la concentrazione di arsenico inorganico consentita nel riso bianco e fissa nuovi limiti per l'arsenico in molti alimenti a base di riso, formule per lattanti, alimenti per la prima infanzia, succhi di frutta e nel sale. L'articolo Dall’Ue nuove limiti all’arsenico negli alimenti per ridurre il rischio di cancro sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Come si è evoluto il senso di equità. I macachi e l’ingiusta ricompensa

Come si e evoluto il senso di equita
Nonostante a volte non sembri, gli esseri umani hanno un forte senso di equità. Se riteniamo che le risorse vengano distribuite in modo iniquo o errato, di solito protestiamo. Questo comportamento di controllo promuove una cooperazione di successo e spiega in parte perché la cooperazione sia stata una strategia vincente nell'evoluzione umana. Per molto tempo, il senso di equità è stato considerato un attributo esclusivamente umano, poi gli scienziati hanno scoperto che anche gli animali reagiscono con frustrazione se una prestazione viene ricompensata in modo diverso, senza una ragione apparente, come nel famoso video in cui delle scimmie buttano via il cetriolo offertole dal loro addestratore mentre un loro conspecifico riceve uva dolce come ricompensa per lo stesso compito. Ma i ricercatori hanno osservato reazioni altrettanto frustrate di fronte a ricompense ingiuste nei lupi, ratti e corvi. I modelli comportamentali caratteristici possono essere riprodotti in modo affidabile in esperimenti su varie specie di uccelli, roditori e scimmie. Però, gli scienziati continuano a discutere sulle ragioni di questo comportamento: la frustrazione deriva davvero da un'avversione per la disparità di trattamento o c'è un'altra spiegazione? Il nuovo studio “Social disappointment and partner presence affect long-tailed macaque refusal behaviour in an “inequity aversion” experiment”, pubblicato su Royal Society Open Science da un team di ricercatori  del Deutsches Primatenzentrum (DPZ), della Georg-August-Universität Göttingen e dell’Université Sorbonne Paris Nord, ha osservato il comportamento di macachi cinomolghi  (Macaca fascicularis, chiamati anche macaco di Buffon, di Giava e dalla coda lunga) utilizzando un approccio esplicativo alternativo in un progetto collaborativo. Il team di   Rowan Titchener, della Georg-August-Universität Göttingen ed etologo del DPZ, ha dimostrato che «I macachi cinomolghi rifiutano più frequentemente una ricompensa inferiore se viene selezionata e assegnata da una persona. Al contrario, se la ricompensa è fornita da un alimentatore automatico, l'accettano». I ricercatori concludono che «Le scimmie rifiutano la ricompensa per delusione sociale nei confronti dello sperimentatore, e non perché si sentano in svantaggio rispetto a un conspecifico». Nel nuovo studio, i ricercatori hanno testato tre spiegazioni alternative per il comportamento di protesta a seguito di un trattamento ineguale. La prima ipotesi ipotizza "l'avversione all'ineguaglianza" e presuppone il confronto sociale con i conspecifici e un senso di equità e si basa sull'idea che il modello delle ricompense viene confrontato tra se stessi e gli altri in modo che possa essere percepito come ingiusto. La seconda ipotesi, "aspettativa di cibo", presuppone la visibilità del cibo attraente come fattore scatenante della frustrazione. Pertanto, se è visibile una ricompensa di alta qualità, l'animale si aspetta di riceverla. La terza ipotesi si basa sulla "delusione sociale" per la decisione del formatore di fornire una ricompensa inferiore. I risultati del nuovo studio sui macachi cinomolghi  sono in linea con un precedente studio sugli scimpanzé e la Titchener sottolinea che «I modelli di risposta degli animali sono spiegati meglio dalla frustrazione per le decisioni dell'addestratore umano. Pertanto, i risultati attuali parlano a favore della terza ipotesi, basata sulla delusione sociale». Un’interpretazione supportata in particolare dal fatto che i macachi accettavano più spesso una ricompensa inferiore da un alimentatore automatico che da un essere umano. Nell'esperimento i ricercatori hanno confrontato le scimmie in 4 diversi scenari ma con la stessa procedura: all'azionamento di una leva seguiva la ricompensa di cibo di bassa qualità consegnato da un piccolo nastro trasportatore. Sono state mostrate ricompense di alta qualità, ma sono rimaste fuori portata dei macachi. Il progetto sperimentale è stato variato in due modi: nel primo la ricompensa veniva fornita da un essere umano o somministrata da un alimentatore automatico; nel secondo l'animale era solo o un conspecifico ha risolto lo stesso compito mentre poteva vederlo, ma ha ricevuto ricompense di qualità superiore. Le scimmie non hanno quasi mai rifiutato la ricompensa quando veniva fornita dall'alimentatore automatico, ma lo hanno fatto in oltre il 20% degli esperimenti in cui un essere umano ha offerto loro il cibo di minore qualità. Al  DPZ  dicono che «Questo modello comportamentale è coerente con la delusione sociale nei confronti dell'umano che decide di dare loro la ricompensa inferiore». La Titchener aggiunge: «Le scimmie non hanno aspettative sociali nei confronti di un distributore automatico e quindi non restano deluse». Stefanie Keupp, leader dello studio al DPZ conclude: «Una combinazione di delusione sociale nei confronti dello sperimentatore umano e un certo grado di competizione alimentare spiega meglio il comportamento dei macachi dalla coda lunga nel nostro studio». L'articolo Come si è evoluto il senso di equità. I macachi e l’ingiusta ricompensa sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

L’università di Pisa, i cinesi e l’intelligenza artificiale sostenibile

intelligenza artificiale sostenibile
L’obiettivo dello studio “Echo state graph neural networks with analogue random resistive memory arrays”, era quello di contribuire a una intelligenza artificiale sostenibile e progettare reti neurali artificiali a basso impatto energetico. Lo studio è stato pubblicato su Nature Machine Intelligence  da un team di studiosi delle più importanti università cinesi e di Hong Kong e da un unico italiano: Claudio Gallicchio del Dipartimento di informatica dell’università di Pisa che spiega: «In questo studio abbiamo dimostrato come sia possibile progettare reti neurali artificiali che possano essere addestrate ed eseguite su sistemi hardware non-convenzionali, ottenendo risultati predittivi comparabili con quelli ottenibili con le unità di elaborazione grafica (GPU) e al tempo stesso riducendo il consumo energetico fino a oltre 40 volte». La ricerca ha riguardato la progettazione congiunta hardware-software di reti neurali artificiali per grafi, una classe di metodologie informatiche all’avanguardia, utili a risolvere problemi in domini complessi come l’analisi delle reti sociali e la scoperta di nuovi farmaci. Gallicchio evidenzia che «Da un punto di vista informatico gli algoritmi proposti sfruttano una tecnica basata sulla teoria dei sistemi dinamici neurali, nota come Reservoir Computing, per ridurre al minimo la richiesta di calcolo degli algoritmi di addestramento. Da un punto di vista fisico, le reti neurali vengono implementate in random resistive memory arrays, nanodispositivi neuromorfici caratterizzati da un’elevatissima efficienza energetica». I risultati conseguiti sono stati possibili grazie ad una collaborazione interdisciplinare che ha mostrato i vantaggi della realizzazione di algoritmi di apprendimento automatico in hardware neuromorfico, indicando così una direzione promettente per i sistemi di Intelligenza Artificiale di prossima generazione. L'articolo L’università di Pisa, i cinesi e l’intelligenza artificiale sostenibile sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Cambiamento climatico e aggressività nelle società animali: una guerra per le risorse?

Cambiamento climatico e aggressivita nelle societa animali
Lo studio “Animal conflicts escalate in a warmer world”, pubblicato su Science of the Total Environment” da Niccolò Fattorini, Sandro Lovari, Sara Franceschi  Chiara Brunetti, Carolina Baruzzi e Francesco Ferrettidell’università di Siena e da Gianpasquale Chiatante del NBFC - National Biodiversity Future Center di Palermo, fornisce «Evidenze su come l’aumento di aggressività all’interno delle società animali possa configurarsi come una nuova risposta comportamentale al riscaldamento globale». I ricercatori spiegano che «In molte specie animali gli individui competono per l’accesso alle risorse alimentari, e spesso questa competizione può verificarsi attraverso il comportamento aggressivo. Ci siamo chiesti se l’attuale cambiamento climatico, attraverso i suoi effetti sulla crescita della vegetazione, provocati dall’aumento di temperatura e alterazione della piovosità, possa indirettamente intensificare i conflitti per l’accesso alle risorse da parte di mammiferi erbivori. Abbiamo quindi preso in esame il camoscio appenninico, un erbivoro a rischio di estinzione che abita le alte quote, ambienti particolarmente sensibili al cambiamento climatico». Lo studio, che ha indagato per la prima volta questi meccanismi nel Regno animale, dimostra come «L’aumento della temperatura e la diminuzione delle piogge durante il periodo estivo inneschino, nei giorni successivi, un aumento di frequenza e intensità delle interazioni aggressive tra le femmine di camoscio per l’accesso alle fonti di cibo». Il team di ricercatori di Siena e del NBFC  sottolinea che «Nel nostro caso, il meccanismo è indiretto: l’aumento di temperatura e la diminuzione della piovosità riducono la disponibilità e la qualità delle risorse alimentari per il camoscio, provocando di conseguenza interazioni aggressive più frequenti ed intense tra gli individui. I nostri risultati supportano quindi la teoria ecologica che prevede che l’aggressività aumenti nei casi in cui le risorse alimentari diventino meno abbondanti». Alcuni a studi precedenti che hanno analizzato i conflitti umani nel corso della storia. avevano ipotizzato un meccanismo comparabile, suggerendo un aumento dei conflitti bellici per l’acquisizione delle risorse divenute più scarse a causa del cambiamento climatico. All’UniSi  sottolineano che «Le simulazioni sviluppate nello studio, coerenti con gli scenari di previsione del riscaldamento globale, prevedono per il camoscio un aumento dell’aggressività pari al 50% nei prossimi 60 anni. Tuttavia, al momento non siamo ancora in grado di affermare se risposte comportamentali di questo genere si diffonderanno con l’attuale cambiamento climatico o se resteranno piuttosto localizzate, poiché gli effetti potrebbero differire da specie a specie, e tra le diverse aree geografiche del pianeta». I ricercatori concludono: «Negli ultimi decenni, gli studi in natura sulle risposte ecologiche e comportamentali degli animali selvatici ai cambiamenti climatici si sono moltiplicati, ma i possibili effetti sull’aggressività erano ancora ignoti. Questo studio apre nuove prospettive per indagare i meccanismi che influenzano le modalità e il grado di competizione nelle specie animali, con implicazioni per la ricerca etologica e per la conservazione della biodiversità». L'articolo Cambiamento climatico e aggressività nelle società animali: una guerra per le risorse? sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.