Tag Aree protette e biodiversità

Il miglioramento ecologico degli ecosistemi di acqua dolce avvantaggia i pesci e pescatori

miglioramento ecologico degli ecosistemi di acqua dolce
La biodiversità delle acque dolci sta diminuendo a ritmi allarmanti, molte azioni di conservazione si concentrano su singole specie. Un approccio alternativo consiste nel migliorare in modo completo i processi e gli habitat ecologici, sostenendo così intere comunità di specie. Questa gestione basata sugli ecosistemi è tuttavia attuata raramente perché è costosa e, inoltre, mancano prove del fatto che sia più efficace di alternative usuali, come il rilascio di pesci per migliorare gli stock. Ma, mentre in Italia si sta andando addirittura verso il rilascio di specie alloctone nei corsi d’acqua –già impoveriti di specie autoctone - per soddisfare le richieste dei pescatori sportivi, in Germania si va in tutt’altra direzione grazie a un lavoro di ampio respiro che coinvolge scienziati e pescatori. Infatti, Lo studio “Ecosystem-based management outperforms species-focused stocking for enhancing fish populations”, pubblicato su Science e realizzato per 6 anni da un team di ricercatori del Leibniz-Institut für Gewässerökologie und Binnenfischerei (IGB), Hochschule Bremen e dell’Humboldt Universität zu Berlin (HU) in stretta collaborazione con numerosi club di pesca sportiva  organizzati nell Anglerverband Niedersachsen (Associazione dei pescatori della Bassa Sassonia), è il frutto di una serie di esperimenti realizzati su laghi e della valutazione dei risultati del miglioramento dell'habitat basato sull'ecosistema.  rispetto allo stoccaggio dei pesci in 20 laghi di ex cave di ghiaia per un periodo di 6 anni. In alcuni laghi sono state create ulteriori zone di acque poco profonde. In altri laghi sono stati aggiunti fascine di legno grossolano per migliorare la diversità strutturale. In alcuni laghi dello studio sono stati immessi 150.000 pesci di 5 specie di interesse per la pesca, i laghi non manipolati sono serviti da controllo. Il principale risultato può sembrare controintuitivo: «La creazione di zone di acque poco profonde è stato il metodo più efficace per migliorare le popolazioni ittiche. Queste zone sono ecologicamente importanti per molte specie ittiche, in particolare come zone di riproduzione e aree di nursery per gli avannotti. L'introduzione del legno grezzo ha avuto solo effetti positivi nei ​​laghi selezionati; l'allevamento di pesce è completamente fallito». Il principale autore dello studio, Johannes Radinger dell'IGB, sottolinea che «Il ripristino dei processi e degli habitat ecologici centrali - la gestione basata sugli ecosistemi - potrebbe avere effetti a lungo termine più forti per la ricostruzione delle specie e delle popolazioni ittiche rispetto ad azioni di conservazione ristrette e incentrate sulle specie». Mai prima d'ora le comunità ittiche erano state studiate su una serie così ampia di esperimenti su interi sistemi lacustri e coinvolgendo numerosi club di pescatori sportivi e professionistii. Thomas Klefoth, professore alla Hochschule Bremen e co-iniziatore del  progetto evidenzia che «In contrasto con gli studi in laboratorio, gli esperimenti sul campo, che considerano la variazione dell'ecosistema naturale e le interazioni ecologiche e sociali, consentono di ottenere solide prove sull'efficacia delle misure di gestione». L’autore senior dello studio, Robert Arlinghaus dell?IGB e dellHU, aggiunge che «Includere più laghi delle cave di ghiaia negli esperimenti è stato possibile solo attraverso una stretta collaborazione tra ricerca e pratica. L'approccio transdisciplinare ha contribuito a un ripensamento dell'allevamento ittico e ha favorito l'accettazione di alternative di gestione più sostenibili e basate sull'ecosistema» Lo studio evidenzia due messaggi centrali che sono rilevanti anche per altri ecosistemi acquatici: «Il ripristino dei processi ecologici ha un impatto più sostenibile sulle comunità e sulle specie rispetto ad azioni di conservazione ristrette e incentrate sulle specie. Inoltre, la conservazione della biodiversità dell'acqua dolce è più efficace quando i gruppi di utenti, come i club di pescatori, si assumono la responsabilità e sono supportati nei loro sforzi da autorità, associazioni e scienza. Questo approccio consente di conciliare conservazione e utilizzo, poiché sia ​​le specie che le attività di pesca traggono vantaggio dalla gestione basata sugli ecosistemi». L'articolo Il miglioramento ecologico degli ecosistemi di acqua dolce avvantaggia i pesci e pescatori sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Luca Santini è il nuovo presidente di Federparchi

Luca Santini e il nuovo presidente di Federparchi
Dopo un’ampia discussione, il Consiglio direttivo della Federparchi, riunitosi oggi a Roma, ha eletto a maggioranza Luca Santini quale nuovo presidente della Federazione della aree naturali protette italiane.  Succede a Giampiero Sammuri, presidente del Parco Nazionale Arcipelago Toscano, che aveva raggiunto il limite dei due mandati. Luca Santini, nato a Stia in provincia di Arezzo nel  1964, attualmente è presidente del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna e quando venne nominato la sua candidatura fu avversata da diverse associazioni ambientaliste perché era sia Sindaco che cacciatore. Secondo il profilo che ne traccia Federparchi, Santini «Ha lavorato a lungo su progetti di tutela della biodiversità e della fauna selvatica dell’Appennino, con particolare riferimento al lupo, nonché sui temi relativi al territorio. E’ stato sindaco di Stia (Ar) tra  il 2004 e il 2014. Dal 2011 al 2013 è stato presidente dell’Unione dei Comuni Montani del Casentino. Nel  2013  diviene presidente del parco nazionale delle Foreste Casentinesi e, da allora, è componente del Consiglio Direttivo della Federparchi». Sammuri ha commentato sulla sua pagina Facebook: « Con oggi, dopo 14 lunghissimi anni si conclude la mia esperienza di presidente di Federparchi. Il nuovo presidente è Luca Santini presidente del parco delle foreste casentinesi, persona capace e di esperienza. Sono contento che la scelta del consiglio, del quale non faccio più parte, sia stata su di lui.  Sono stati anni belli, intensi pieni di rapporti umani, di condivisioni e di esperienze. Ho imparato tantissimo girando l’Italia ed il mondo , conoscendo centinaia di persone che condividono i miei stessi interessi. Sicuramente l’esperienza più gratificante della mia vita. Grazie a tutti quelli che mi hanno aiutato e sostenuto in questo percorso e un grandissimo augurio di buon lavoro a Luca che sicuramente farà molto bene».   L'articolo Luca Santini è il nuovo presidente di Federparchi sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Pesce istrice tropicale ritrovato sulla costa laziale. E’ il secondo segnalato dal 2008 (VIDEO)

pesce istrice 1
E’ un pesce istrice, conosciuto anche come pesce porcospino punteggiato (Chilomycterus reticulatus), l’esemplare di circa 60 centimetri ritrovato spiaggiato a Santa Marinella (Roma) e segnalato da un pescatore grazie alla campagna “Attenti a quei 4!” lanciata da Ispra e Cnr-Irbim per informare i cittadini sulla presenza di quattro pesci alieni potenzialmente pericolosi per la salute umana. In seguito alla segnalazione ricevuta, i ricercatori dell’Ispra sono intervenuti per recuperare l’esemplare di Santa Marinella ed effettuare le analisi morfologiche e molecolari per l’identificazione della specie. Ispra e Cnr-Irbim spiegano che «Segnalata prima d’ora solo una volta nel Mediterraneo lungo il litorale sardo dell’isola di Sant’Antioco nel 2008, questa specie subtropicale presenta un corpo gonfiabile ricoperto di grosse spine, denti fusi in placche e una caratteristica livrea maculata su dorso e pinne. Si nutre principalmente di ricci di mare e molluschi conchigliati. Appartiene alla famiglia Diodontidae, la cui commercializzazione a scopo alimentare è vietata già dal 1992, per via della possibilità di accumulare la tetrodotossina, sebbene in misura minore rispetto ai pesci palla della famiglia Tetraodontidae. L’esemplare trovato sulla costa laziale potrebbe essere arrivato dall’Atlantico orientale attraverso lo Stretto di Gibilterra o provenire da un rilascio da acquari». Quindi, Ispra e Cnr-Irbim  rinnovano l’invito a «Non liberare specie esotiche vive negli ambienti naturali, limitare le loro possibilità di fuga da ambienti confinati e segnalare anche per imparare a conoscere le nuove specie esotiche che popolano i nostri mari a partire da quelle potenzialmente pericolose che vengono illustrate dalla campagna “Attenti a quei 4”. L'articolo Pesce istrice tropicale ritrovato sulla costa laziale. E’ il secondo segnalato dal 2008 (VIDEO) sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Studio di fattibilità per l’eradicazione del cinghiale e del muflone all’Isola d’Elba

eradicazione del cinghiale
E' stata pubblicata sulla piattaforma http://start.toscana.it (procedura n.004056/2023) una indagine di mercato per l’affidamento della redazione dello studio di fattibilità per l’eradicazione del cinghiale (Sus scrofa) e del muflone (Ovis aries). Si tratta di un grosso passo avanti che viene incontro alle richieste che da anni agricoltori, ambientalisti, operatori turistici e comitati fanno per salvaguardare la biodiversità e l’agricoltura dell’Isola d’Elba che hanno subito fortissimi danni a causa di questi animali introdotti negli anni ’60 e ‘7’ (cinghiale) e ’80 (muflone) a fini venatori. Il Parco Nazionale informa che «La procedura si svolgerà interamente per via telematica. Tutte le informazioni per partecipare sono contenute nel sito  http://start.toscana.it» e spiega che «Si tratta di un'indagine di mercato finalizzata all'affidamento diretto per il servizio di redazione dello studio di fattibilità dell'eradicazione di cinghiali e mufloni dall'Isola d'Elba. Le attività da svolgere sono inerenti alla redazione di una indagine di fattibilità per l’eradicazione delle due specie di ungulati selvatici, muflone e cinghiale, dal territorio dell’Isola d’Elba. L’affidatario analizza pertanto tutte le variabili, eco-etologiche, sociali, economiche, tecniche, giuridico-normative, in grado di condizionare il raggiungimento dell’obiettivo gestionale complessivo previsto. L’indagine dovrà approfondire l’uso dei diversi habitat e delle aree urbanizzate/agricole, le tecniche di prelievo, la gestione dei capi prelevati, i soggetti che partecipano alle fasi di prelievo, lo sforzo di prelievo, le tempistiche, il monitoraggio in corso d’opera e alla fine dell’azione di eradicazione; saggia il contesto sociale ed economico locale, la percezione del problema tra la popolazione; analizza il contesto normativo nazionale ed europeo che regola gli interventi di gestione delle due specie; evidenzia i processi di governance alla base della conduzione degli interventi; effettua una stima del costo totale dell’intervento di eradicazione qualora ritenuto possibile in senso tecnico, sociale e giuridico». La scadenza è il 26/03/2023 gli operatori economici interessati dovranno identificarsi sul Sistema Telematico di Acquisto accessibile all’indirizzo http://start.toscana.it ed inserire la documentazione richiesta. L'articolo Studio di fattibilità per l’eradicazione del cinghiale e del muflone all’Isola d’Elba sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Le tartarughe marine italiane nidificano sempre più a nord. Ma aumentano i rischi

Le tartarughe marine italiane nidificano sempre piu a nord.
Negli ultimi anni nuove nidificazioni di tartaruga marina  Caretta Caretta sono state segnalate sempre più a nord sulle coste italiane del Tirreno e dell’Adriatico,  mostrando che questi rettili marini stanno ampliando il loro areale di nidificazione mediterraneo, molto probabilmente a causa dei cambiamenti climatici in atto. Lo studio “Environmental and pathological factors affecting the hatching success of the two northernmost loggerhead sea turtle (Caretta caretta) nests”, pubblicato recentemente su Nature da un team di ricercatori del Dipartimento di biomedicina comparata e alimentazione dell’università di Padova e dell’ Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe), conferma questa ipotesi, ma avverte: « Nel contesto del cambiamento climatico, i modelli migratori, l'uso dell'habitat, il rapporto tra i sessi e lo sviluppo embrionale potrebbero essere influenzati dagli effetti dell'aumento della temperatura». ArpaVeneto ha dato il proprio contributo allo studio fornendo dati ambientali tra cui dati pluviometrici sia attuali che storici e dati granulometrici. I due nidi di tartaruga descritti nello studio (Jesolo Lido e Scano Boa), gli episodi segnalati nelle Marche (Pesaro) nel 2019, e i due in Liguria (Finale Ligure nel 2021 e Levanto nel 2022) e il confermato aumento della temperatura del mare nel bacino adriatico «Contribuiscono a rafforzare l'ipotesi dell'espansione dell'attività nidificante verso la costa settentrionale del Mediterraneo occidentale nel periodo 2010 – 2020». Quindi, i due siti veneti «Possono essere considerati i siti di nidificazione più settentrionali del Mar Mediterraneo mai monitorati e, molto probabilmente, a livello mondiale». Lo studio fa notare che Queste prime segnalazioni potrebbero potenzialmente candidare quest'area come idonea a gran parte del ciclo vitale della tartaruga comune e potrebbe rappresentare un'area minore di nidificazione delle tartarughe marine che sarebbe passata inosservata a causa della mancanza di uno specifico monitoraggio». Ma i ricercatori sottolineano che due nidi hanno mostrato un diverso successo di schiusa «Con risultati inferiori (11%) nella località più urbanizzata (Jesolo Lido) rispetto alla media (66%) rilevata nel Mediterraneo occidentale. Anche la presenza e le attività umane, come l'urbanizzazione, l'allestimento turistico della spiaggia e l'inquinamento, potrebbero aver compromesso la sopravvivenza embrionale. Inoltre, questi due episodi di nidificazione hanno aggiunto alcune preoccupazioni riguardo alle sfide nella gestione e nel monitoraggio dei nidi delle tartarughe marine in termini di interazione con le attività umane e problemi di salute». Le due aree vente monitorate sono infatti caratterizzate da intense attività umane, come il turismo, la pesca e il traffico marittimo e  «Queste minacce antropiche, oltre a quelle naturali e alle mutevoli caratteristiche ambientali della spiaggia, possono influenzare la crescita di microrganismi causando fallimenti di schiusa. Tra i microrganismi, infezione fungina del genere Fusarium è considerata una delle cause principali del declino globale delle popolazioni di tartarughe marine.  Si ritiene che la fusariosi dell'uovo di tartaruga marina (STEF) abbia profondamente compromesso il successo della cova di quella più a nord. Il cambiamento climatico e gli impatti antropogenici sono stati classificati come uno dei rischi maggiori per la salute delle tartarughe marine e potrebbero aver avuto un ruolo nello sviluppo di STEF». I ricercatori dell’università di Padova e dell’ IZSVe concludono: «L'espansione dell’areale delle tartarughe marine a nord, in aree altamente urbanizzate, con diverse attività antropiche che hanno un impatto negativo sul successo della schiusa, richiede una copertura di monitoraggio più ampia come azione prioritaria per la conservazione delle tartarughe marine. Per far fronte a questa possibile minaccia, un dialogo tra le parti interessate economiche e della conservazione dovrebbe essere incentrato su un piano di gestione che garantisca la coesistenza di attività economiche sostenibili e la conservazione delle specie in pericolo. Questi piani dovrebbero includere: 1) lo sviluppo di modelli di idoneità dei nidi, il monitoraggio in tempo reale, la protezione dei nidi e l'ispezione per far fronte agli effetti negativi delle attività antropiche; 2) strategie di gestione efficaci per il controllo delle malattie emergenti compresa la loro epidemiologia;  3) la possibile applicazione della pratica del trasferimento, anche se non è chiaro se tale approccio aumenti la contaminazione o il trasporto di agenti patogeni, quindi il rischio di infezione da FSSC e mortalità nelle uova di tartaruga marina».   L'articolo Le tartarughe marine italiane nidificano sempre più a nord. Ma aumentano i rischi sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Dove e come è nato il vino

Dove e come e nato il vino
La prestigiosa rivista Science dedica la copertina allo studio “Dual domestications and origin of traits in grapevine evolution” pubblicato da un team guidato da Yang Dong dell’università di Yunnan e dal Laboratorio di genomica vegetale di Shenzhen e che ha visto la collaborazione di Gabriella De Lorenzis (Uiversità di Milano), Fabrizio Grassi (università Milano-Bicocca), Francesco Sunseri (Mediterranea di Reggio Calabria) e di Francesco Mercati  (Istituto di bioscienze e biorisorse - Cnr-Ibbr di Palermo),  che riporta i risultati della più vasta analisi genetica mai condotta sulla vite, con un dataset finale di 2.448 genomi di vitigni unici (a partire dai 3.500 sequenziati), raccolti da 23 istituzioni in 16 Paesi del mondo. dal quale emerge che «L’origine e la domesticazione della vite, da tavola e da vino, finora avvolta in un mistero di difficile decifrazione, risalgono a circa 11 mila anni fa, grazie a due differenti eventi di domesticazione separati geograficamente circa 1.000 km, avvenuti in Asia occidentale e nella regione del Caucaso meridionale», smentendo studi precedenti che indicavano un solo evento nel Caucaso l’origine del vino. Secondo i ricercatori, «I due eventi sono avvenuti contemporaneamente, circa 11 mila anni fa, quindi in concomitanza con l’avvento dell’agricoltura e 4 mila anni più tardi rispetto a quanto ritenuto in precedenza. Sebbene l'evento di domesticazione nel Caucaso meridionale sia associato alle prime vinificazioni (fonti storiografiche), l'origine del vino in Europa nasce dall’incrocio tra le viti selvatiche di questa regione e le uve domesticate del Vicino Oriente, inizialmente utilizzate solo per il consumo fresco (uva da tavola), stabilendo quattro grandi gruppi di viti coltivate in Europa lungo le rotte migratorie dell'uomo». Per arrivare a questi risultati, i ricercatori hanno sequenziato il DNA del progenitore selvatico, comparandolo con il DNA dei circa 3.000 campioni raccolti in tutto il mondo, identificando così anche «Alcuni geni, relativi a sapore, colore e consistenza dell’uva, che potrebbero aiutare i viticoltori a migliorare i loro prodotti e a rendere le varietà attuali più resistenti ai cambiamenti climatici». Infine, dicono al Cnr-Ibbr lo studio ha dimostrato che «L’aumento degli scambi commerciali ha favorito il commercio di cultivar superiori tra le regioni euroasiatiche e ciò è risultato particolarmente evidente nelle cultivars italiane che condividono tre o più parentele genetiche con altre cultivars, ponendo le basi per uno studio definitivo della grande biodiversità vitivinicola italiana con la sfida a districare la storia genealogica di molte cultivar, peraltro già ben avviata in precedenti lavori degli stessi autori italiani». L'articolo Dove e come è nato il vino sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Esa: in 4 anni persi 5,2 milioni di ettari foresta amazzonica. Una superficie grande come il Costa Rica

in 4 anni persi 52 milioni di ettari foresta amazzonica
Le foreste stoccano una grande quantità di carbonio terrestre e svolgono un ruolo importante nel compensare le emissioni antropogeniche di combustibili fossili. Dal 2015, grazie alla Copernicus Sentinel-1 mission  le foreste tropicali del mondo possono essere osservate regolarmente a un intervallo senza precedenti da 6 a 12 giorni. All’Esa spiegano che «Milioni di gigabyte di dati synthetic aperture radar (SAR)  radar ad apertura sintetica (SAR) vengono acquisiti sia di giorno che di notte, indipendentemente dalla copertura nuvolosa, foschia, fumo o aerosol, consentendo il monitoraggio della deforestazione e del degrado forestale almeno bisettimanale. Tuttavia, la sfida sta nel trovare metodi adeguati per estrarre indicatori significativi della perdita di foreste dalle grandi quantità di dati radar in arrivo, in modo tale che le anomalie nelle serie temporali possano essere rilevate regolarmente e in modo coerente nelle foreste tropicali. Questi metodi di monitoraggio delle foreste dovrebbero essere trasparenti e facilmente comprensibili per il grande pubblico, consentendo di avere fiducia nel loro utilizzo in vari settori pubblici e privati». Il progetto Sentinel-1 for Science: Amazonas presenta un approccio semplice e trasparente all'utilizzo delle immagini del radar satellitare Sentinel-1 per stimare la perdita di foreste: «Utilizza un cubo di dati spazio-temporali (noto anche come StatCubes), in cui le informazioni statistiche rilevanti per identificare la deforestazione vengono estratte in ogni punto della serie temporale radar – spiegano ancora all’ESa - Con questo approccio, il progetto dimostra l'uso dei dati di Sentinel-1 per creare un'analisi dinamica della deforestazione nel bacino amazzonico».  E’ così che il team di ricercatori del progetto è stato in grado di rilevare la perdita di foreste di oltre 5,2 milioni di ettari dal 2017 al 2021, che è all'incirca la dimensione del Costa Rica. Neha Hunka, esperta di telerilevamento di Gisat, ha sottolineato che «“Quello che stiamo vedendo dallo spazio sono oltre un milione di ettari di foreste umide tropicali che scompaiono ogni anno nel bacino amazzonico, con l'anno peggiore che è il 2021 in Brasile. D'ora in poi possiamo tenere traccia di queste perdite e riferirle in modo trasparente e coerente ogni 12 giorni». Dall'inizio del 2015 a dicembre 2021, sono stati analizzati miliardi di pixel provenienti dai satelliti Sentinel-1,  ognuno dei quali rappresenta una foresta di 20 x 20 metri, e sono stati armonizzati nell'ambito del progetto StatCubes, dando come risultato il rilevamento della perdita di foresti. La sfida più grande del progetto è stata l’enorme quantità di dati da gestire ed elaborare. Il team ci è riuscito gestendo diversi strumenti software intuitivi per accedere ai dati in modo efficiente, elaborando oltre 450 TB di dati per creare le mappe della perdita delleforeste. Anca Anghelea, open science platform engineer dell’Esa sottolinea che «Fornendo dati e codice open access  attraverso l'Open Science Data Catalogue dell'ESA e la piattaforma openEO, puntiamo a consentire ai ricercatori di tutto il mondo di collaborare e contribuire all'avanzamento delle conoscenze sul nostro foreste globali e il ciclo del carbonio. Pertanto, nell'ultima fase del progetto, un focus chiave sarà su Open Science, riproducibilità, mantenimento a lungo termine ed evoluzione dei risultati raggiunti nel progetto Sentinel-1 for Science: Amazonas», contribuendo così alla realizzazione del  Carbon Science Cluster dell'ESA . Sentinel-1 for Science Amazonas è implementato da un consorzio formato da Gisat ,  Agresta , Norges miljø- og biovitenskapelige universitet e Paikkatietokeskus/  Finnish Geospatial Research Institute e il suo team interdisciplinare combina silvicoltura, valutazioni del carbonio, analisi SAR multitemporale e fusione di dati e capacità di elaborazione di dati di grandi dimensioni. Il prossimo obiettivo del team di ricerca, lavorando insieme al  team dell'ESA Climate Change Initiative,  è ottenere una stima della perdita di carbonio derivante dai cambiamenti della copertura del suolo. L'articolo Esa: in 4 anni persi 5,2 milioni di ettari foresta amazzonica. Una superficie grande come il Costa Rica sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Plastic smog: negli oceani del mondo ci sono più di 170 trilioni di pezzi di plastica galleggianti (VIDEO)

Plastic smog 1
Lo studio “A growing plastic smog, now estimated to be over 170 trillion plastic particles afloat in the world’s oceans. Urgent solutions required”, pubblicato su PLOS ONE da un team internazionale di ricercatori guidato dal  5 Gyres Institute, rivela che «Ci sono più di 170 trilioni di particelle di plastica, del peso di circa 2 milioni di tonnellate, che galleggiano negli oceani del mondo» e, valutando i trend della plastica negli oceani dal 1979 al 2019, gli autori dello studio hanno osservato «Un rapido aumento dell'inquinamento marino da plastica» e chiedono «Urgentemente misure politiche incentrate sulla riduzione e il riutilizzo delle fonti piuttosto che sul riciclaggio e la pulizia». Uno degli autori dello studio, Edward Carpenter dell’Estuary & Ocean Science Center della San Francisco State University, ha ricordato che «Sappiamo che l'oceano è un ecosistema vitale e abbiamo soluzioni per prevenire l'inquinamento da plastica. Ma l'inquinamento da plastica continua a crescere e ha un effetto tossico sulla vita marina. Ci deve essere una legislazione per limitare la produzione e la vendita di plastica monouso o la vita marina sarà ulteriormente degradata. Gli esseri umani hanno bisogno di oceani sani per un pianeta vivibile». Il 5 Gyres Institute ha pubblicato la prima stima globale dell'inquinamento marino da plastica nel 2014, stabilendo che allora nell'oceano erano presenti più di 5 trilioni di particelle di plastica, ora l’Istituto  sottolinea che «Comprendere la presenza e i trend della plastica nell'ambiente è fondamentale per valutare i rischi attuali e potenziali futuri per gli esseri umani e gli ecosistemi». Gli autori dello studio hanno utilizzato dati pubblicati in precedenza e nuovi (11.777 campioni) sulla plastica oceanica galleggiante per creare una serie temporale globale che stima i conteggi medi e la massa di microplastiche nello strato superficiale dell'oceano. Lo studio fornisce anche una panoramica storica delle misure politiche internazionali per ridurre l'inquinamento da plastica e ne valuta l'efficacia. I ricercatori evidenziano che «Dal 2005 in poi, c'è un rapido aumento della massa e dell'abbondanza di plastica negli oceani, che può riflettere aumenti esponenziali della produzione di plastica, frammentazione dell'inquinamento da plastica esistente o cambiamenti nella produzione e gestione dei rifiuti terrestri» e avvertono che «Senza un'azione immediata, si prevede che il tasso della plastica che entra negli ambienti acquatici aumenterà di circa 2,6 volte dal 2016 al 2040. Questa accelerazione dell'inquinamento marino da plastica richiede un urgente intervento politico internazionale alla fonte della produzione di plastica e della fabbricazione dei prodotti, prima che vengano generati rifiuti, al fine di ridurre al minimo i danni ecologici, sociali ed economici». Il principale autore dello studio, il co-fondatore del  5 Gyres Institute Marcus Eriksen,  sottolinea che «L'aumento esponenziale delle microplastiche negli oceani del mondo è un duro avvertimento che dobbiamo agire ora su scala globale, smettere di concentrarci sulla pulizia e il riciclaggio e inaugurare un'era di corporate responsibility per l'intera vita delle cose che producono le imprese. Se continuiamo a produrre plastica al ritmo attuale, ripulire è inutile e abbiamo sentito parlare di riciclaggio per troppo tempo mentre l'industria della plastica rifiuta contemporaneamente qualsiasi impegno ad acquistare materiale riciclato o progettare per la riciclabilità. E’ ora di affrontare il problema della plastica alla fonte». Sarah Martik, vicedirettrice del Center for Coalfield Justice - Southwestern Pennsylvania, fa notare che «Ogni particella di plastica che troviamo nell'oceano è indissolubilmente legata a comunità come la mia attraverso il fracking che ha prodotto le materie prime e l'inquinamento del suolo, dell'acqua e dell'aria che accompagnano tale estrazione. L'inquinamento derivante dalle fasi di estrazione e produzione del ciclo di vita della plastica è spesso invisibile, ma gli impatti sulla salute umana e l'inquinamento a valle non lo sono. Affrontare l'intero ciclo di vita è l'unico modo per proteggere non solo i nostri oceani, ma anche le nostre comunità». Dopo che nel 2022 gli Stati membri dell’Onu hanno adottato una risoluzione per porre fine all'inquinamento da plastica e con il recente Trattato per la protezione dell’Oceano, siamo a un punto di svolta, ma il   5 Gyres Institute. Ricorda che «Le attuali politiche internazionali sulla plastica sono frammentate, mancano di specificità e non includono obiettivi misurabili. La creazione di accordi internazionali vincolanti e applicabili incentrati sulla riduzione della fonte è la migliore soluzione a lungo termine. Poiché i negoziati sui trattati sono in corso, è fondamentale stabilire un trattato globale legalmente vincolante che affronti l'intero ciclo di vita della plastica, dall'estrazione e produzione fino alla sua fine vita». Un co-autore dello studio, Scott Coffin, del California State Water Resources Control Board, è convinto che «Il crescente accumulo di particelle di plastica nei nostri ambienti e nei nostri corpi alla fine porterà all'incapacità del pianeta di sostenere la vita così come la conosciamo. Ora è il momento per i governi di tutto il mondo di unirsi nei loro sforzi per ridurre la produzione di plastica e impedire ulteriormente la sua fuga nell'ambiente». La tanzaniana Ana Rocha, direttrice esecutiva di Nipe Fagio, aggiunge che «Storicamente, le popolazioni vulnerabili hanno costantemente svolto un ruolo importante nella gestione dei rifiuti di plastica, nonostante fossero trascurate nei sistemi di gestione dei rifiuti e fossero significativamente colpite dalla produzione di plastica. Nel caso della Tanzania, le aziende con entrate superiori al PIL del Paese producono plastica che noi non abbiamo la capacità di gestire, né dovrebbe essere nostra responsabilità farlo , e la inviano ai nostri mercati. Questi prodotti non rendono i beni disponibili alle persone a meno che non possano permetterseli, quindi affrontiamo la contraddizione delle persone che bevono acqua non trattata mentre il loro ambiente e i corsi d'acqua sono pieni di bottiglie di plastica. Il Trattato globale sulla plastica è l'occasione altrimenti mancante per progettare uno strumento legalmente vincolante che affronti l'intero ciclo di vita della plastica e promuova la giustizia ambientale. Le comunità vulnerabili, soprattutto nel Sud del mondo, non devono continuare a favorire il profitto di aziende e Paesi, soprattutto nel Nord del mondo. La nostra dignità deve essere rispettata e valorizzata». Per la texana Yvette Arellano, fondatrice e direttrice di Fenceline Watch, «“La stessa industria che svolge un ruolo nella plastica svolge un ruolo nella crisi climatica. Il tempo è vitale; disastri climatici estremi colpiscono la nostra area con crescente frequenza e il pericolo di esplosioni ed emissioni da disastri chimici da impianti petroliferi, del gas e petrolchimici si moltiplica: le emissioni tossiche dalla produzione di plastica causano danni riproduttivi, di sviluppo e altri danni mutageni e multigenerazionali nelle nostre comunità». Un’altra autrice dello studio, Lisa Erdle, direttrice ricerca e innovazione del 5 Gyres Institute, ha commentato: «Sappiamo che le microplastiche sono ovunque e, per quanto riguarda le soluzioni, stanno andando a monte, trovando modi per limitare le emissioni vicine alla fonte. Ma quello che abbiamo imparato negli ultimi 15 anni è che la plastica può causare danni dall'estrazione di combustibili fossili allo smaltimento dei prodotti a fine vita. Quindi, nello sviluppo di soluzioni, deve essere preso in considerazione l'intero ciclo di vita della plastica». Patricia Villarrubia Gomez,  dello Stockholm Resilience Centre dell’università di Stoccolma, conclude: «La presenza di materie plastiche, in tutte le dimensioni, forme e forme, sta aumentando in modo incontrollabile ovunque. È imperativo pensare alla plastica come a un malvagio problema sociale e ambientale. E’ un materiale che crea danni durante tutto il suo ciclo di vita, dalla trivellazione di combustibili fossili alla diffusione di microplastiche nei corsi d'acqua, nel suolo e nell'atmosfera. Per affrontare efficacemente l'inquinamento da plastica, dobbiamo affrontarlo in modo sistemico». L'articolo Plastic smog: negli oceani del mondo ci sono più di 170 trilioni di pezzi di plastica galleggianti (VIDEO) sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Gli ambientalisti siciliani: l’osservatorio astronomico sulla Mufara, nelle Madonie, è irrealizzabile

osservatorio astronomico sulla Mufara
Di fronte a notizie stampa che definiscono «Parziali e fuorvianti»,  Cai, GRE, Italia Nostra, Legambiente, Lipu, Rangers e Wwf, che il 23 aprile 2022 organizzarono nel Parco Regionale delle Madonie una manifestazione per la tutela della Mufara, ribadiscono che «Il progetto dell’osservatorio astronomico sulla Mufara è irrealizzabile per violazioni di vincoli di legge inderogabil»i. Le associazioni ambientaliste spiegano che «Il progetto proposto si estenderebbe su una superficie di 800 metri quadri, di cui 360 per un piazzale, con 3.540 metri cubi di volume edilizio e un’altezza di oltre 13 metri fuori terra, con annessa una pista carrozzabile per l’accesso alla sommità della Mufara. Tutto questo non solo in piena zona A di tutela integrale del Parco delle Madonie, ma addirittura in area boscata e nelle fasce di tutela esterna a inedificabilità assoluta come recentemente ribadito dalla Corte Costituzionale che con la sentenza n. 135 del 26 aprile 2022 ha dichiarato illegittime le norme regionali con cui si volevano cancellare i vincoli di tutela sulle aree boscate». E gli ambientalisti sottolineano che «Tutto questo non viene raccontato così come non si dice che a seguito della citata sentenza della Corte Costituzionale 135/2022, la Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Palermo, con provvedimento prot. 0015350 del 9 agosto 2022 (reso noto a ottobre del 2022) ha rilasciato, correttamente e inevitabilmente, parere negativo sulla realizzabilità dell’opera nel sito prescelto sulla Mufara. Tra l’altro l’opera sul piano giuridico è tutt’altro che strategica tanto che il progetto è stato presentato non secondo le procedure delle opere pubbliche dichiarate di interesse nazionale, ma allo Sportello Unico Attività Produttive dei comuni delle Madonie, gestito da un’altra società privata la Sosvima, come un qualunque piccolo esercizio commerciale». Il comunicato congiunto delle associazioni smentisce anche che l’Ente Parco abbia autorizzato l’opera: «Ha solo rilasciato un parere preliminare per gli aspetti connessi alla valutazione di incidenza, mentre non ha rilasciato il nulla osta definitivo alla realizzazione dell’opera, preliminare al permesso di costruire di competenza esclusiva del Comune di Petralia Sottana. E non comprendiamo come il nulla osta e il permesso di costruire possano essere rilasciati ai sensi delle norme vigenti in un’area dichiarata a inedificabilità assoluta per legge e sentenza della Corte Costituzionale». Però Cai, GRE, Italia Nostra, Legambiente, Lipu, Rangers e Wwf fanno notare che «E’ singolare poi che l’Ente Parco non abbia ritenuto di dovere controdedurre alle osservazioni di merito presentate dalle Associazioni ambientaliste nel giugno 2022, adducendo interpretazioni procedurali». La nota ambientalista evidenzia che «Tanto è irrealizzabile il progetto di cui si discute, che per cercare di aggirare i vincoli di legge gravanti sulla sommità della Mufara, invece di cercare soluzioni alternative sul piano progettuale, nella recente legge regionale di stabilità n. 2 del 22 febbraio 2023 è stato inserito l’articolo 38, inattuabile e non pertinente, perché fa riferimento a deroghe allo statuto del parco, che riguarda l’organizzazione degli uffici, gli organi e relative attribuzioni, e non la disciplina ambientale, ed è comunque in violazione della giurisprudenza costituzionale. Disconoscendo incredibilmente un’altra sentenza della Corte Costituzionale, la n. 172 del 5 giugno 2018, che ha dichiarato incostituzionale il tentativo proprio per la Sicilia di derogare con legge regionale ai vincoli e di fatto sottrarre dalla tutela paesaggistica le opere dichiarate di interesse pubblico dalla Giunta Regionale. Con questo modo di procedere si alimenta solo il contenzioso e non la ricerca di soluzioni alternative e ragionevoli». Le Associazioni Ambientaliste concludono ribadendo di «Non essere contrarie alla previsione di un osservatorio astronomico sulle Madonie né tanto meno alle attività di ricerca scientifica, ma vanno rispettate le leggi di tutela ambientale e paesaggistica e la Mufara va preservata da simili opere (strade, piazzali, volumi edilizi) che la distruggerebbero irrimediabilmente. Non ci sono alternative: o si cambia sito rispetto alla Mufara ubicando l’osservatorio in aree non vincolate a inedificabilità assoluta e lontano dai boschi o il progetto deve essere totalmente rivisto, eliminando dalla sommità della Mufara volumi edilizi e opere che nulla hanno a che vedere con la struttura del telescopio e salvaguardando l’integrità delle aree boscate». L'articolo Gli ambientalisti siciliani: l’osservatorio astronomico sulla Mufara, nelle Madonie, è irrealizzabile sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

La ricerca italiana per la conservazione di squali e razze

squali e razze
«Squali e razze del Mediterraneo hanno urgente necessità di misure di conservazione che consentano di invertirne l’attuale trend di declino. Metà di queste specie è oggi a rischio di estinzione nei nostri mari a causa della pesca diretta e accidentale. Alcune di queste, tra cui squali sega e squali angelo, si possono considerare ormai localmente estinte». A dirlo sono oltre 90 biologi marini di università ed enti di ricerca italiani che dal 28 febbraio e il 1° marzo si sono riuniti a Napoli al Museo Darwin-Dohrn della Stazione Zoologica A. Dohrn (SZN) nell’ambito delle attività del Centro Nazionale della Biodiversità (National Biodiversity Future Center) supportato dal PNRR e con la collaborazione del progetto Life Elife Alla SZN sottolineano che «E’ stato un incontro di ricercatori impegnati ai massimi livelli per scongiurare questo declino inarrestabile. I partecipanti hanno potuto condividere informazioni sullo stato dell’arte, promuovendo lo sviluppo di contesti progettuali volti a colmare alcune lacune conoscitive. L’obiettivo è stato quello di identificare e proporre ulteriori approcci di conservazione, maggiormente efficaci rispetto alle azioni intraprese fino ad oggi». Le relazioni scientifiche esposte da 33 ricercatori hanno evidenziato lo stato delle conoscenze su biodiversità, biologia ed ecologia, aree di aggregazione e habitat essenziali, impatti della pesca e importanza di questi organismi negli ecosistemi marini. L’incontro ha promosso attività di progettazione da sviluppare in rete sul territorio per colmare i gap conoscitivi mettendo a sistema conoscenze, dati, campioni e poter avanzare proposte concrete, da condividere anche con gli operatori della pesca, per la protezione di queste specie nei nostri mari. Tra le misure discusse dai ricercatori è stata evidenziata «L’importanza delle chiusure spaziali e temporali alla pesca di aree ritenute essenziali per la riproduzione e l’accrescimento delle specie maggiormente a rischio incluse nelle liste rosse dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN). Risulta di fondamentale importanza la modifica di alcuni attrezzi da pesca per ridurre le catture accidentali, l’obbligo di rilascio in mare delle specie rare, come i palombi nel Mar Tirreno o lo squalo volpe nell’intera area mediterranea, da affiancare ad un aumento nei controlli delle attività di pesca per arrestare la commercializzazione di specie protette». Dal dibattito è arrivata la conferma che «La continua richiesta sui mercati mondiali di queste specie alimenta pratiche di sovrapesca a livello globale e l’Italia è tra i principali importatori al mondo di carni di squali e razze. È pertanto fondamentale intervenire con strumenti di disseminazione puntuali ed efficaci per cambiare la percezione del pubblico verso questo gruppo di animali, sensibilizzando i consumatori rispetto alle problematiche di tutela e salvaguardia della loro biodiversità, favorendo anche scelte alimentari responsabili. È emersa quindi l’urgenza di finalizzare un Piano d’Azione Nazionale sugli Elasmobranchi (squali e razze) come strumento chiave per la conservazione di queste specie nelle acque italiane». In una nota congiunta, i ricercatori concludono: «Squali e razze, oltre a far parte della biodiversità dei nostri mari, sono fondamentali per la buona salute degli ecosistemi marini. È dunque urgente porre fine al loro declino mettendo in atto misure di gestione e protezione che ne scongiurino la scomparsa, come accaduto ormai per quelle specie la cui presenza del passato è oggi testimoniata solo dai reperti visibili nei nostri musei. L’articolo 9 della nostra costituzione, unitamente alle direttive europee e alle convenzioni internazionali, sancisce l’importanza di preservare la biodiversità. Con questo obiettivo gli enti organizzatori dell’evento tra cui la Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli, le Università di Palermo e di Padova, il CNR-IRBIM e tutti partecipanti alle giornate di incontro hanno consolidato questo impegno di grande rilevanza nell’ambito delle attività del Centro Nazionale della Biodiversità (National Biodiversity Future Center) finanziato dal PNRR». L'articolo La ricerca italiana per la conservazione di squali e razze sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.