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Al via il meeting Ipcc per approvare la parte finale del Sixth Assessment Report

meeting Ipcc per approvare la parte finale del Sixth Assessment Report
Oggi a Interlaken, in Svizzera è iniziata la riunione dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) che entro il 17 marzo dovrebbe  approvare il rapporto di sintesi del Sixth Assessment Report, la parte finale che Integra e riassume i risultati dei 6 rapporti pubblicati dall'IPCC durante l'attuale ciclo iniziato nel 2015 e che include 3 Special Reports e 3 contributi dell’IPCC Working Group al Sixth Assessment Report. Durante questo meeting, l'IPCC approverà riga per riga, il Summary for Policymakers del Synthesis Report  e adotterà anche il rapporto più lungo sezione per sezione. Aprendo la riunione il presidente dell'IPCC Hoesung Lee ha spiegato che «Una volta approvato, il Synthesis Report diventerà un documento politico fondamentale per plasmare l'azione per il clima nel resto di questo decennio cruciale. Un libro di testo indispensabile per i responsabili politici di oggi e di doman, per affrontare il cambiamento climatico. Non commettiamo errori, l'inazione e i ritardi non sono elencati come opzioni» Il consigliere federale svizzero Albert Rösti ha dato il benvenuto a oltre 650 delegati presenti a questa plenaria dell'IPCC: «I risultati dell’Intergovernmental Panel on Climate Change aiutano noi, responsabili politici, a prendere decisioni informate per affrontare il cambiamento climatico. La scienza e la conoscenza devono svolgere un ruolo centrale nel plasmare il nostro processo decisionale, guidandoci mentre lavoriamo per mitigare e adattarci agli impatti dei cambiamenti climatici». Il Segretario generale dell’Onu, António Guterres, ha ricordato che «Le prove fornite dall'IPCC sul cambiamento climatico sono state chiare, convincenti e inconfutabili. L'IPCC deve ora indicare la strada verso soluzioni, quindi l'urgente necessità di porre fine al riscaldamento globale con la freddezza concreta dei fatti». Il segretario generale della World meteorological organization, Petteri Taalas, ha aggiunto: «Vorrei ringraziare tutti voi per il duro lavoro per quei rapporti, che hanno chiaramente un messaggio chiaro per i responsabili delle decisioni. Dobbiamo accelerare le nostre azioni per il clima. Al momento, ci stiamo dirigendo verso un riscaldamento troppo elevato e i vari impatti del cambiamento climatico sono già molto visibili in tutto il mondo». Anche la direttrice esecutiva dell’United Nations environment programme, Inger Andersen, ha chiesto ai delegati di «Non commettere errori, quio la parola chiave è azione. Abbiamo bisogno di più azioni da parte dei governi, imprese e investitori, anzi da parte di tutti. Il lavoro dell'IPCC, al quale fa eco quello dell'UNEP con la sua ricerca, ci dice che abbiamo la conoscenza e la tecnologia di cui abbiamo bisogno. Che possiamo iniziare a ridurre drasticamente le emissioni e ad aiutare le comunità vulnerabili ad adattarsi ai cambiamenti climatici. E che agendo sul clima, stiamo agendo anche sulla natura e sulla perdita di biodiversità e sull'inquinamento e i rifiuti: gli altri due poli della tripla crisi planetaria». Dopo aver ricordato di aver detto alla Cop27 Unfccc che avrebbe incrementato la collaborazione e una partnership più stretta e produttiva  con l’IPCC, il nuovo segretario esecutivo dell’United Nations framework convention on climate change, Simon Stiell,  ha sottolineato che «Le vostre valutazioni sono fondamentali per l'Unfccc e per l'intero spettro dei processi per affrontare il cambiamento climatico. Il vostro lavoro negli ultimi 5 anni - il più duro e ambizioso nella storia dell'IPCC - ha trasformato la comprensione del cambiamento climatico. Da parte dell’opinione pubblica. Avete esposto i fatti, i rischi e le opportunità. Ora il rapporto di sintesi mette insieme questa storica impresa scientifica. Sarà un contributo chiave per il Global Stocktake entro la fine dell'anno. Abbiamo bisogno di questo rapporto per la COP28 e tutti gli incontri in tutto il mondo nei prossimi 9 mesi, dove il clima deve rimanere in cima all'agenda». Per questo Stiell ha esortato i rappresentanti dei governi nell’IPCC a «Lavorare insieme in modo collegiale e produttivo questa settimana per ottenere un risultato tempestivo. Non cavillate su virgole e fraseologia. Concentratevi sul messaggio principale, l'entità del problema che dobbiamo affrontare. Il Global Stocktake di quest'anno è per noi un'opportunità per correggere il danno. Sappiamo già cosa ci dirà il rapporto. E non è abbastanza buono. Tracciamo quindi un percorso partendo  dai chiari messaggi che l’AR6 ci ha dato. L'IPCC ha dimostrato come le attività umane come bruciare combustibili fossili e cambiare il modo in cui usiamo la terra stanno cambiando il nostro clima. Non ci ha lasciato dubbi sui rischi che corriamo se non facciamo nulla. E ha illuminato le opportunità di azione e l'economia delle soluzioni. Conosciamo i costi dell'azione e dell'inazione. Sappiamo di quali tecnologie abbiamo bisogno per l'upscaling. Conosciamo i cambiamenti richiesti per gli investimenti e ai flussi finanziari. Abbiamo opzioni in tutti i settori per dimezzare o più emissioni entro il 2030, con l'economia globale che continui a crescere. Per mantenere gli 1,5° C a portata di mano, abbiamo bisogno di tagli immediati e profondi alle emissioni in tutti i settori e regioni». Stiell  ha concluso: «Sappiamo cosa dobbiamo fare. Ora dobbiamo rafforzare la volontà politica per rendere possibile questa correzione di rotta. L'IPCC indica il percorso che possiamo intraprendere oltre il Global Stocktake. Tracciare una rotta per il 2030, dobbiamo colmare i gap nell'azione e nel sostegno, costruendo allo stesso tempo la resilienza. Quindi, vi auguro una sessione produttiva e fruttuosa, concludendo il Sixth Assessment e fornendo le conoscenze ai responsabili politici per seguire il percorso di cui abbiamo bisogno per un'economia prospera e climaticamente sostenibile in futuro». L'articolo Al via il meeting Ipcc per approvare la parte finale del Sixth Assessment Report sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Le città italiane sono ancora indietro sui Piani di adattamenti ai cambiamenti climatici

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La crisi climatica avanza velocemente in Europa e in Italia in particolare, dove il 2022 è stato l’anno più caldo almeno dal 1800 e ha portato ad una robusta crescita (+55%) negli eventi meteo estremi. Una tendenza che impone di concretizzare politiche di adattamento (oltre che di mitigazione) a tutti i livelli, di cui è necessario soppesare la bontà. Il nuovo studio Quality of urban climate adaptation plans over time, appena pubblicato su Nature Npj Urban Sustainability da parte di un team internazionale di ricerca – a cui per l’Italia hanno contribuito il Cnr e l’Università di Trento – offre per la prima volta criteri univoci per stabilire la qualità dei Piani di adattamento ai cambiamenti climatici. «Dopo l'Accordo di Parigi del 2015, è cresciuto l’interesse di studiosi e governanti verso la valutazione dei progressi dei Piani di adattamento ai cambiamenti climatici alle diverse scale: in questo contesto, però, manca una metodologia univoca per valutarne la qualità e verificarne i progressi nel tempo – spiega la ricercatrice Monica Salvia del Cnr-Imaa – A tal fine, abbiamo per la prima volta definito un indice di qualità, l’Adaptation plan quality assessment (Adaqa), che ci ha permesso di identificare i punti di forza e di debolezza dei processi di pianificazione dell'adattamento urbano nelle città europee». Tale indice è stato, quindi, calcolato per i 167 Piani di adattamento adottati tra il 2005 e il 2020 in un campione rappresentativo di 327 città medie e grandi di 28 Paesi europei, per valutarne la qualità e l'evoluzione nel tempo. Esaminando le diverse componenti dei Piani, si nota che le città sono migliorate soprattutto nella definizione degli obiettivi di adattamento e nell’identificazione di misure e azioni nei diversi settori. «Nel complesso – aggiunge la ricercatrice Filomena Pietrapertosa (Cnr-Imaa) – i Piani di adattamento delle città europee ottengono una buona valutazione nella descrizione delle misure di adattamento (51% del punteggio massimo), nella definizione degli obiettivi di adattamento (50%) e nella identificazione degli strumenti e processi di attuazione (46%). I risultati mostrano che la qualità dei Piani è migliorata significativamente nel tempo, sia su base annua sia nel corso degli ultimi 15 anni. Viceversa, i Piani presentano carenze nel livello di partecipazione pubblica al processo di definizione del Piano (17%), e nella definizione delle fasi di monitoraggio e di valutazione (20%). Tuttavia, la situazione è in continua evoluzione e in rapido cambiamento». In compenso, il panorama italiano risulta abbastanza indietro, sia in termini di numero di Piani urbani sviluppati, sia in termini di qualità: «Tra le 32 città italiane incluse nel campione, risulta che solo due città - Bologna e Ancona - avevano nel 2020 un Piano di adattamento: una situazione che, probabilmente, risente dell’assenza di un quadro di riferimento nazionale per supportare la definizione di strategie e Piani locali e regionali: il Piano nazionale di adattamento è infatti ancora in fase di adozione», conclude Salvia. Il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (Pnacc), dopo essere rimasto fermo in bozza nei cassetti ministeriali dal 2017, lo scorso dicembre è stato ripubblicato in una versione parzialmente aggiornata e sta concludendo adesso la fase di consultazione pubblica. L'articolo Le città italiane sono ancora indietro sui Piani di adattamenti ai cambiamenti climatici sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

L’acqua della Terra è più vecchia del Sole

Lacqua della Terra
Secondo lo studio “Deuterium-enriched water ties planet-forming disks to comets and protostars”, pubblicato su Nature da un team internazionale di ricercatori, «Le osservazioni dell'acqua nel disco che si forma attorno alla protostella V883 Ori hanno svelato indizi sulla formazione di comete e planetesimi nel nostro Sistema Solare» Gli scienziati che studiano V883 Orionis, una protostella “vicina”, a circa 1.305 anni luce dalla Terra, nella costellazione di Orione.  hanno rilevato la presenza di acqua nel suo disco circumstellare. I ricecatori dicono che «Le nuove osservazioni effettuate con l'Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA) segnano il primo rilevamento di acqua ereditata in un disco protoplanetario senza cambiamenti significativi nella sua composizione. Questi risultati suggeriscono inoltre che l'acqua nel nostro Sistema Solare si sia formata miliardi di anni prima del Sole». Le nuove osservazioni sono pubblicate oggi su Nature. Le nuove osservazioni di V883 Orionis hanno aiutato gli scienziati a trovare un probabile collegamento tra l'acqua nel medium interstellare e l'acqua nel nostro Sistema Solare confermando che hanno una composizione simile. L’autore principale dello studio, lo statunitense John Tobin, astronomo del National Radio Astronomy Observatory (NRAO) della National Science Foundatio, spiega: «Possiamo pensare al percorso dell'acqua attraverso l'Universo come a un sentiero. Sappiamo che aspetto hanno gli estremi, che sono l'acqua sui pianeti e nelle comete, ma volevamo tracciare quel percorso fino alle origini dell'acqua. Prima d'ora, potevamo collegare la Terra alle comete e le protostelle al medium interstellare, ma non potevamo collegare le protostelle alle comete. V883 Ori ha cambiato la situazione e ha dimostrato che le molecole d'acqua in quel sistema e nel nostro Sistema Solare hanno un rapporto simile di deuterio e idrogeno». Al NRAO ricordano che «L'osservazione dell'acqua nei dischi circumstellari attorno alle protostelle è difficile perché nella maggior parte dei sistemi l'acqua è presente sotto forma di ghiaccio. Quando gli scienziati osservano le protostelle, stanno cercando la linea della neve o del ghiaccio, che è il luogo in cui l'acqua passa da ghiaccio prevalentemente a gas, che la radioastronomia può osservare in dettaglio». Tobin ha aggiunto: «Se il limite della neve si trova troppo vicino alla stella, non c'è abbastanza acqua gassosa per essere facilmente rilevabile e il disco polveroso potrebbe bloccare gran parte dell'emissione di acqua. Ma se il limite della neve si trova più lontano dalla stella, c'è acqua gassosa sufficiente per essere rilevabile, e questo è il caso di V883 Orionis. Lo stato unico della protostella è ciò che ha reso possibile questo progetto. Il disco di V883 Orionis  è piuttosto massiccio ed è abbastanza caldo da trasformare l'acqua al suo interno da ghiaccio in gas. Questo rende questa protostella un obiettivo ideale per studiare la crescita e l'evoluzione dei sistemi solari a lunghezze d'onda radio. Joe Pesce, responsabile del programma NSF per ALMA, sottolinea che «Questa osservazione evidenzia le superbe capacità dello strumento ALMA nell'aiutare gli astronomi a studiare qualcosa di vitale importanza per la vita sulla Terra: l'acqua, Una comprensione dei processi sottostanti, importanti per noi sulla Terra, osservati in regioni più distanti della galassia, avvantaggia anche la nostra conoscenza di come funziona la natura in generale e i processi che hanno dovuto verificarsi affinché il nostro Sistema Solare si sviluppasse in ciò che sappiamo essere oggi». Per collegare l'acqua nel disco protoplanetario di V883 Orionis a quella nel nostro Sistema Solare, il team  di scienziati ha misurato la sua composizione utilizzando i ricevitori di ALMA Band 5 (1,6 mm) e Band 6 (1,3 mm) ad elevata sensibilità e ha scoperto che «Rimane relativamente invariata tra uno stadio e l'altro. della formazione del sistema solare: protostella, disco protoplanetario e comete». Merel van 't' Hoff, astronomo dell'università del Michigan e coautore dello studio, evidenzia che «Questo significa che l'acqua nel nostro Sistema Solare si è formata molto prima che si formassero il Sole, i pianeti e le comete. Sapevamo già che c'è molto ghiaccio d'acqua nel medium interstellare. I nostri risultati mostrano che quest'acqua è stata incorporata direttamente nel Sistema Solare durante la sua formazione. Questo è eccitante in quanto suggerisce che anche altri sistemi planetari avrebbero dovuto ricevere grandi quantità di acqua». Chiarire il ruolo dell'acqua nello sviluppo di comete e planetesimi è fondamentale per capire come si è sviluppato il nostro Sistema Solare. Sebbene si creda che il Sole si sia formato in un denso ammasso di stelle e V883 Ori sia relativamente isolato senza stelle vicine, i due sistemi condividono una cosa fondamentale in comune: si sono entrambi formati in gigantesche nubi molecolari. Un’altra autrice dello studio, Margot Leemker, astronoma dell'Universiteit Leiden spiega a sua volta: «E’ noto che la maggior parte dell'acqua nel medium interstellare si forma sotto forma di ghiaccio sulla superficie di minuscoli granelli di polvere nelle nuvole. Quando queste nubi collassano sotto la loro stessa gravità e formano giovani stelle, l'acqua finisce nei dischi che le circondano. Alla fine, i dischi si evolvono e i granelli di polvere ghiacciata si coagulano per formare un nuovo sistema solare con pianeti e comete. Abbiamo dimostrato che l'acqua che si produce nelle nuvole segue questa scia praticamente invariata. Quindi, guardando l'acqua nel disco V883 Ori, essenzialmente guardiamo indietro nel tempo e vediamo come appariva il nostro Sistema Solare quando era molto più giovane». Tobin conclude: «Fino ad ora, la conoscenza catena dell'acqua nello sviluppo del nostro Sistema Solare era interrotta. V883 Ori è l'anello mancante in questo caso, e ora abbiamo una catena ininterrotta nel lignaggio dell'acqua dalle comete e protostelle al medium interstellare». L'articolo L’acqua della Terra è più vecchia del Sole sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

La provincia di Trento vuole abbattere l’orso MJ5. Legambiente e Wwf: decisione illegittima

orso MJ5
L’esame del DNA realizzato dalla Fondazione Edmund Mach ha accertato che l’orso autore dell’aggressione avvenuta il 5 marzo in Val di Rabbi, in Trentino,  contro Alessandro Cicolini  - accompagnato dal suo cane – che ha riportato ferite abbastanza lievi, è stato identificato come MJ5 e la stessa Provincia di Trento ammette in una nota che  «Si tratta di un maschio di 18 anni che in passato non si era mai reso protagonista di altri episodi simili, né aveva manifestato comportamenti a rischio, l’orso che domenica 5 marzo ha aggredito un uomo in Val di Rabbi. L’orso è figlio di Maya e Joze, due esemplari introdotti dalla Slovenia con i quali è partito il progetto Life Ursus in Trentino. Secondo i dati in possesso del Servizio Fauna della Provincia, «MJ5 dal 2005 al 2022 ha frequentato buona parte del Trentino occidentale, spingendosi occasionalmente sul territorio della provincia di Bolzano, stanziando soprattutto nell’ambito del Brenta meridionale». Il Wwf sottolinea che «Questo esemplare non siera mai reso protagonista prima di episodi di interazione con persone, e dunque sia necessaria massima attenzione nella gestione di questo caso del quale ancora non si conoscono molti dettagli, come ad esempio il ruolo del cane (slegato o al guinzaglio?) nella dinamica dell’aggressione. Come ribadito nel documento di Ispra del 2021 sulla gestione degli orsi problematici, i casi di orsi che causano ferimento di persone per la prima volta, senza aver manifestato comportamenti simili in precedenza, vanno valutati attentamente caso per caso. Prima di considerare l’ipotesi di abbattimento o rimozione vanno analizzate con cautela le dinamiche che hanno portato all’attacco, compreso il comportamento della persona coinvolta». Eppure, non appena accertata l’identità dell’orso,  il presidente della Provincia autonoma di Trento, il leghistaMaurizio Fugatti, ha subito annunciato che «Ho già avuto un’interlocuzione con il ministro all’Ambiente, Pichetto Fratin per informarlo dell’esito delle analisi genetiche e delle decisioni della Provincia. In parallelo invieremo nelle prossime ore ad Ispra la richiesta di abbattimento, così come prevede la norma»- Una decisione che vede nettamente contrario Antonio Nicoletti responsabile nazionale aree protette e biodiversità di Legambiente: «Ancora una volta la provincia autonoma di Trento prende una decisione autonoma e illegittima che non li compete. Non spetta, infatti, alla provincia decidere che tipo di intervento mettere in campo tanto meno quello di condannare a morte un orso, come sta accadendo per l’esemplare MJ5 che ha aggredito nei giorni scorsi un uomo in Val di Rabbi. L’errore che commette il presidente della provincia autonoma di Trento Maurizio Fugatti è quello di interpretare in maniera estensiva la possibilità prevista dal PACOBACE, il Piano d’azione interregionale per la tutela dell’orso bruno sulle alpi centro-orientali, di intervenire con azioni di controllo volte a risolvere i problemi e/o limitare i rischi connessi alla presenza di un orso problematico. Ma tale decisione non spetta alla Provincia autonoma di Trento, bensì all’Ispra che deve esprimere un parere nel merito, poi la decisione finale la prenderà il Ministero dell'Ambiente e della Sicurezza Energetica. Questo Fugatti lo sa bene, eppure ancora una volta prende decisioni che non li competono ribadendo che intende comunque procedere all’abbattimento dell’esemplare. Pertanto,  ben venga il monito arrivato ieri dallo stesso Dicastero dell’Ambiente che ha ricordato il ruolo dell’Ispra, alla quale chiediamo di esprimersi al più presto. Siamo convinti che la condanna a morte di un orso rappresenta sempre una sconfitta sia per l’uomo sia per il lavoro di gestione e di tutela che viene messo in campo anche attraverso i progetti Life. Le problematiche di gestione di specie emblematiche, come il lupo o l’orso, ci dimostrano che per difendere la biodiversità quello che serve è il supporto della scienza e una grande capacità nella gestione della complessità territoriale e istituzionale, ma anche un nuovo patto di collaborazione tra parchi e comunità locali, da cui è indispensabile ripartire con obiettivi chiari e condivisi». Per Legambiente. «La convivenza tra l’uomo e i grandi predatori, come l’orso e il lupo, è una delle grandi sfide da affrontare seriamente a partire dalle aree più problematiche». Come sottolineato nel suo ultimo report “Natura Selvatica a rischio in Italia”, l’associazione ambientalista ricorda che «Oggi, ad esempio, sono diversi gli strumenti suggeriti e adottati per il contenimento del conflitto tra attività di allevamento e grandi predatori. Ad esempio, in Appennino tra gli strumenti suggeriti e adottati rivolti agli allevatori ci sono: i cani da guardia, le recinzioni fisse ed elettrificate, la presenza continua del pastore, i dissuasori acustici e ottici, i procedimenti per i risarcimenti economici gestiti online o esperimenti come il gregge del parco che permette di avere subito disponibile la pecora predata riducendo le perdite aziendali». Andrea Pugliese, presidente di Legambiente Trento, ricorda che «Il progetto LifeUrsus con la reintroduzione dell'orso bruno nelle aree del Brenta, dove era in via di estinzione,   è stata un'iniziativa importante dal punto di vista ecologico, riportando una specie iconica sulle Alpi Centrali, e ha avuto anche importanti ricadute sull'immagine del territorio. Purtroppo negli ultimi anni la politica locale ha preferito enfatizzare i pericoli provocati dagli orsi, anziché aiutare a costruire la convivenza dell'uomo con i grandi carnivori, sulla base di protocolli scientifici. L'attacco diretto a un uomo (a cui vanno certamente i nostri auguri), avvenuto nei giorni scorsi a Rabbi, è un episodio previsto dal Pacobace, dopo il quale gli esperti dell'Ispra potranno prevedere azioni diverse, fra le quali l'abbattimento è solo un caso estremo. Pensiamo che sia opportuno avere prima di tutto un parere tecnico e solo a valle valutare l'intervento più adeguato». Il Wwf evidenzia che «La Provincia autonoma di Trento continua invece a considerare l’orso come una specie “naturalmente pericolosa”, pretendendo una gestione completamente autonoma e non ritenendo il parere di Ispra vincolante in alcun modo. Questo approccio non è sostenibile né scientificamente condivisibile. l ricorso agli abbattimenti dovrebbe essere sempre l’ultima soluzione, quando la pericolosità dell’animale è conclamata e non esistono altre soluzioni valide. A sostegno di questo, nel 2022 anche il Consiglio di Stato ha bocciato le linee guida provinciali che prevedevano una gestione territoriale di orsi e lupi e l’automatismo tra i danni causati o l’aggressione compiuta da un orso e l’abbattimento dell’animale, in palese contrasto con i principi di proporzionalità e di precauzione». Per questo, il Wwf auspica che «La Provincia Autonoma di Trento riprenda un percorso fondato sulla promozione della convivenza, partendo dalla conoscenza e non dai pregiudizi. L’espansione della popolazione di orso in Trentino e sull’arco alpino necessita di essere ulteriormente consolidata, ma questo processo è possibile solo lavorando nella direzione di una gestione equilibrata, senza il ricorso ad abbattimenti “facili”. Comunicazione e sensibilizzazione sui corretti comportamenti da adottare in montagna e la liberalizzazione dello spray al peperoncino anti-orso, considerato ancora illegale in Italia, e che invece ha dimostrato la sua efficacia in Nord America, sono tutte opzioni incruente e auspicabili, che possono aiutare a costruire una coesistenza reale e ad evitare episodi simili in prospettiva futura». L'articolo La provincia di Trento vuole abbattere l’orso MJ5. Legambiente e Wwf: decisione illegittima sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

I bombi imparano nuove tendenze comportamentali osservando e imparando dagli altri

I bombi imparano nuove tendenze
Lo studio “Bumblebees acquire alternative puzzle-box solutions via social learning”, pubblicato su PLOS Biology da un team di ricercayori della Queen Mary University di Londra, dimostra che l'apprendimento sociale porta i bombi asd assumere nuovi comportamenti, anche per quel che riguarda il procurarsi il cibo. Per stabilirlo, i ricercatori hanno realizzato una serie di esperimenti progettando  una scatola di puzzle a due opzioni che potrebbe essere aperta spingendo una linguetta rossa in senso orario o una linguetta blu in senso antiorario per rivelare una ricompensaUna soluzione di saccarosio al 50%. I bombi "dimostratori" sono stati addestrati a utilizzare le linguette rosse o blu, mentre i bombi "osservatori" guardavano. Quando è stato il turno degli osservatori di risolvere il puzzle, hanno scelto a grandissima maggioranza di  utilizzare lo stesso metodo che avevano visto funzionare, anche dopo aver scoperto l'opzione alternativa. I ricercatori evidenziano che «Questa preferenza per l'opzione insegnata è stata mantenuta da intere colonie di bombi, con una media del 98,6% di aperture di scatole effettuate con il metodo insegnato». L'importanza dell'apprendimento sociale per l'acquisizione di soluzioni di puzzle box è stata dimostrata anche attraverso il gruppo di controllo, che mancava di un dimostratore. Alla Queen Mary University  spiegano che «In questo gruppo, alcuni bombi sono riusciti ad aprire le scatole - puzzle, ma lo hanno fatto molte meno volte rispetto a quelle che avevano  tratto vantaggio dal vedere prima farlo a un altro bombo. Il numero medio di scatole aperte in una giornata dai bombi osservatori che avevano prima osservato una dimostratrice è stato di 28 al giorno, mentre per la colonia di controllo è stata di solo una. In un ulteriore esperimento, i ricercatori hanno inserito dimostratori "blu" e "rossi" nelle stesse popolazioni di bombi. Nella prima popolazione, il 97,3% dei 263 casi di apertura di scatole da parte degli osservatori entro il 12esimo giorno ha utilizzato il metodo rosso. Nella seconda popolazione, gli osservatori hanno preferito il metodo blu al rosso in tutti i giorni tranne uno. «In entrambi i casi . fanno notare i ricercatori – questo ha dimostrato in primo luogo come una tendenza comportamentale potrebbe emergere in una popolazione, per la maggior parte, a causa del ritiro dei bombi esperti dal foraggiamento e dell'arrivo di nuovi apprendisti, piuttosto che delle api che cambiano il loro comportamento preferito». Risultati simili con esperimenti simili sono stati utilizzati in specie come primati e uccelli per capire se, come gli esseri umani, sono capaci di tramandare una cultura. Gli scienziati britannici sottolineano che «Se anche i bombi sono capaci di questo, ciò potrebbe potenzialmente spiegare l'origine evolutiva di molti dei complessi comportamenti osservati tra gli insetti sociali. Potrebbe essere possibile che ciò che ora appare istintivo possa essere stato socialmente appreso, almeno in origine». L’autrice principale dello studio, Alice Bridges, ha evidenziato che «I bombi  e, in effetti, gli invertebrati in generale, non sono noti per mostrare fenomeni simili alla cultura in natura. Tuttavia, nei nostri esperimenti, abbiamo visto la diffusione e il mantenimento di una "tendenza" comportamentale in gruppi di bombi, simile a quanto osservato nei primati e negli uccelli. I repertori comportamentali di insetti sociali come questi bombi sono tra i più intricati del pianeta, ma si pensa che la maggior parte di essi sia ancora istintiva. La nostra ricerca suggerisce che l'apprendimento sociale potrebbe aver avuto un'influenza maggiore sull'evoluzione di questo comportamento di quanto immaginato in precedenza». Lars Chittka, professore di ecologia sensoriale e comportamentale alla Queen Mary University di Londra e autore del libro "The Mind of a Bee", conclude: «Il fatto che le api possano osservare e imparare, e quindi prendere l'abitudine di quel comportamento, aggiunge al numero sempre crescente di prove che sono creature molto più intelligenti di quanto molte persone credano. Tendiamo a trascurare le “civiltà aliene” formate da api, formiche e vespe sul nostro pianeta,  perché sono piccole e perché, a prima vista, le loro società e costruzioni architettoniche sembrano governate dall'istinto. Tuttavia, la nostra ricerca dimostra che le nuove innovazioni possono diffondersi come i meme dei social media attraverso le colonie di insetti, indicando che possono rispondere a sfide ambientali completamente nuove molto più velocemente rispetto ai cambiamenti evolutivi, che richiederebbero molte generazioni per manifestarsi». L'articolo I bombi imparano nuove tendenze comportamentali osservando e imparando dagli altri sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Il miglioramento ecologico degli ecosistemi di acqua dolce avvantaggia i pesci e pescatori

miglioramento ecologico degli ecosistemi di acqua dolce
La biodiversità delle acque dolci sta diminuendo a ritmi allarmanti, molte azioni di conservazione si concentrano su singole specie. Un approccio alternativo consiste nel migliorare in modo completo i processi e gli habitat ecologici, sostenendo così intere comunità di specie. Questa gestione basata sugli ecosistemi è tuttavia attuata raramente perché è costosa e, inoltre, mancano prove del fatto che sia più efficace di alternative usuali, come il rilascio di pesci per migliorare gli stock. Ma, mentre in Italia si sta andando addirittura verso il rilascio di specie alloctone nei corsi d’acqua –già impoveriti di specie autoctone - per soddisfare le richieste dei pescatori sportivi, in Germania si va in tutt’altra direzione grazie a un lavoro di ampio respiro che coinvolge scienziati e pescatori. Infatti, Lo studio “Ecosystem-based management outperforms species-focused stocking for enhancing fish populations”, pubblicato su Science e realizzato per 6 anni da un team di ricercatori del Leibniz-Institut für Gewässerökologie und Binnenfischerei (IGB), Hochschule Bremen e dell’Humboldt Universität zu Berlin (HU) in stretta collaborazione con numerosi club di pesca sportiva  organizzati nell Anglerverband Niedersachsen (Associazione dei pescatori della Bassa Sassonia), è il frutto di una serie di esperimenti realizzati su laghi e della valutazione dei risultati del miglioramento dell'habitat basato sull'ecosistema.  rispetto allo stoccaggio dei pesci in 20 laghi di ex cave di ghiaia per un periodo di 6 anni. In alcuni laghi sono state create ulteriori zone di acque poco profonde. In altri laghi sono stati aggiunti fascine di legno grossolano per migliorare la diversità strutturale. In alcuni laghi dello studio sono stati immessi 150.000 pesci di 5 specie di interesse per la pesca, i laghi non manipolati sono serviti da controllo. Il principale risultato può sembrare controintuitivo: «La creazione di zone di acque poco profonde è stato il metodo più efficace per migliorare le popolazioni ittiche. Queste zone sono ecologicamente importanti per molte specie ittiche, in particolare come zone di riproduzione e aree di nursery per gli avannotti. L'introduzione del legno grezzo ha avuto solo effetti positivi nei ​​laghi selezionati; l'allevamento di pesce è completamente fallito». Il principale autore dello studio, Johannes Radinger dell'IGB, sottolinea che «Il ripristino dei processi e degli habitat ecologici centrali - la gestione basata sugli ecosistemi - potrebbe avere effetti a lungo termine più forti per la ricostruzione delle specie e delle popolazioni ittiche rispetto ad azioni di conservazione ristrette e incentrate sulle specie». Mai prima d'ora le comunità ittiche erano state studiate su una serie così ampia di esperimenti su interi sistemi lacustri e coinvolgendo numerosi club di pescatori sportivi e professionistii. Thomas Klefoth, professore alla Hochschule Bremen e co-iniziatore del  progetto evidenzia che «In contrasto con gli studi in laboratorio, gli esperimenti sul campo, che considerano la variazione dell'ecosistema naturale e le interazioni ecologiche e sociali, consentono di ottenere solide prove sull'efficacia delle misure di gestione». L’autore senior dello studio, Robert Arlinghaus dell?IGB e dellHU, aggiunge che «Includere più laghi delle cave di ghiaia negli esperimenti è stato possibile solo attraverso una stretta collaborazione tra ricerca e pratica. L'approccio transdisciplinare ha contribuito a un ripensamento dell'allevamento ittico e ha favorito l'accettazione di alternative di gestione più sostenibili e basate sull'ecosistema» Lo studio evidenzia due messaggi centrali che sono rilevanti anche per altri ecosistemi acquatici: «Il ripristino dei processi ecologici ha un impatto più sostenibile sulle comunità e sulle specie rispetto ad azioni di conservazione ristrette e incentrate sulle specie. Inoltre, la conservazione della biodiversità dell'acqua dolce è più efficace quando i gruppi di utenti, come i club di pescatori, si assumono la responsabilità e sono supportati nei loro sforzi da autorità, associazioni e scienza. Questo approccio consente di conciliare conservazione e utilizzo, poiché sia ​​le specie che le attività di pesca traggono vantaggio dalla gestione basata sugli ecosistemi». L'articolo Il miglioramento ecologico degli ecosistemi di acqua dolce avvantaggia i pesci e pescatori sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

I Campi Flegrei sono uno degli 8 maggiori emettitori naturali di anidride carbonica del mondo

Campi Flegrei
Secondo lo studio ”Discriminating carbon dioxide sources during volcanic unrest: The case of Campi Flegrei caldera (Italy)”, pubblicato su Geology da Gianmarco Buono, Stefano Caliro, Antonio Paonita, Lucia Pappalardo e Giovanni Chiodini dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INVG), «I campi vulcanici flegrei appena ad ovest di Napoli, in Italia, sono tra i primi 8 emettitori di anidride carbonica vulcanica nel mondo. Dal 2005, il cratere della Solfatara, una delle tante depressioni circolari nel territorio lasciate da una lunga storia di eruzioni, ha emesso i maggiori volumi di gas». Attualmente  emette 4.000 - 5.000 tonnellate di anidride carbonica al giorno, equivalenti alle emissioni prodotte dalla combustione di circa 1,9 milioni di litri di benzina. Nei Campi Flegrei c’è attività vulcanica sin dalla prima eruzione circa 40.00 anni fa, con l'eruzione più recente nel 1538. Dagli anni ’50 in poi, ci sono state diverse fasi di attività. L'attuale ricerca fa parte del progetto strategico dell'INGV LOVE-CF: Linking surface Observables to sub-Volcanic plumbing-system: a multidisciplinary approach for Eruption forecasting at Campi Flegrei caldera (Italy). Gli autori del nuovo studio stimano che «Fino al 20-40% delle attuali emissioni di anidride carbonica provengano dalla dissoluzione della calcite nelle rocce, mentre il 60-80% provenga dal magma sotterraneo». Buono evidenzia che «Stimare la fonte dell'anidride carbonica è importante per ricostruire correttamente ciò che sta accadendo nel sistema magmatico e nel sistema idrotermale. Il nostro obiettivo è fornire uno strumento per discriminare meglio il contributo di anidride carbonica magmatica e non magmatica che possa essere applicato anche ad altri sistemi». Alla Geological Society of America, che ha pubblicato lo studio italiano sul suo giornale Geology, spiegano che «Quando il magma si sposta verso la superficie terrestre, la diminuzione della pressione sul magma provoca il degassamento, il rilascio di gas precedentemente intrappolati all'interno del magma, inclusi vapore acqueo, anidride carbonica e anidride solforosa. Gli scienziati monitorano i vulcani per disordini e possibili eruzioni utilizzando una varietà di osservazioni, rilevando terremoti e tremori legati al movimento del magma, effettuando misurazioni dettagliate della deformazione del suolo e valutando i tipi e i volumi di gas rilasciati in superficie dalle fumarole, aperture nella terra che emettere vapore e altri gas. Le eruzioni sono spesso precedute da maggiori flussi di gas, ma ciò non significa che ogni aumento delle emissioni di gas sarà seguito da un'eruzione. E’ anche possibile che l'anidride carbonica provenga da fonti diverse dal magma. Anche l'interazione tra i fluidi sotterranei caldi e le rocce ospiti può rilasciare anidride carbonica». L'INGV ha monitorato le emissioni di gas dal cratere della Solfatara dal 1983, fornendo una lunga registrazione delle variazioni di volume e composizione dei gas ivi emessi. In precedenza, confrontando i rapporti di azoto, elio e anidride carbonica nelle emissioni, i ricercatori avevano stabilito che i gas provenivano da fonti profonde di magma. Buono spiega che «Ci siamo concentrati principalmente sulla variazione geochimica, in particolare per l'anidride carbonica, l'elio e l'azoto, perché sono specie non reattive. Contengono informazioni su ciò che sta accadendo nel magma». Ma quando nel 2005 il Campi Flegrei hanno iniziato a mostrare un aumento dei fenomeni, i dati hanno cominciato a deviare dalle impronte chimiche dei magmi, un trend che ha continuato ad aumentare nel tempo insieme all'aumento delle temperature nel sistema idrotermale poco profondo. I fenomeni sono continuati e nel 2012 il livello di allerta è stato innalzato da verde a giallo, indicando che «C'è un'attività intensificata ma non una minaccia imminente di eruzione». Oltre a piccoli terremoti e maggiori emissioni di gas, i Campi Flegrei hanno subito anche deformazioni della superficie del suolo. I ricercatori dicono che «La circolazione di fluidi caldi nel sottosuolo potrebbe spiegare l'aumento delle temperature, la deformazione del suolo e l'aumento delle emissioni di gas: anche l'interazione di fluidi acidi caldi con la calcite nelle rocce rilascia anidride carbonica. I carotaggi delle rocce di studi precedenti rivelano che la calcite nelle rocce ha una composizione simile alle emissioni di gas». Gli scienziati stimano che «Il 20% -40% dell'anidride carbonica nel sito del cratere della Solfatara provenisse dalla rimozione della calcite nella roccia ospite». L'articolo I Campi Flegrei sono uno degli 8 maggiori emettitori naturali di anidride carbonica del mondo sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Pesce istrice tropicale ritrovato sulla costa laziale. E’ il secondo segnalato dal 2008 (VIDEO)

pesce istrice 1
E’ un pesce istrice, conosciuto anche come pesce porcospino punteggiato (Chilomycterus reticulatus), l’esemplare di circa 60 centimetri ritrovato spiaggiato a Santa Marinella (Roma) e segnalato da un pescatore grazie alla campagna “Attenti a quei 4!” lanciata da Ispra e Cnr-Irbim per informare i cittadini sulla presenza di quattro pesci alieni potenzialmente pericolosi per la salute umana. In seguito alla segnalazione ricevuta, i ricercatori dell’Ispra sono intervenuti per recuperare l’esemplare di Santa Marinella ed effettuare le analisi morfologiche e molecolari per l’identificazione della specie. Ispra e Cnr-Irbim spiegano che «Segnalata prima d’ora solo una volta nel Mediterraneo lungo il litorale sardo dell’isola di Sant’Antioco nel 2008, questa specie subtropicale presenta un corpo gonfiabile ricoperto di grosse spine, denti fusi in placche e una caratteristica livrea maculata su dorso e pinne. Si nutre principalmente di ricci di mare e molluschi conchigliati. Appartiene alla famiglia Diodontidae, la cui commercializzazione a scopo alimentare è vietata già dal 1992, per via della possibilità di accumulare la tetrodotossina, sebbene in misura minore rispetto ai pesci palla della famiglia Tetraodontidae. L’esemplare trovato sulla costa laziale potrebbe essere arrivato dall’Atlantico orientale attraverso lo Stretto di Gibilterra o provenire da un rilascio da acquari». Quindi, Ispra e Cnr-Irbim  rinnovano l’invito a «Non liberare specie esotiche vive negli ambienti naturali, limitare le loro possibilità di fuga da ambienti confinati e segnalare anche per imparare a conoscere le nuove specie esotiche che popolano i nostri mari a partire da quelle potenzialmente pericolose che vengono illustrate dalla campagna “Attenti a quei 4”. L'articolo Pesce istrice tropicale ritrovato sulla costa laziale. E’ il secondo segnalato dal 2008 (VIDEO) sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Studio di fattibilità per l’eradicazione del cinghiale e del muflone all’Isola d’Elba

eradicazione del cinghiale
E' stata pubblicata sulla piattaforma http://start.toscana.it (procedura n.004056/2023) una indagine di mercato per l’affidamento della redazione dello studio di fattibilità per l’eradicazione del cinghiale (Sus scrofa) e del muflone (Ovis aries). Si tratta di un grosso passo avanti che viene incontro alle richieste che da anni agricoltori, ambientalisti, operatori turistici e comitati fanno per salvaguardare la biodiversità e l’agricoltura dell’Isola d’Elba che hanno subito fortissimi danni a causa di questi animali introdotti negli anni ’60 e ‘7’ (cinghiale) e ’80 (muflone) a fini venatori. Il Parco Nazionale informa che «La procedura si svolgerà interamente per via telematica. Tutte le informazioni per partecipare sono contenute nel sito  http://start.toscana.it» e spiega che «Si tratta di un'indagine di mercato finalizzata all'affidamento diretto per il servizio di redazione dello studio di fattibilità dell'eradicazione di cinghiali e mufloni dall'Isola d'Elba. Le attività da svolgere sono inerenti alla redazione di una indagine di fattibilità per l’eradicazione delle due specie di ungulati selvatici, muflone e cinghiale, dal territorio dell’Isola d’Elba. L’affidatario analizza pertanto tutte le variabili, eco-etologiche, sociali, economiche, tecniche, giuridico-normative, in grado di condizionare il raggiungimento dell’obiettivo gestionale complessivo previsto. L’indagine dovrà approfondire l’uso dei diversi habitat e delle aree urbanizzate/agricole, le tecniche di prelievo, la gestione dei capi prelevati, i soggetti che partecipano alle fasi di prelievo, lo sforzo di prelievo, le tempistiche, il monitoraggio in corso d’opera e alla fine dell’azione di eradicazione; saggia il contesto sociale ed economico locale, la percezione del problema tra la popolazione; analizza il contesto normativo nazionale ed europeo che regola gli interventi di gestione delle due specie; evidenzia i processi di governance alla base della conduzione degli interventi; effettua una stima del costo totale dell’intervento di eradicazione qualora ritenuto possibile in senso tecnico, sociale e giuridico». La scadenza è il 26/03/2023 gli operatori economici interessati dovranno identificarsi sul Sistema Telematico di Acquisto accessibile all’indirizzo http://start.toscana.it ed inserire la documentazione richiesta. L'articolo Studio di fattibilità per l’eradicazione del cinghiale e del muflone all’Isola d’Elba sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Dove e come è nato il vino

Dove e come e nato il vino
La prestigiosa rivista Science dedica la copertina allo studio “Dual domestications and origin of traits in grapevine evolution” pubblicato da un team guidato da Yang Dong dell’università di Yunnan e dal Laboratorio di genomica vegetale di Shenzhen e che ha visto la collaborazione di Gabriella De Lorenzis (Uiversità di Milano), Fabrizio Grassi (università Milano-Bicocca), Francesco Sunseri (Mediterranea di Reggio Calabria) e di Francesco Mercati  (Istituto di bioscienze e biorisorse - Cnr-Ibbr di Palermo),  che riporta i risultati della più vasta analisi genetica mai condotta sulla vite, con un dataset finale di 2.448 genomi di vitigni unici (a partire dai 3.500 sequenziati), raccolti da 23 istituzioni in 16 Paesi del mondo. dal quale emerge che «L’origine e la domesticazione della vite, da tavola e da vino, finora avvolta in un mistero di difficile decifrazione, risalgono a circa 11 mila anni fa, grazie a due differenti eventi di domesticazione separati geograficamente circa 1.000 km, avvenuti in Asia occidentale e nella regione del Caucaso meridionale», smentendo studi precedenti che indicavano un solo evento nel Caucaso l’origine del vino. Secondo i ricercatori, «I due eventi sono avvenuti contemporaneamente, circa 11 mila anni fa, quindi in concomitanza con l’avvento dell’agricoltura e 4 mila anni più tardi rispetto a quanto ritenuto in precedenza. Sebbene l'evento di domesticazione nel Caucaso meridionale sia associato alle prime vinificazioni (fonti storiografiche), l'origine del vino in Europa nasce dall’incrocio tra le viti selvatiche di questa regione e le uve domesticate del Vicino Oriente, inizialmente utilizzate solo per il consumo fresco (uva da tavola), stabilendo quattro grandi gruppi di viti coltivate in Europa lungo le rotte migratorie dell'uomo». Per arrivare a questi risultati, i ricercatori hanno sequenziato il DNA del progenitore selvatico, comparandolo con il DNA dei circa 3.000 campioni raccolti in tutto il mondo, identificando così anche «Alcuni geni, relativi a sapore, colore e consistenza dell’uva, che potrebbero aiutare i viticoltori a migliorare i loro prodotti e a rendere le varietà attuali più resistenti ai cambiamenti climatici». Infine, dicono al Cnr-Ibbr lo studio ha dimostrato che «L’aumento degli scambi commerciali ha favorito il commercio di cultivar superiori tra le regioni euroasiatiche e ciò è risultato particolarmente evidente nelle cultivars italiane che condividono tre o più parentele genetiche con altre cultivars, ponendo le basi per uno studio definitivo della grande biodiversità vitivinicola italiana con la sfida a districare la storia genealogica di molte cultivar, peraltro già ben avviata in precedenti lavori degli stessi autori italiani». L'articolo Dove e come è nato il vino sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.