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Passare all’idrogeno potrebbe prolungare il problema del metano

Passare allidrogeno
Secondo lo studio “Risk of the hydrogen economy for atmospheric methane”, pubblicato su  Nature Communications  da Matteo Bertagni,  Stephen Pacala e Amilcare Porporato  della Princeton University e da  Fabien Paulot  della National Oceanic and Atmospheric Administration Usa, «Il potenziale dell'idrogeno come combustibile pulito potrebbe essere limitato da una reazione chimica nella bassa atmosfera». Questo perché il gas idrogeno reagisce facilmente nell'atmosfera con la stessa molecola che è la principale responsabile della scomposizione del metano, un potente gas serra. I ricercatori evidenziano che «Se le emissioni di idrogeno superano una certa soglia, quella reazione condivisa porterà probabilmente all'accumulo di metano nell'atmosfera, con conseguenze climatiche decennali». Bertagni, ricercatore post-dottorato all’High Meadows Environmental Institute che lavora alla Carbon Mitigation Initiative, sottolinea che «L'idrogeno è teoricamente il carburante del futuro. In pratica, tuttavia, pone molte preoccupazioni ambientali e tecnologiche che devono ancora essere affrontate». Nello studio, i ricercatori hanno modellato l'effetto delle emissioni di idrogeno sul metano atmosferico e hanno scoperto che «Al di sopra di una certa soglia, anche quando si sostituisce l'uso di combustibili fossili, un'economia dell'idrogeno con perdite potrebbe causare danni ambientali a breve termine aumentando la quantità di metano nell'atmosfera. Il rischio di danni è aggravato per i metodi di produzione di idrogeno che utilizzano il metano come input, evidenziando la necessità critica di gestire e ridurre al minimo le emissioni derivanti dalla produzione di idrogeno». Porporato, che insegna Civil and Environmental Engineering  a Princeton e all’'High Meadows Environmental Institute, ricercatore principale della Carbon Mitigation Initiative ed è anche docente al'Andlinger Center for Energy and the Environment, aggiunge: «Abbiamo molto da imparare sulle conseguenze dell'uso dell'idrogeno, quindi anche se il passaggio all'idrogeno, un combustibile apparentemente pulito, non crea nuove sfide ambientali». In una recensione dello studio, Colton Poore, dell’Andlinger Center for Energy and the Environment di Princeton, spiega che «Il problema si riduce a una piccola molecola difficile da misurare nota come radicale ossidrile (OH). Spesso soprannominato "il detergente della troposfera", l'OH svolge un ruolo fondamentale nell'eliminazione dei gas serra come il metano e l'ozono dall'atmosfera. Il radicale idrossile reagisce anche con l'idrogeno gassoso nell'atmosfera. E poiché ogni giorno viene generata una quantità limitata di OH, qualsiasi picco nelle emissioni di idrogeno significa che verrebbe utilizzato più OH per abbattere l'idrogeno, lasciando meno OH disponibile per abbattere il metano. Di conseguenza, il metano rimarrebbe più a lungo nell'atmosfera, estendendo i suoi effetti sul riscaldamento». Bertagni fa notare che «Gli effetti di un picco di idrogeno che potrebbe verificarsi con l'espansione degli incentivi governativi per la produzione di idrogeno potrebbero avere conseguenze climatiche decennali per il pianeta. Se si emette  un po' di idrogeno nell'atmosfera ora, porterà a un progressivo accumulo di metano negli anni successivi. Anche se l'idrogeno ha solo una durata di vita di circa due anni nell'atmosfera, tra 30 anni da quell'idrogeno avremo ancora il feedback del metano». Nello studio, i ricercatori hanno identificato il punto critico in cui le emissioni di idrogeno porterebbero a un aumento del metano atmosferico e quindi minerebbero alcuni dei benefici a breve termine dell'idrogeno come combustibile pulito. Identificando tale soglia, i ricercatori hanno stabilito obiettivi per la gestione delle emissioni di idrogeno: «E’ essenziale che siamo proattivi nello stabilire soglie per le emissioni di idrogeno, in modo che possano essere utilizzate per informare la progettazione e l'implementazione della futura infrastruttura per l'idrogeno», ha sottolineato Porporato. Per l'idrogeno verde, che viene prodotto scindendo l'acqua in idrogeno e ossigeno utilizzando elettricità da fonti rinnovabili, Bertagni dice che «La soglia critica per le emissioni di idrogeno si aggira intorno al 9%. Questo significa che se più del 9% dell'idrogeno verde prodotto si disperdesse nell'atmosfera, sia nel punto di produzione, durante il trasporto o in qualsiasi altro punto lungo la catena del valore, nei prossimi decenni il metano atmosferico aumenterebbe, annullando alcuni dei benefici climatici dell'abbandono dei combustibili fossili». E per l'idrogeno blu, prodotto tramite il reforming del metano con successiva cattura e stoccaggio del carbonio, la soglia per le emissioni è ancora più bassa: «Poiché il metano stesso è l'input principale per il processo di riformazione del metano, i produttori di idrogeno blu devono prendere in considerazione la perdita diretta di metano oltre alla perdita di idrogeno», avverto i ricercatori che hanno scoperto anche che «Con un tasso di perdita di metano pari allo 0,5%, le perdite di idrogeno dovrebbero essere mantenute al di sotto del 4,5% circa per evitare l'aumento delle concentrazioni atmosferiche di metano». Per Bertagni, «La gestione dei tassi di perdita di idrogeno e metano sarà fondamentale. Se si ha  solo una piccola quantità di perdite di metano e un po' di perdite di idrogeno, allora l'idrogeno blu che si produce potrebbe non essere molto migliore rispetto all'utilizzo di combustibili fossili, almeno per i prossimi 20 o 30 anni». I ricercatori hanno sottolineato l'importanza della scala temporale sulla quale  viene considerato l'effetto dell'idrogeno sul metano atmosferico. Bertagni conclude: «A lungo termine (nel corso di un secolo, ad esempio), il passaggio a un'economia dell'idrogeno produrrebbe ancora probabilmente benefici netti per il clima, anche se i livelli di perdite di metano e idrogeno fossero sufficientemente elevati da provocare un riscaldamento a breve termine. Alla fine, ha affermato, le concentrazioni atmosferiche di gas raggiungeranno un nuovo equilibrio e il passaggio a un'economia dell'idrogeno dimostrerà i suoi benefici per il clima. Ma prima che ciò accada, le potenziali conseguenze a breve termine delle emissioni di idrogeno potrebbero portare a danni ambientali e socioeconomici irreparabili. Pertanto, se le istituzioni sperano di raggiungere gli obiettivi climatici di metà secolo, le perdite di idrogeno e metano nell'atmosfera devono essere tenute sotto controllo mentre le infrastrutture per l'idrogeno iniziano a svilupparsi. E poiché l'idrogeno è una piccola molecola notoriamente difficile da controllare e misurare, la gestione delle emissioni richiederà probabilmente ai ricercatori di sviluppare metodi migliori per monitorare le perdite di idrogeno lungo la catena del valore. Se aziende e governi sono seriamente intenzionati a investire denaro per sviluppare l'idrogeno come risorsa, devono assicurarsi di farlo in modo corretto ed efficiente. In definitiva, l'economia dell'idrogeno deve essere costruita in modo da non contrastare gli sforzi di altri settori per mitigare le emissioni di carbonio». L'articolo Passare all’idrogeno potrebbe prolungare il problema del metano sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Le api sentinelle del Molise

api sentinelle del Molise
La scorsa settimana, al dipartimento di agricoltura, ambiente e alimenti dell’università degli studi del Molise sono stati presentati i risultati del monitoraggio ambientale condotto nell’ambito del progetto “Biomonitoraggio del territorio con “api sentille”. Ma in che modo è stata monitorata la qualità ambientale del territorio? Nell’ambito del progetto, finanziato dall’azione 19.2.16 del PSL del Gal Molise verso il 2000, sono stati presi in considerazione i diversi metodi e le diverse tecniche di biomonitoraggio del territorio, in questo caso il territorio di riferimento è quello del Gal Molise verso il 2000 (ma in precedenti studi anche in altre aree della regione), e da un'analisi delle diverse possibilità alla fine è stata adottata come agente di biomonitoraggio l’ape da miele. Le motivazioni risiedono principalmente nella completezza di informazioni che questo insetto è in grado di fornire. Nei limiti del tempo e delle risorse a disposizione, sono state scelte 5 diverse località nell'ambito del Gal Molise verso il 2000. Pertanto, a partire dai punti ritenuti strategici per il biomonitoraggio si è cercato di confrontare le aree potenzialmente esenti da una grossa pressione antropica, con aree, invece, in cui ci aspettiamo un maggior carico di inquinanti. Quindi la filosofia di fondo è stata quella di distribuire queste stazioni di biomonitoraggio con api da miele sul territorio con lo scopo di comparare i diversi ambienti analizzati. Perché sono state scelte le api da miele per il monitoraggio? L’ape da miele è risultato il bioindicatore, in senso lato, più adatto per due ragioni principali: 1 Per la sua vasta diffusione su tutto il territorio e questo permette di avvalersi anche della collaborazione delle associazioni apistiche, che hanno una presenza capillare sul territorio stesso, per cui in ogni ambiente è possibile monitorare uno o più allevamenti di api. 2 L'ape è in grado di esplorare tutti i comparti ambientali: aria, con la sua attività di volo; suolo, perché si poggia continuamente a terra, asportando anche eventuali particelle inquinanti e portandoli sul corpo; acqua, perché l’ape è un animale che fa un elevato uso di acqua e la vegetazione quindi praticamente è in grado di monitorare tutto il territorio con milioni di micro prelievi giornalieri per ogni alveare. Cosa rende le api bioaccumulatori e biocollettori? Un ulteriore vantaggio delle api è che sono contemporaneamente bioindicatori, bioindicatori veri, bioaccumulatori e biocollettori: ovvero le quattro categorie di bioindicatori universalmente riconosciute. Nello specifico bioaccumulatore è un organismo che accumula gli inquinanti nei tessuti corporei, per cui analizzando gli inquinanti presenti all'interno del corpo delle api la utilizziamo proprio come bioaccumulatore. Biocollettore invece significa che l'organismo accumula gli inquinanti nei propri prodotti di secrezione o di escrezione. Nel caso delle api è possibile ritrovare questi agenti inquinanti nella cera e nella pappa reale (che sono entrambi prodotti di secrezione), nel miele che è un prodotto misto, poiché proviene dall'elaborazione del nettare, che le api prendono dalle piante, attraverso la secrezione della loro saliva (si potrebbe paragonare, in ambito umano, al latte materno che può essere usato come biocollettore). Quali inquinanti sono stati cercati? Ci sono delle aree con una maggiore concentrazione? Gli inquinanti ricercati in questo progetto sono stati i due che normalmente si attenzionano in prima battuta in una campagna di biomonitoraggio, vale a dire i metalli pesanti (attualmente meglio definiti come elementi in traccia potenzialmente tossici) e gli agrofarmaci. La scelta degli inquinanti è legata alle particolari caratteristiche del territorio oggetto di esame. Queste due categorie di inquinanti sono state ricercate sia con un monitoraggio della mortalità delle api, per quanto riguarda prodotti fitosanitari, ed eventuale analisi chimica successiva e l'uso di matrici apistiche (ad esempio miele, cera oppure il corpo delle api stesse) per la ricerca dei metalli pesanti. Da un punto di vista della mortalità acuta fortunatamente non è stata rilevata mortalità da prodotti fitosanitari; d’altra parte, in tutte le matrici analizzate sono state elevate, anche se al di sotto dei limiti di legge, tutti i metalli pesanti ricercati. Sono stati rilevati inquinanti nel miele? Se sì, bisogna preoccuparsi? Nelle aree monitorate, in traccia, sono stati rilevati effettivamente tutti gli inquinanti ricercati. Questo non deve assolutamente destare preoccupazioni, perché il tipo di inquinanti ricercati, nella fattispecie alcuni metalli pesanti, sono ubiquitari. Quello che fa la differenza è la concentrazione all'interno della matrice analizzata, ovvero il miele, difatti nelle diverse stazioni sono state riscontrate concentrazioni diverse e sempre al di sotto dei limiti ammessi dalla legge, ma variabili in funzione soprattutto dell'antropizzazione del sito. In conclusione, nelle zone con una maggiore attività umana e con insediamenti produttivi le concentrazioni sono leggermente più alte anche se nei limiti ammessi. L'articolo Le api sentinelle del Molise sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

In Trentino Alto Adige trend negativi per le nevicate negli ultimi 40 anni

Nevicate trentino
Lo studio “Diverging snowfall trends across months and elevation in the northeastern Italian Alps”, pubblicato sull’International Journal of Climatology da Giacomo Bertoldi, Michele Bozzoli e Alice Crespi di Eurac Research  e da Michael Matiu, Lorenzo Giovannini, Dino Zardi e Bruno Majone dell’università di Trento, ha collezionato i dati storici sulle precipitazioni nevose delle Provincie autonome di Bolzano e Tren to e  dell’associazione Meteo Trentino Alto Adige e li ha interpretati in base a fasce di quota e ad altri parametri climatici e «I risultati delle analisi mostrano come in generale i trend delle nevicate dal 1980 al 2020 sono diffusamente negativi in tutto il Trentino Alto Adige, con picchi fino a meno 75%. I dati più negativi si registrano a inizio e fine stagione; solo nel cuore dell’inverno, tra gennaio e febbraio, e attorno 2.000 metri di quota, le nevicate sono stabili o addirittura in crescita in poche stazioni di misurazione come quelle dei passi Rolle e Tonale, che registrano un aumento attorno al 15%. Nei fondovalle la mancanza di neve, pur non danneggiando direttamente l’economia dello sci, ha comunque cambiato del tutto la percezione dell’inverno. Ovunque si registra un aumento delle temperature medie, con picchi fino a 3 gradi». ;Ma anche i pochi casi di trend positivi delle nevicate, a quote attorno o superiori ai 2.000 metri, sono da ricondurre al fatto che, nonostante un aumento della temperatura, è ancora sufficientemente freddo perché le precipitazioni avvengano sottoforma di neve.  «Per esempio – evidenziano i ricercatori - anche se ai passi Rolle e Tonale le temperature sono cresciute in media rispettivamente di circa 1,5 e 2,3 gradi, l’aumento delle precipitazioni ha portato a un aumento dell’accumulo di neve fresca rispettivamente del 16 e 17%». Tra il 1980 e il 2020 la neve fresca accumulata per stagione, cioè la somma dei centimetri di neve che cadono tra ottobre e aprile, è diminuita del 75% nella città di Bolzano e del 46%  a Trento. Ma se nei capoluoghi di provincia la mancanza di neve è sotto gli occhi di tutti oramai da anni – tanto che le rare nevicate occupano spesso le prime pagine dei giornali – a preoccupare di più i ricercatori sono i numeri negativi di altre località.  Bertoldi e Bozzoli sottolineano che «A San Candido le nevicate sono diminuite del 26%, a Andalo del 21%  e a Rabbi del 29%. L’impatto visivo è meno forte perché parliamo di posti dove l’accumulo medio di neve fresca rimane comunque sopra il metro, ma queste diminuzioni hanno conseguenze gravi per le falde acquifere, la disponibilità di acqua e dunque tutte le attività umane che ne hanno bisogno». Per i ricercatori è colpa del cambiamento climatico: «L’aumento medio della temperatura nelle 18 stazioni che abbiamo selezionato è di 1,54 gradi. Per il caldo le precipitazioni rimangono perlopiù sottoforma liquida, soprattutto alle quote più basse, perché non c’è abbastanza freddo per trasformarsi in neve». Bertoldi  conclude: «Infatti, il bilancio totale delle precipitazioni stagionali in 40 anni non è negativo: «Anzi, ovunque sono aumentate, ma per lo più sottoforma di pioggia, e questo aspetto è solo parzialmente rassicurante. Infatti, anche se statisticamente non sembrano aumentare gli inverni secchi come questo o il precedente – e questo è indispensabile per avere abbastanza acqua – il passaggio da neve a pioggia ha conseguenze negative non solo per le attività sciistiche. La neve è fondamentale perché protegge i ghiacciai e il terreno ostacolando l’evaporazione e, sciogliendosi lentamente in primavera, ricostituisce gradualmente le riserve di acqua. Senza neve il rischio siccità è maggiore». L'articolo In Trentino Alto Adige trend negativi per le nevicate negli ultimi 40 anni sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Indagine internazionale: massiccia contaminazione da Pfas in Italia

Pfas
Dopo la diffusione dell’inchiesta giornalistica The Forever Pollution Project sulla contaminazione da Pfas (Sostanze perfluoroalchiliche note anche come “inquinanti eterni”) in numerosi Paesi europei, che in Italia ha coinvolto Radar Magazine e Le Scienze, Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace, sottolinea che «Questa indagine senza precedenti tocca un nervo scoperto su cui le autorità nazionali da tempo hanno scelto di non intervenire, nonostante sia chiaro che la contaminazione riguardi l’acqua, l’aria, gli alimenti e il sangue di migliaia di persone. Si tratta di un’emergenza ambientale e sanitaria fuori controllo. Esortiamo il governo, il parlamento e i ministeri competenti ad assumersi le proprie responsabilità varando in tempi brevi una legge che vieti l’uso e la produzione di tutti i Pfas, insieme all’adozione di adeguati provvedimenti di bonifica e all’individuazione di tutti i responsabili». L’inchiesta ha rivelato l’esistenza in Europa di più di 17.000  siti contaminati ai quali se ne aggiungono altri 21.000 nei quali è possibile la presenza di Pfas a causa di attività industriali in corso o passate, e 2.100 hotspot, luoghi in cui la contaminazione raggiunge livelli considerati pericolosi per la salute.  Greenpeace fa notare che «La mappa italiana rivela elevati livelli di inquinamento non solo in alcune aree del Veneto, già tristemente note per essere uno degli epicentri europei dell’emergenza Pfas, ma toccano anche alcune zone del Piemonte, limitrofe allo stabilimento della Solvay specializzato proprio nella produzione di Pfas, della Lombardia e della Toscana. Questo quadro potrebbe essere ben più grave considerando che non tutte le Regioni italiane effettuano monitoraggi capillari». All'inizio di marzo, l'Agenzia europea per le sostanze chimiche (ECHA) ha pubblicato la bozza di proposta per vietare a livello comunitario la produzione e l'uso di migliaia di Pfas, avviando un processo necessario per fermare la contaminazione di questi inquinanti eterni. Tra le nazioni promotrici del divieto figurano Germania, Paesi Bassi, Svezia, Danimarca e Norvegia, ma non l’Italia. Greenpeace, insieme a oltre 100 organizzazioni della società civile europee, è promotrice del Ban Pfas Manifesto che chiede la messa al bando di queste pericolose sostanze. Gli ambientalisti sottolineano che «Proprio ieri l’Agenzia per la protezione dell’ambiente (EPA) degli Stati Uniti ha proposto l’introduzione di limiti estremamente cautelativi riguardo la presenza di sei molecole appartenenti al gruppo dei Pfas nell’acqua potabile. Per due di questi composti, Pfoa e Pfos, la cui pericolosità per la salute è nota considerata la loro classificazione come possibili cancerogeni, l’autorità americana ha proposto come limite lo zero tecnico, ovvero il valore più basso che le attuali strumentazioni sono in grado di rilevare, mettendo in pratica il concetto che per queste sostanze non esistono soglie di sicurezza». L'articolo Indagine internazionale: massiccia contaminazione da Pfas in Italia sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

La plasticosi sta colpendo gli uccelli marini

Plasticosi
La plastica è onnipresente ed è diventata così comune da avere un impatto sulla salute di animali e persone. A dimostralo drammaticamente è lo studio “‘Plasticosis’: Characterising macro- and microplastic-associated fibrosis in seabird tissues”, pubblicato recentemente sul Journal of Hazardous Materials da un team di ricercatori australiani e britannici che dimostra che «Gli uccelli marini soffrono di una malattia indotta dalla plastica chiamata "plasticosi"». Gli scienziati spiegano che «Una nuova malattia è stata descritta negli uccelli marini, ma potrebbe essere solo la punta dell'iceberg. Piuttosto che essere causata da virus o batteri, la "plasticosi" è causata da piccoli pezzi di plastica che infiammano il tratto digestivo. Nel tempo, l'infiammazione persistente provoca cicatrici e deformazioni dei tessuti, con effetti a catena sulla crescita, la digestione e la sopravvivenza». Uno degli autori dello studio, Alexander Bond, del Bird Group del Natural History Museum britannico, sottolinea che «Mentre questi uccelli possono sembrare sani all'esterno, non stanno bene all'interno. Con questo studio, è la prima volta che il tessuto dello stomaco è stato studiato in questo modo e dimostra che il consumo di plastica può causare gravi danni al sistema digestivo di questi uccelli». Anche se finora la plasticosi è nota solo per una specie, la berta piedicarnicini (Ardenna carneipe) i ricercatori fanno notare che «La portata dell'inquinamento da plastica significa che potrebbe essere molto più diffusa. Potrebbe anche avere ripercussioni sulla salute umana». La plasticosi è una malattia fibrotica causata da una quantità eccessiva di cicatrici quando un'area del corpo viene ripetutamente infiammata e impedisce alla ferita di guarire normalmente. Generalmente, il tessuto cicatriziale temporaneo si forma dopo un infortunio e aiuta a rafforzare la riparazione. Ma quando l'infiammazione si ripete ripetutamente, si può formare una quantità eccessiva di tessuto cicatriziale che riduce la flessibilità dei tessuti e provoca il cambiamento della loro struttura. Nel caso della plasticosi, l'irritazione è causata da frammenti di plastica che scavano nel tessuto dello stomaco. Gli scienziati l'hanno scoperto durante le loro attività di ricerca su Lord Howe Island, dove studiano gli uccelli marini da 10 anni. Nonostante l'isola si trovi a 600 chilometri al largo della costa australiana, nel precedente studio “Seabird breeding islands as sinks for marine plastic debris”, pubblicato su Environmental Pollution nel maggio 2021,  il team di ricercatori  aveva precedentemente scoperto che le berta piedicarnicini che nidificano solo a Lord Howe, «Sono gli uccelli più contaminati dalla plastica al mondo, poiché consumano pezzi di plastica in mare dopo averli scambiati per cibo». Durante lo studio delle berte, i ricercatori hanno scoperto che «La cicatrizzazione del proventricolo, che è la prima camera dello stomaco dell'uccello, è diffusa e causa ferite simili negli uccelli». Una coerenza che ha portato il team a descrivere la plasticosi come una malattia specifica. Sebbene questo termine fosse stato usato per un breve periodo per descrivere la rottura della plastica nelle protesi articolari, il suo utilizzo non è mai diventato comune, quindi il  team ha ritirato fuori il nome per la sua somiglianza con altre malattie fibrotiche causate da materiali inorganici, come la silicosi e l'asbestosi. I ricercatori evidenziano che «Finora, è noto che la plasticosi colpisce solo il sistema digestivo, ma ci sono suggerimenti che potrebbe potenzialmente colpire altre parti del corpo, come i polmoni». Le cicatrici causate dalla plasticosi influenzano la struttura fisica del proventricolo. Con l'aumentare dell'esposizione alla plastica, il tessuto diventa gradualmente più gonfio fino a quando non inizia a rompersi. Bond aggiunge: «Le ghiandole tubulari, che secernono composti digestivi, sono forse il miglior esempio dell'impatto della plasticosi. Quando la plastica viene consumata, queste ghiandole diventano gradualmente più rachitiche fino a perdere completamente la loro struttura tissutale ai massimi livelli di esposizione. La perdita di queste ghiandole può rendere gli uccelli più vulnerabili alle infezioni e ai parassiti e influire sulla loro capacità di assorbire alcune vitamine. Le cicatrici possono anche indurire lo stomaco e renderlo meno flessibile, il che lo rende meno efficace nella digestione del cibo». Nei giovani uccelli e nei pulcini, questo può essere particolarmente dannoso poiché i loro stomaci non sono in grado di contenere tanto cibo. Alcuni studi hanno rilevato che ben il 90% dei giovani uccelli contiene almeno un po' di plastica che era presente nel cibo fornito loro dai genitori. Portato all’estreme conseguenze, questo può far morire di fame i pulcini perché i loro stomaci si riempiono di plastica che non possono digerire. E’ probabile che la plasticosi sia anche uno dei fattori che influenza il modo in cui la plastica influisce sulla crescita delle giovani berte. Lo studio ha scoperto che «La lunghezza dell'ala è legata alla quantità di plastica nel loro corpo, mentre il numero di pezzi di plastica è associato al peso complessivo dell'uccell»o. Mentre gli uccelli consumano naturalmente altri oggetti inorganici, come le pietre pomice, il team ha scoperto che «Questo non provoca cicatrici. Invece, le pietre possono aiutare a scomporre la plastica in frammenti più piccoli che causano ulteriori danni». Bond conclude: «Il nostro team di ricerca ha già esaminato in che modo le microplastiche influiscono sui tessuti. Abbiamo trovato queste particelle in organi come la milza e il rene, dove erano associate a infiammazione, fibrosi e a una completa perdita di struttura. Al momento, la plasticosi è nota solo nelle berte piedicarnicini ma, data la quantità di inquinamento da plastica è ragionevole supporre che anche altre specie siano colpite da questa malattia. È uno dei tanti modi in cui la plastica sta influenzando la salute degli animali in tutto il pianeta, compresi i cambiamenti nella chimica del sangue e le alterazioni dell'equilibrio degli ormoni». 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Le popolazioni di cigni che vivono nelle aree protette crescono 30 volte più velocemente

popolazioni di cigni che vivono nelle aree protette
I cigni selvatici (Cygnus cygnus) passano gli inverni nel Regno Unito e le estati in Islanda e, secondo lo studio “Demographic rates reveal the benefits of protected areas in a long-lived migratory bird”, pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences da un team di ricercatori britannici, islandesi e statunitensi «All'interno delle riserve naturali Le popolazioni di cigni selvatici crescono 30 volte più velocemente». Il nuovo studio ha esaminato 30 anni di dati sui cigni in 22 siti del Regno Unito, 3 dei quali sono riserve naturali gestite dal Wildfowl and Wetlands Trust (WWT) e ne è emerso che «I tassi di sopravvivenza erano significativamente più alti nelle riserve naturali e la crescita della popolazione era così forte che molti cigni si sono trasferiti in siti non protetti». Sulla base di questi risultati, il team di ricerca, guidato dalle università di Exeter e Helsinki, prevede che «Entro il 2030, le riserve naturali potrebbero contribuire a raddoppiare il numero di cigni selvatici che svernano nel Regno Unito». In realtà, i cigni che vivono nelle riserve naturali hanno una probabilità annuale di riproduzione inferiore, ma i ricercatori sottolineano che «Questi uccelli hanno più opportunità di riprodursi nel corso della vita e produrranno in media più prole». I risultati dello studio evidenziano «Il grande effetto che le riserve naturali possono avere sulla conservazione, anche quando le aree protette sono relativamente piccole e vengono utilizzate solo durante brevi periodi del ciclo di vita di una specie». Il principale autore dello studio, Andrea Soriano-Redondo, del Centre for ecology and conservation dell’università di Exeter e dell’Helsingin yliopisto , sottolinea che «Le aree protette sono lo strumento principale utilizzato per arginare il declino della biodiversità, e c'è un crescente consenso sul fatto che il 30% della superficie del pianeta dovrebbe essere protetto entro il 2030. Tuttavia, l'efficacia delle aree protette non è sempre chiara, soprattutto quando le specie si spostano per tutta la durata della loro vita tra aree protette e non protette. I nostri risultati forniscono una forte evidenza che le riserve naturali sono estremamente utili per i cigni selvatici e potrebbero far aumentare notevolmente il loro numero nel Regno Unito». Il dataset ultratrentennale utilizzato per realizzare lo studio, includeva osservazioni di oltre 10.000 cigni selvatici, il team di ricerca ha costruito un modello di popolazione che prevede che i numeri invernali potrebbero raddoppiare entro il 2030. Un altro autore dello studio, Richard Inger, un collega di Soriano-Redondo, aggiunge che «Il tasso di crescita annuale della popolazione all'interno delle riserve naturali è stato del 6%, rispetto allo 0,2% al di fuori delle riserve. Questo aumento della popolazione non è limitato alle riserve naturali: ha creato una maggiore densità di popolazione, che ha portato alcuni cigni a trasferirsi in aree non protette. I giovani cigni erano più propensi a farlo, il che significa che i benefici delle riserve naturali si estendono anche ad altre aree». L’autore senior dello studio, Stuart Bearhop dell'università di Exeter, conferma che «Nel complesso, il nostro studio dimostra gli enormi vantaggi della protezione localizzata per le specie animali altamente mobili. Dimostra anche che misure mirate durante i periodi chiave del ciclo di vita possono avere effetti sproporzionati sulla conservazione». Le riserve naturali del WWT comprese nello studio attuano una serie di misure per aiutare i cigni a svernare, tra le quali recinzioni anti-volpi, cibo supplementare, siti di riposo gestiti e divieti di caccia e David Pickett, center & reserve manager del WWT Caerlaverock Wetland Centre, conclude: «Questa ricerca mostra come i rifugi sicuri per la fauna selvatica delle zone umide, come quelli del WWT Caerlaverock, Welney e Martin Mere, possono aiutare una specie a sopravvivere e avere successo quando il loro siti tradizionali sono sotto minaccia. Molti uccelli selvatici fanno affidamento sui nostri siti per cibo e riparo e ci impegniamo a creare e ripristinare sempre più di questi habitat sani delle zone umide dei quali il Regno Unito ne ha persi così tanti nella nostra storia recente». L'articolo Le popolazioni di cigni che vivono nelle aree protette crescono 30 volte più velocemente sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Le sorprendenti somiglianze tra gli strumenti di pietra dei primi umani e delle scimmie

somiglianze tra gli strumenti di pietra dei primi umani e delle scimmie
Lo studio “Wild macaques challenge the origin of intentional tool production”, pubblicato su Science Advances da un team di ricercatori del Max-Planck-Institut für evolutionäre Anthropologie e della Chulalongkorn University di Bangkok e Saraburi, ha scoperto in Thailandia artefatti prodotti da scimmie che assomigliano a strumenti di pietra, che storicamente sono stati identificati come realizzati intenzionalmente dai primi ominidi. I ricercatori tedeschi sottolineano che «Fino ad ora, si pensava che gli strumenti di pietra affilati rappresentassero l'inizio della produzione intenzionale di strumenti di pietra, una delle caratteristiche distintive e uniche dell'evoluzione degli ominidi. Questo nuovo studio sfida le convinzioni di lunga data sulle origini della produzione intenzionale di strumenti nel nostro stesso lignaggio». La ricerca si basa su nuove analisi degli strumenti di pietra usati dai macachi cinomolghi o dalla coda lunga (Macaca fascicularis) nel Phang Nga National Park in Thailandia.  I ricercatori spiegano che «Queste scimmie usano strumenti di pietra per aprire noci dal guscio duro. In questo processo, le scimmie spesso rompono i loro martelli e le loro incudini. L’assemblaggio di pietre rotte che ne risulta è consistente e diffuso in tutto il territorio. Inoltre, molti di questi manufatti presentano tutte le stesse caratteristiche comunemente utilizzate per identificare strumenti di pietra realizzati intenzionalmente in alcuni dei primi siti archeologici dell'Africa orientale». Il principale autore dello studio, Tomos Proffitt del Max-Planck-Institut für evolutionäre Anthropologie, evidenzia che «La capacità di creare intenzionalmente scaglie di pietra affilate è vista come un punto cruciale nell'evoluzione degli ominidi, e capire come e quando ciò sia avvenuto è una domanda enorme che viene tipicamente indagata attraverso lo studio di manufatti e fossili del passato. Il nostro studio dimostra che la produzione di utensili in pietra non è esclusiva degli esseri umani e dei nostri antenati. Il fatto che questi macachi utilizzino strumenti di pietra per lavorare le noci non è sorprendente, poiché usano anche strumenti per accedere a vari molluschi. Ciò che è interessante è che, così facendo, producono accidentalmente una loro documentazione archeologica sostanziale che è in parte indistinguibile da alcuni manufatti degli ominidi». Confrontando i frammenti di pietra prodotti accidentalmente dai macachi con quelli di alcuni dei primi siti archeologici umani, i ricercatori sono stati in grado di dimostrare che «Molti dei manufatti prodotti dalle scimmie rientrano nella gamma di quelli comunemente associati ai primi ominidi». Il co-autore principale dello studio, Jonathan Reeves, sottolinea: «Il fatto che questi artefatti possano essere prodotti attraverso la rottura di noci ha implicazioni per la gamma di comportamenti che associamo a scaglie taglienti nella documentazione archeologica...» Gli strumenti di pietra dei macachi recentemente scoperti forniscono nuove intuizioni su come i nostri antenati abbiano cominciato a utilizzare la prima tecnologia e che la sua origine potrebbe essere stata collegata a comportamento simile a quello della rottura delle noci che potrebbe essere molto più antico dell'attuale primo dato archeologico conosciuto. Lydia Luncz, autrice senior dello studio e capo del Forschungsgruppe Technologische Primaten del Max-Planck-Institut für evolutionäre Anthropologie, conclude: «Spaccare noci usando martelli e incudini di pietra, in modo simile a quello che fanno oggi alcuni primati, è stato suggerito da alcuni come un possibile precursore della produzione intenzionale di utensili in pietra. Questo studio, insieme a quelli precedenti pubblicati dal nostro team, apre le porte alla possibilità di identificare una tale firma archeologica in futuro». L'articolo Le sorprendenti somiglianze tra gli strumenti di pietra dei primi umani e delle scimmie sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

L’inquinamento atmosferico compromette il successo dell’accoppiamento degli insetti

Linquinamento atmosferico compromette il successo dellaccoppiamento degli insetti
La comunicazione sessuale degli insetti si basa in misura significativa sui feromoni, attrattivi chimici che consentono specificamente ai maschi e alle femmine di una specie di accoppiarsi. I feromoni sessuali sono distintivi per maschi e femmine di una specie. Anche le più piccole differenze, come quelle osservate nella formazione di nuove specie, fanno sì che l'accoppiamento non avvenga più, perché maschi e femmine si ritrovano solo attraverso l'odore inconfondibile dei loro conspecifici. Ora, lo studio “Ozone exposure disrupts insect sexual communication”, pubblicato su Nature Communications da un team di ricercatori guidato dal Max-Planck-Institut für chemische Ökologie, di Jena, dimostra che «L'aumento dei livelli di ozono derivante dall'inquinamento atmosferico antropogenico può degradare i feromoni sessuali degli insetti, che sono segnali di accoppiamento cruciali, e quindi impedire la riuscita della riproduzione. L'effetto ossidante dell'ozono provoca la rottura dei doppi legami carbonio-carbonio presenti nelle molecole di molti feromoni degli insetti. Pertanto, il segnale di accoppiamento chimico specifico è reso disfunzionale. La cosa più notevole è che la comunicazione sessuale interrotta ha anche portato i machi dei moscerini a mostrare comportamenti di accoppiamento insoliti nei confronti dei maschi ozonizzati della loro stessa specie». La maggior parte dei feromoni degli insetti sono molecole odorose contenenti doppi legami carbonio-carbonio che possono essere facilmente distrutti dall'ozono. Markus Knaden, co-autore principale dello studio e che dirige il gruppo Abteilung Evolutionäre Neuroethologie del Max-Planck-Institut für chemische Ökologie conferma: «Sapevamo già che gli inquinanti ambientali come l'ozono e l'ossido nitrico degradano i profumi floreali, rendendo i fiori meno attraenti per i loro impollinatori. Poiché i composti con doppi legami di carbonio sono particolarmente sensibili alla degradazione dell'ozono e quasi tutti i feromoni sessuali degli insetti portano questi doppi legami, ci chiedevamo se l'inquinamento atmosferico influisse anche sul modo in cui le femmine e i maschi degli insetti si trovano e si identificano a vicenda durante l'accoppiamento». Per studiare gli effetti dell'ozono sul comportamento di accoppiamento del moscerino della frutta (Drosophila melanogaster), gli scienziati hanno prima sviluppato un sistema di esposizione all'ozono per i moscerini che potesse imitare i livelli di ozono nell'aria come vengono spesso misurati attualmente nelle città in estate. Per farlo, i ricercatori hanno dovuto creare un flusso d'aria continuo con livelli di ozono definiti con precisione, il che è complicato dal fatto che l'ozono non è un composto chimico stabile e si decompone facilmente. Allo stesso tempo, le mosche spesso trasportano quantità molto piccole di feromoni anche in condizioni normali. "Avevamo quindi bisogno di una tecnica che ci permettesse di misurare anche minuscole quantità di feromoni su singole mosche che erano state esposte o meno all'ozono prima delle misurazioni. Per fare ciò, abbiamo utilizzato quella che è nota come unità di desorbimento termico accoppiata a un gascromatografo/spettrometro di massa, che ci ha permesso di misurare minuscole quantità di odori emessi dalle singole mosche, Negli esperimenti, i moscerini maschi sono stati esposti a concentrazioni di ozono leggermente elevate. Poi gli scienziati hanno misurato se i moscerini emettevano ancora il loro feromone. Quando i moscerini sono state esposti per due ore a 100 parti per miliardo (ppb, corrispondenti a una concentrazione di 10-9) di ozono, i livelli di feromoni misurati sono diminuiti significativamente rispetto a un gruppo di controllo che era stato esposto solo all'aria ambiente. Oltre ai maschi della moscerino modello Drosophila melanogaster , i ricercatori hanno testato anche moscerini maschi di 8 specie correlate del genere Drosophila e «In una sola specie, la Drosophila busckii, il rilascio di specifici feromoni maschili è rimasto inalterato dopo l'esposizione all'ozono, ma questi composti non contengono doppi legami carbonio-carbonio e quindi non reagiscono così facilmente con l'ozono». Quindi, i ricercatori hanno testato l'attrattiva dei moscerini maschi per i loro conspecifici e hanno fatto scoperte inquietanti che potrebbero essere dovute principalmente al ruolo dei rispettivi feromoni. Al Max-Planck-Institut für chemische Ökologie sottolineano che nelle specie Drosophila  questi feromoni sono emessi dai maschi e aumentano la loro attrattiva per le femmine. I maschi usano l'odore anche per distinguere le femmine dagli altri maschi: mentre il loro feromone attrae le femmine, respinge gli altri maschi. Durante l'accoppiamento, i maschi trasferiscono il loro feromone alle femmine. Le femmine appena accoppiate che odorano di feromone maschile non sono più attraenti per gli altri maschi per le due ore successive. Quindi, «I livelli elevati di ozono non solo facevano sì che le femmine fossero meno attratte dai maschi, ma i maschi ozonizzati erano improvvisamente interessanti per le loro controparti maschili – dicono i ricercatori - Sapevamo che livelli elevati di ozono potevano influenzare i sistemi di accoppiamento degli insetti perché la rottura dei doppi legami di carbonio, e quindi dei feromoni, per ossidazione, in chimica non è scienza missilistica. Tuttavia, siamo rimasti scioccati dal fatto che anche concentrazioni di ozono leggermente elevate abbiano avuto effetti così forti sulla mosca comportamento. In realtà, inizialmente volevamo concentrarci sulle interazioni tra maschi e femmine. Avremmo potuto spiegare che i maschi hanno iniziato a corteggiarsi a vicenda dopo una breve esposizione all'ozono, perché ovviamente non potevano distinguere i maschi ozonizzati dalle femmine. Tuttavia, non avevamo pensato a questo prima. Pertanto, siamo rimasti piuttosto perplessi dal comportamento dei maschi esposti all'ozono». Il team di ricerca ha anche osservato gli effetti degli alti livelli di ozono nell'aria sul comportamento di accoppiamento di altre specie di Drosophila e ne è emerso che «Anche i maschi della specie Drosophila busckii hanno avuto meno successo nell'accoppiamento dopo l'esposizione all'ozono, sebbene l'ozono non alteri il feromone che è stato descritto essere emesso dai maschi di D. busckii. Tuttavia, anche altri composti chimici sensibili all'ozono finora non identificati possono svolgere un ruolo aggiuntivo nel loro comportamento di accoppiamento». Il team di ricerca ha osservato comportamenti di corteggiamento insoliti da parte dei maschi nei confronti di altri maschi esposti all'ozono in 8 delle altre 9 specie studiate. I ricercatori dicono che «E’ interessante notare che una specie, D. suzukii, che è nota per essere priva di feromoni ma che giudica in base a segnali visivi, non è stato affatto influenzato dall'aumento dei livelli di ozono». La maggior parte dei feromoni degli insetti contiene doppi legami carbonio-carbonio e l'ozono probabilmente interferisce con la comunicazione sessuale in molte specie di insetti. Bill Hansson, capo dell’Abteilung Evolutionäre Neuroethologie e fondatore del Max Planck Center next Generation Insect Chemical Ecology (nGICE), spiega a sua volta: «Gli insetti e i loro feromoni si sono evoluti nel corso di milioni di anni. Al contrario, la concentrazione di inquinanti atmosferici è aumentata drammaticamente solo dall'industrializzazione. E’ improbabile che i sistemi di comunicazione degli insetti, che si sono evoluti nel corso dell'evoluzione, siano in grado di adattarsi a nuove condizioni in un breve periodo di tempo se i feromoni improvvisamente non ci sono più. L'unica soluzione a questo dilemma è ridurre immediatamente gli inquinanti nell'atmosfera». Hansson studia gli effetti dei cambiamenti climatici e dell'inquinamento atmosferico sugli insetti e sulla loro comunicazione chimica e, in particolare, la sua ricerca si concentra sugli effetti del cambiamento climatico antropogenico sui servizi ecosistemici degli insetti, sulle epidemie di specie di insetti invasive e sulla diffusione di vettori di malattie in Europa. Gli scienziati di Jena vogliono studiare gli effetti dell'ozono su una gamma più ampia di insetti, comprese le falene che di solito seguono scie di feromoni su lunghe distanze. Per gli insetti i feromoni sessuali sono anche segnali cruciali per distinguere tra conspecifici e specie strettamente imparentate. Knaden conclude: «Vorremmo scoprire se alti livelli di ozono portano a un aumento dei tassi di ibridazione quando specie di moscerini strettamente imparentate condividono il loro habitat. Infine, la comunicazione chimica negli insetti non è limitata al comportamento di accoppiamento. Tutti gli insetti sociali come api, formiche e vespe, usano segnali chimici per identificare i membri della loro colonia. Studiamo anche se la struttura sociale all'interno delle colonie di formiche ne è influenzata, quando le formiche tornano dai loro viaggi di foraggiamento durante i quali sono state esposte a livelli aumentati di sostanze inquinanti. Alti livelli di ozono non sono solo dannosi per la salute umana. L'attuale stile di vita delle nazioni industrializzate comporta costi molto elevati per l'ambiente e il clima; molti effetti indiretti non sono nemmeno noti. L'attuale studio fornisce un'ulteriore spiegazione del motivo per cui le popolazioni di insetti stanno diminuendo drasticamente in tutto il mondo, a parte l'applicazione di insetticidi e l'eliminazione degli habitat. Se la comunicazione chimica viene interrotta dagli inquinanti nell'aria, non possono riprodursi a una velocità sufficiente. Questo può interessare anche molti impollinatori, come api e farfalle. Il fatto che l'80% delle nostre colture debba essere impollinato dagli insetti chiarisce quale portata potrebbe assumere in futuro questo problema, se non riusciremo a ridurre drasticamente l'inquinamento atmosferico». 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Il riscaldamento globale rende più frequenti e intensi siccità ed eventi umidi estremi (VIDEO)

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Gli scienziati avevano previsto che siccità e inondazioni sarebbero diventate più frequenti e gravi man mano che il nostro pianeta si riscalda e il clima cambia, ma rilevarlo su scala regionale e continentale si è rivelato difficile. Ora, il nuovo Lo studio “Changing intensity of hydroclimatic extreme events revealed by GRACE and GRACE-FO”, pubblicato su Nature Water da Mattew Rodell del NASA Goddard Space Flight Centee e Bailing Li dell’università del Maryland, conferma che «Le grandi siccità e le precipitazioni piovose - periodi di precipitazioni eccessive e stoccaggio di acqua sulla terraferma - si sono effettivamente verificate più spesso». Rodell  e Li hanno esaminato 20 anni di dati dai satelliti NASA e tedeschi GRACE e GRACE-FO per identificare eventi estremi di umidità e siccità, scoprendo che «Inondazioni e siccità rappresentano ogni anno oltre il 20% delle perdite economiche causate da eventi meteorologici estremi negli Stati Uniti. Gli impatti economici sono simili in tutto il mondo, anche se il bilancio umano tende ad essere più devastante nei quartieri poveri e nei paesi in via di sviluppo». I due scienziati hanno anche scoperto che «L'intensità mondiale di questi eventi estremi di umidità e siccità - una metrica che combina estensione, durata e gravità - è strettamente legata al riscaldamento globale». Dal 2015 al 2021 (7 dei 9 anni più caldi mai registrati) la frequenza di eventi estremi di pioggia e di seccità è stata di 4 all'anno, rispetto alle 3 nei 13 anni precedenti. «Questo ha senso - dicono gli autori dello studio - perché l'aria più calda fa evaporare più umidità dalla superficie terrestre durante gli eventi secchi; l'aria calda può anche trattenere più umidità per alimentare forti nevicate e precipitazioni». Rodell evidenzia che «L'idea del cambiamento climatico può essere qualcosa di astratto. Un paio di gradi in più non sembra molto, ma gli impatti del ciclo dell'acqua sono tangibili. Il riscaldamento globale causerà siccità e periodi umidi più intensi, che colpiranno le persone, l'economia e l'agricoltura in tutto il mondo. Il monitoraggio degli estremi idrologici è importante per prepararsi agli eventi futuri, mitigarne gli impatti e adattarsi». Rodell e Li hanno studiato 1.056 eventi estremi di umidità e siccità, dal 2002 al 2021, osservati dai satelliti Gravity Recovery and Climate Experiment (GRACE) e GRACE-Follow-On (GRACE-FO) che  utilizzano misurazioni precise del campo gravitazionale terrestre per rilevare anomalie di stoccaggio dell'acqua, in particolare, come la quantità di acqua immagazzinata in suoli, falde acquifere, laghi, fiumi, manto nevoso e ghiaccio rispetto alla norma. Rodell. Spiega: «E’ come guardare il livello dell'acqua nella vasca da bagno. Puoi vedere quanto sale e scende senza conoscere la quantità totale di acqua nella vasca. Dato che GRACE e GRACE-FO forniscono ogni mese una nuova mappa delle anomalie di stoccaggio dell'acqua in tutto il mondo, forniscono una visione completa della gravità degli eventi idrologici e di come si evolvono nel tempo». Nel loro studio, Rodell e Li hanno applicato una metrica di "intensità" che tiene conto della gravità, della durata e dell'estensione spaziale della siccità e degli eventi umidi estremi e hanno  scoperto che «L’intensità totale globale degli eventi estremi è aumentata dal 2002 al 2021, rispecchiando l'aumento delle temperature della Terra nello stesso periodo». L'evento di gran lunga più intenso identificato nello studio è stato un evento pluviale iniziato nel 2019 in Africa centrale e tuttora in corso e che ha causato l' innalzamento del livello del lago Vittoria di oltre un metro. La siccità del 2015-2016 in Brasile è stata l'evento di siccità più intenso degli ultimi 20 anni e ha portato allo svuotamento dei bacini idrici e al razionamento dell'acqua in alcune città brasiliane. Li fa notare che «Entrambi gli eventi sono stati associati alla variabilità climatica, ma la siccità brasiliana si è verificata nell'anno più caldo mai registrato (2016), riflettendo l'impatto del riscaldamento globale. Anche le recenti siccità degli Stati Uniti sudoccidentali e dell'Europa meridionale sono stati alcuni degli eventi più intensi, in parte a causa del riscaldamento antropogenico». Li conclude: «Il riscaldamento globale ha avuto impatti ampi e profondi sullo stoccaggio dell'acqua terrestre, come la riduzione della neve annuale in alta quota e l'esaurimento delle acque sotterranee da parte delle persone quando le acque superficiali sono scarse. Riflettendo questi cambiamenti, i dati GRACE ci forniscono un unico prospettiva di come gli estremi idrologici stanno cambiando in tutto il mondo». L'articolo Il riscaldamento globale rende più frequenti e intensi siccità ed eventi umidi estremi (VIDEO) sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Le foreste zombie del riscaldamento globale (VIDEO)

foreste zombie
Lo studio “Low-elevation conifers in California’s Sierra Nevada are out of equilibrium with climate”, pubblicato recentemente su Pnas Nexus da un team di ricercatori della Stanford Unversity. rivela che «Un quinto delle foreste di conifere della Sierra Nevada della California è “arenato” in habitat che per loro sono diventati troppo caldi» I ricercatori della Stanford hanno creato mappe che mostrano dove il clima più caldo ha portato gli alberi a sopravvivere in condizioni non adatte, rendendoli più inclini a essere sostituiti da altre specie.  Gli scienziati statunitensi dicono che «I risultati potrebbero aiutare a informare gli incendi a lungo termine e la gestione dell'ecosistema in queste "foreste di zombi"». Come spiega efficacemente Rob Jordan dello Stanford Woods institute for the environment, «Come un vecchio improvvisamente consapevole che il mondo è andato avanti senza di lui, la conifera originaria delle quote più basse della catena montuosa della Sierra Nevada in California si trova in un clima irriconoscibile». Lo studio  evidenzia che «Circa un quinto di tutte le foreste di conifere della Sierra Nevada - emblema della natura selvaggia del West - sono in “mancata corrispondenza" con il clima caldo delle loro regioni» e  fa notare come «Queste  "foreste di zombi" stiano temporaneamente ingannando la morte, probabilmente per essere sostituite con specie di alberi meglio adattate al clima dopo uno dei sempre più frequenti incendi catastrofici della California». Il principale autore dello studio, il biologo Avery Hill  dela School of humanities & sciences di Stanford, sottolinea che «I gestori delle foreste e degli incendi devono sapere dove le loro risorse limitate possono avere il maggiore impatto. Questo studio fornisce una solida base per capire dove è probabile che si verifichino le transizioni forestali e come questo influenzerà i futuri processi ecosistemici come i regimi degli incendi». Nel novembre 2021, Hill e Christopher Field hanno pubblicato su Naturommunications lo studio “Forest fires and climate-induced tree range shifts in the western US” che dimostra come gli incendi abbiano accelerato lo spostamento degli areali degli alberi negli Usa occidentali. Le conifere della Sierra Nevada, come il pino ponderosa, il sugar pine e l'abete Douglas, sono tra gli esseri viventi più alti e massicci della Terra e mentre dagli anni ’30 le temperature nel loro areale si erano riscaldate in media di poco più di 1 grado Celsius, gli ultimi anni hanno visto un'ondata gigantesca di nuovi residenti umani attratti verso le quote più basse della Sierra Nevada da paesaggi spettacolari, stili di vita rilassati e relativa convenienza. Gli scienziati dicono che «La combinazione di clima più caldo, più costruzioni e una storia di soppressione degli incendi hanno alimentato incendi sempre più distruttivi, rendendo i nomi di comunità come Paradise e Caldor sinonimo della furia di Madre Natura». Hill e i suoi coautori hanno iniziato analizzando i dati sulla vegetazione risalenti a 90 anni fa, quando la stragrande maggioranza del riscaldamento causato dall'uomo doveva ancora verificarsi. Basandosi su queste informazioni,  hanno realizzato un modello computerizzato che ha dimostrato che «Dagli anni ’30, l'elevazione media delle conifere si è spostata di 34 metri verso l'alto, mentre le temperature più adatte per le conifere hanno superato gli alberi, spostandosi mediamente di 182 metri in salita. In altre parole, la velocità del cambiamento climatico ha superato la capacità di molte conifere di adattarsi o spostare il proprio areale, rendendole altamente vulnerabili alla sostituzione, soprattutto dopo gli incendi boschivi». Lo studio stima che «Circa il 20% di tutte le conifere della Sierra Nevada non corrisponda al clima che le circonda. La maggior parte di quegli alberi non corrispondenti si trova al di sotto di un'altitudine di 2.356 metri. La prognosi: anche se l'inquinamento globale che intrappola il calore arrivasse al limite inferiore delle proiezioni scientifiche, il numero di conifere della Sierra Nevada non più adatte al clima raddoppierà entro i prossimi 77 anni». Field, direttore dello Stanford Woods Institute for the Environment della Stanford Doerr School of Sustainability, aggiunge: «Dato il gran numero di persone che vivono in questi ecosistemi e l'ampia gamma di servizi ecosistemici che conferiscono, dovremmo considerare seriamente le opzioni per proteggere e migliorare le caratteristiche che sono più importanti». Le prime mape rwalizxzate dallo studio – uniche nel loro genere - dipingono un quadro  «Territori in rapida evoluzione che richiederanno una gestione più adattativa degli incendi boschivi che eviti la soppressione e la resistenza al cambiamento per l'opportunità di dirigere le transizioni forestali a beneficio degli ecosistemi e delle comunità vicine. Allo stesso modo, gli sforzi di conservazione e di rimboschimento post-incendio dovranno prendere in considerazione come garantire che le foreste siano in equilibrio con le condizioni future. Una foresta bruciata dovrebbe essere ripiantata con specie nuove nella zona? Gli habitat che si prevede andranno fuori equilibrio con il clima di un'area dovrebbero essere bruciati in modo proattivo per ridurre il rischio di incendi catastrofici e la corrispondente conversione della vegetazione?» Hill conclude: «Le nostre mappe impongono alcune discussioni essenziali e difficili su come gestire le imminenti transizioni ecologiche. Queste conversazioni possono portare a risultati migliori per gli ecosistemi e le persone». L'articolo Le foreste zombie del riscaldamento globale (VIDEO) sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.