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Animalisti e scienziati contro l’allevamento industriale di polpi

allevamento industriale di polpi
Dopo aver ottenuto i piani per la realizzazione del primo allevamento commerciale di polpi al mondo, Eurogroup for Animals e Compassion in World Farming chiedono che non venga realizzato per la crudeltà sugli animali e le conseguenze ambientali che comporterebbe. Inoltre, alla luce delle prove scientifiche significative e crescenti dell’impatto che gli allevamenti intesnsivi hanno sul nostro pianeta, chiedono all'Unione europea di non stanziare  fondi pubblici per sostenere lo sviluppo dell'allevamento di polpi o qualsiasi altro nuovo allevamento industriale. I piani, presentati alla Direzione Generale della Pesca del Governo delle Isole Canarie dalla società Nueva Pescanova, e scoperti da Eurogroup for Animals, hanno sollevato serie preoccupazioni:  includono l'utilizzo di un metodo di macellazione crudele, il confinamento dei polpi in piccole vasche sterili e pratiche che contribuiscono allo sfruttamento eccessivo delle popolazioni di pesci selvatici. Le preoccupazioni degli attivisti sono delineate nel nuovo rapporto “Uncovering the horrific reality of octopus farming” e confermate recentemente dagli scienziati  nello studio “Live chilling of turbot and subsequent effect on behaviour, muscle stiffness, muscle quality, blood gases and chemistry”, pubblicato su Animal Welfare. Eurogroup for Animals e Compassion in World Farming Rivelano che «Circa un milione di polpi saranno allevati nell'allevamento proposto nel porto di Las Palmas a Gran Canaria, in Spagna, producendo circa 3.000 tonnellate di polpi all'anno».  Inoltre i piani ottenuti dagli animalisti confermano i loro timori che verrebbero attuate una serie di pratiche estremamente preoccupanti, incluso che i polpi verrebbero: «Macellati usando un crudele liquido ghiacciato: un metodo altamente avverso e disumano, scientificamente provato, che causa dolore, paura e sofferenza considerevoli, oltre a un’agonia prolungata.  Confinati in vasche sottomarine affollate e sterili che si tradurranno in uno scarso benessere e rischieranno aggressioni, territorialismo e persino cannibalismo a causa della natura naturalmente solitaria dei polpi.  Esposti a luce innaturale 24 ore su 24 per aumentare la riproduzione, il che causerà uno stress eccessivo data l'avversione che questi animali hanno per la luce. Alimentati con mangimi commerciali contenenti farina di pesce e olio di pesce come ingredienti principali, il che è insostenibile e contribuisce alla pesca eccessiva delle popolazioni selvatiche. Allevati all'interno di un sistema di acquacoltura terrestre  con un rischio più elevato di mortalità di massa a causa delle condizioni di sovraffollamento necessarie per la loro redditività nonché degli impatti ambientali negativi derivanti dall'uso eccessivo di energia». La multinazionale spagnola che sta dietro il progetto nega che i polpi soffrirannom, ma nel 2021, Compassion in World Farming aveva pubblicato il rapporto “Octopus Factory Farming: A Recipe for Disaster” nel quale sosteneva che «L'allevamento di polpi è crudele e causerebbe danni ambientali ai nostri oceani» e che «Test sperimentali per allevare polpi suggeriscono che il tasso di mortalità in questi sistemi sarebbe di circa il 20%, il che significa che 1 individuo su 5 non sopravviverebbe all'intero ciclo produttivo». Nei suoi documenti, Nueva Pescanova stima che ci sarà «Un tasso di mortalità del 10-15%». Peter Tse, neurologo della Dartmouth University, ha detto alla BBC che «Ucciderli con il ghiaccio sarebbe una morte lenta... sarebbe molto crudele e non dovrebbe essere permesso. Sono intelligenti come gatti. Un modo più umano sarebbe quello di ucciderli come fanno molti pescatori, bastonandoli sulla testa». Jonathan Birch della London School of Economics ha condotto una revisione di oltre 300 studi scientifici che, secondo lui, «Dimostrano che i polpi provano dolore e piacere. Questo li ha portati a essere riconosciuti come "esseri senzienti" nell'Animal Welfare (Sentience) Act del Regno Unito del 2022. Un gran numero di polpi non dovrebbe mai essere tenuto insieme in stretta vicinanza. Questo porta a stress, conflitti e alta mortalità... Una cifra del 10-15% di mortalità non dovrebbe essere accettabile per nessun tipo di allevamento». In una In una dichiarazione alla BBC, Nueva Pescanova ribatte che «I livelli di requisiti di benessere per la produzione di polpo o di qualsiasi altro animale nei nostri allevamenti garantiscono la corretta gestione degli animali. Allo stesso modo, la macellazione, comporta una manipolazione adeguata che eviti qualsiasi dolore o sofferenza per l'animale». Se approvato, l'allevamento delle Isole Canarie sarebbe il primo allevamento industriale di polpi al mondo, ma ci sono tentativi di creare allevamenti di polpi simili in altri Paesi come il Messico e il Giappone. A febbraio, lo Stato Usa di Washington ha avviato una proposta di legge per vietare l'allevamento di polpi che sarebbe la prima del suo genere e che ha fatto seguito alla recente chiusura, dopo una campagna di protesta di Compassion in World Farming, dell'unico allevamento di polpi attivo negli Usa, il “Kanaloa Octopus Farm” delle Hawaii. Negli ultimi decenni Il polpo è diventato un alimento sempre più popolare, in particolare in Spagna. Nel 2015, il numero di polpi catturati in tutto il mondo ha raggiunto un massimo di 400.000 tonnellate, 10 volte in più rispetto al 1950 e il numero di polpi selvatici sta diminuendo. Il progetto delle Canarie partirebbe con un a covata iniziale di 100 polpi - 70 maschi e 30 femmine – che verrebbe prelevata da una struttura di ricerca, il Centro biomarino di Pescanova, in Galizia e i piani  affermano Lhe la compagnia ha raggiunto un livello di addomesticamento della specie e che non mostra segni importanti di cannibalismo o competizione per il cibo». Gli animalisti sono preoccupati anche per le acque reflue cariche di azoto e fosfati prodotte dall'allevamento, che verrebbero pompate nuovamente in mare. Ma Nueva Pescanova assicura che «L'acqua in entrata e in uscita dall'impianto sarà filtrata in modo da non avere alcun impatto sull'ambiente» e aver fatto «Grandi sforzi per promuovere prestazioni responsabili e sostenibili lungo tutta la catena di valore, per garantire che vengano adottate le migliori pratiche». Per Reineke Hameleers, CEO di Eurogroup for Animals, «Stabilire ciecamente un nuovo sistemadi allevamento senza tener conto delle implicazioni etiche e ambientali è un passo iin direzione sbagliata e va contro i piani dell'Ue per una trasformazione alimentare sostenibile. Con l'attuale revisione della legislazione sul benessere degli animali, la Commissione europea ha ora la reale opportunità di evitare le terribili sofferenze di milioni di animali . Non possiamo permetterci di abbandonare gli animali acquatici. Chiediamo all'Ue di includere un divieto di allevamento di polpi prima che veda la luce, al fine di evitare di far precipitare altri esseri senzienti in un inferno vivente». Elena Lara, responsabile ricerca di Compassion in World Farming, conclude: «Imploriamo le autorità delle Isole Canarie di respingere i piani di Nueva Pescanova e sollecitiamo l'Ue a vietare l'allevamento del polpo nell'ambito della sua attuale revisione legislativa. Infliggerà inutili sofferenze a queste creature intelligenti, senzienti e affascinanti, che hanno bisogno di esplorare e interagire con l'ambiente come parte del loro comportamento naturale. Le loro diete carnivore richiedono enormi quantità di proteine ​​animali per sostenersi, contribuendo alla pesca eccessiva in un momento in cui gli stock ittici sono già sottoposti a un'enorme pressione. L'allevamento intensivo è la principale singola causa di crudeltà verso gli animali sulla Terra e sta letteralmente distruggendo il nostro pianeta. Dovremmo porre fine all'allevamento intensivo, non trovare nuove specie da confinare negli allevamenti intensivi sottomarini. Dobbiamo porre fine all'allevamento di polpi adesso». 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Mattarella: «Il cambiamento climatico è una sfida Comune per Africa ed Europa» (VIDEO)

Mattarella Kenya
Pubblichiamo il testo integrale dell’intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella all’università di Nairobi, in occasione dela sua  visita di Stato nella Repubblica del Kenya   Eccellentissimi Ministri, Eccellentissimi Cancelliere e Vice Cancelliere dell’Università di Nairobi, Signore e Signori, mi rivolgo a voi, care studentesse e cari studenti, buongiorno a tutti in questa splendida giornata di pioggia. Sono davvero molto lieto di potermi indirizzare a Voi oggi in questa prestigiosa Università, che sin dalla sua fondazione ha formato e continua a formare generazioni di giovani kenyoti e di tutto il continente. Avverto un sentimento di profonda considerazione nel momento in cui mi rivolgo a Voi nell’Università in cui ha insegnato Wangari Maathai, la prima donna africana a ricevere il Premio Nobel per il suo instancabile impegno a favore della promozione dello sviluppo sostenibile, della democrazia e della pace. Il suo esempio è stato fonte di ispirazione per un gran numero di donne e di uomini in tutto il mondo. È anche grazie alle sue azioni se oggi il dibattito attorno al cambiamento climatico non è più appannaggio soltanto di scienziati e di politici, ma è questione che mobilita le coscienze a livello globale. Per troppo tempo abbiamo infatti affrontato in modo inadeguato la questione della tutela dell’ambiente e del cambiamento climatico. Eppure non da oggi siamo consapevoli di come le attività umane abbiano un impatto sull’ambiente e sul clima: basti pensare alla deforestazione che ha caratterizzato lo sviluppo di tante aree in Europa. Una rivista americana, “Popular mechanics”, già nel 1912, oltre cento anni fa, riportava la notizia di come la combustione di miliardi di tonnellate di carbon fossile aggiungesse ogni anno altrettante tonnellate di diossido di carbonio, attribuendo a questo fenomeno nell'atmosfera l’innalzamento delle temperature, i cui effetti, proseguiva l’articolo, sarebbero stati avvertiti nell’arco di alcuni secoli. Era una premonizione. Gli effetti del cambiamento climatico si sono addirittura accelerati. Li avvertiamo in maniera più che significativa. Le conseguenze dell’innalzamento delle temperature medie sono gravi, ben documentate e si avvertono ovunque nel mondo. Il drammatico aumento delle ondate di calore, le inondazioni, la siccità, lo scioglimento dei ghiacciai e l’innalzamento del livello dei mari sono alcuni dei sintomi più evidenti. Come governare questi fenomeni, sfuggendo a una falsa alternativa tra rinuncia allo sviluppo o cristallizzazione dell’esistente? La risposta è nella espressione sostenibilità. Ambientale, sociale, economica. In altri termini saper considerare come unitari i destini delle popolazioni del pianeta. Il cambiamento climatico provoca, come sappiamo, conseguenze nefaste. Si registra ormai da tempo una drammatica diminuzione della biodiversità, in gran parte legata all’abbattimento delle foreste pluviali equatoriali, con la scomparsa di decine di migliaia di specie viventi ogni anno, una perdita irreparabile di varietà genetica, ecosistemi, di habitat. Con importanti conseguenze sulla dislocazione della specie umana su un pianeta che vede diminuire progressivamente le aree di insediamento. Si tratti dell’innalzamento delle acque nei mari - che pone a gravissimo rischio la sopravvivenza di numerose isole e delle popolazioni che le abitano - si tratti dell’allargamento progressivo dei fenomeni di desertificazione, si tratti di abbandono di aree marginali. Il fenomeno dei profughi “climatici”, oltre che di quelli dei conflitti, è drammaticamente davanti a noi. L’impronta dell’uomo sui cicli biogeochimici – da quello del carbonio a quelli dell’azoto e del fosforo, a quello dell’acqua e dell’ossigeno – tutti elementi fondamentali della vita, è determinante. Con il crescere della minaccia è aumentata anche la consapevolezza dei gravissimi rischi che l’umanità sta correndo. In primo luogo grazie all’opera delle Nazioni Unite nel quadro dell’Agenda 2030 e, soprattutto, del Programma per l’Ambiente. Lo scorso anno abbiamo celebrato la ricorrenza del cinquantesimo anniversario dalla sua istituzione, che proprio qui a Nairobi ha sede, grazie ad una decisione coraggiosa e lungimirante del Primo Presidente del Kenya, Jomo Kenyatta. Passi avanti sono stati compiuti. Dalla Conferenza di Montreal del 1987 sulla riduzione del “buco dell’ozono”, al Summit della Terra di Rio de Janeiro del 1992, fino al Protocollo di Kyoto e all’Accordo di Parigi del 2015, tanti momenti hanno consolidato la determinazione collettiva nel prevenire gli scenari più catastrofici legati all’innalzamento delle temperature globali. Lo scorso anno, qui a Nairobi, nell’ambito dell’Assemblea delle Nazioni Unite per l’Ambiente è stata raggiunta una storica decisione, che porterà alla definizione di un trattato giuridicamente vincolante per contrastare l’inquinamento derivante dalla plastica. Infine, nei giorni scorsi, alle Nazioni Unite è stato approvato il Trattato che intende proteggere entro il 2030 il 30% delle acque marine. Sono risultati importanti, che dimostrano come la lotta al cambiamento climatico non sia più trascurata nelle priorità dell’agenda internazionale. Gran parte del merito di questa nuova sensibilità va attribuito alla società civile e, in particolare, ai tanti giovani come voi che in tutti i continenti – dall’Africa all’Europa, dall’Asia alle Americhe – mantengono alta la pressione sui Governi e sul settore privato, pretendendo azioni immediate e incisive. È la vostra generazione a essere interpellata, anzitutto. Perché ne va del vostro futuro. Soprattutto in Africa se ne vivono le drammatiche conseguenze sulla povertà, la malnutrizione, l'accesso alla salute e le prospettive di crescita. Il vostro ruolo è e sarà sempre più esigente ed essenziale. La Repubblica Italiana è fortemente convinta della necessità di sostenere la partecipazione attiva delle giovani generazioni ai negoziati sul clima. Lo abbiamo fatto in occasione del forum Youth for Climate a Milano durante la preparazione della COP26. E siamo lieti che sia diventato un foro permanente, che speriamo possa contribuire al successo della prossima COP di Dubai. Dobbiamo, tuttavia, chiederci: tutto questo è sufficiente? Credo che, in tutta onestà, sia difficile rispondere positivamente a questa domanda. In segmenti della società e in alcuni Paesi non è presente il senso profondo dell’urgenza e della necessità di interventi incisivi. Eppure, lo aveva sottolineato il Presidente Ruto alla COP27, in un intervento che ho molto apprezzato per lucidità e coerenza: “di fronte alla catastrofe imminente, i cui segnali premonitori sono già insopportabilmente disastrosi, un’azione dai contorni limitati sarebbe poco saggia; l’inazione infedele e sarebbe fatale”. Il continente africano è senza dubbio uno fra i più colpiti, pur avendo contribuito molto meno di altri all’attuale degrado della situazione. La tremenda siccità che ha reso aride vaste regioni del Corno d’Africa e anche del Kenya settentrionale, per l’eccezionale durata del fenomeno, assume oramai i contorni di preoccupante nuova normalità piuttosto che di sporadica emergenza. Sono a rischio i laghi, i fiumi, tradizionali veicoli e custodi di biodiversità e ambiti di collegamento tra i territori. Il Mediterraneo – mare in cui insiste l’Italia e regione che custodisce un patrimonio fra i più significativi anche in termini di ricchezza socio-culturale, grazie alla sua caratteristica unica di crocevia di tre continenti – è uno dei luoghi maggiormente in pericolo. Quella della siccità è peraltro soltanto una fra le crisi climatiche. Secondo uno degli ultimi rapporti del Panel Internazionale sul Cambiamento Climatico, i ghiacciai sul monte Kenya rischiano di scomparire nel prossimo decennio, mentre quelli sul Monte Kilimanjaro potrebbero non resistere oltre il 2040. È un destino che queste magnifiche vette africane rischiano di condividere con quelle delle Alpi in Europa, dove già oggi la neve è molto meno frequente. Non si può fuggire dalla realtà. La riduzione delle emissioni nei tempi e nelle modalità indicate dalla comunità scientifica costituisce un obbligo ineludibile, che riguarda tutti. Non ci si può cullare nell’illusione di perseguire prima obiettivi di sviluppo economico per poi affrontare in un secondo momento le problematiche ambientali. Non avremo un “secondo tempo”. Se vogliamo lasciare alle future generazioni, a voi che mi state ascoltando oggi, un pianeta dove l’umanità possa vivere e prosperare in pace, dovremo compiere, tutti assieme, progressi decisivi nella transizione verso un’economia decarbonizzata. I Paesi di più antica industrializzazione hanno contribuito in maniera sicuramente preponderante, con quel modello di sviluppo e crescita, alle emissioni di gas ad effetto serra. Negli ultimi decenni, nuovi protagonisti hanno conosciuto una travolgente crescita economica, che li ha portati a raggiungere, e a superare, l’impatto di quelli che hanno generato la prima rivoluzione industriale. Con effetti altrettanto devastanti sull’ambiente. Gli sforzi dei Paesi industrializzati, che devono essere significativamente accresciuti proporzionalmente alle loro responsabilità, per essere efficaci devono essere accompagnati da un analogo convinto impegno di Paesi - inclusi quelli emergenti -, il cui peso demografico ed economico è diventato prevalente. Care studentesse, cari studenti, Lo sviluppo tecnologico e industriale ha permesso all’umanità di modificare in profondità gli equilibri complessivi del pianeta. Il rapporto tra popolazione e risorse fa sì che l’ambiente che ci circonda non sia più uno scenario immutabile, semplice sfondo alle singole vicende umane. Il passaggio da meri spettatori a forza attiva e consapevole, capace di plasmare il mondo in cui viviamo ci impone un’assunzione di responsabilità collettiva, da cui non possiamo e non dobbiamo tirarci indietro. Per sottolineare questa circostanza, alcuni scienziati hanno suggerito di chiamare l’epoca attuale “antropocene”. Non entro nel dibattito, tuttora in corso, sulla correttezza o meno di questa definizione, ma trovo il termine uno stimolo interessante se consente di riflettere sulla necessità di un cambio di paradigma per affrontare l’emergenza climatica. Innanzitutto, è evidente come a tal fine la dimensione del singolo Stato sia totalmente inadeguata. Gli sforzi di unità e indirizzo, realizzati a partire dalla costituzione dell’Onu, con le organizzazioni di integrazione continentale come l’Unione Africana e l’Unione Europea, non saranno mai sufficienti. Soltanto un’azione collettiva può essere capace di coniugare efficacia e solidarietà per evitare gli scenari catastrofici in atto e quelli che si annunciano. È il momento dell’unità, della coesione, non di divisioni fra Nord e Sud, fra Est e Ovest del mondo. Affrontare le sfide che si pongono all’umanità, tutta insieme, significa abbandonare gli scenari di guerra e di conflitto interno che gravano, purtroppo, sui destini di tante popolazioni e progettare congiuntamente il futuro. La brutale aggressione della Federazione Russa all’Ucraina sta riportando i rapporti internazionali indietro di ottant’anni, come se non vi fosse stato, in questo arco di tempo, un mirabile progresso sul terreno della indipendenza, della libertà e della democrazia, della crescita civile di tante nazioni. Siamo cresciuti nella interdipendenza tra i nostri destini e gravissime sono le conseguenze degli atti della Federazione Russa sulla sicurezza alimentare, su quella energetica di tanti Paesi, sulla pace, anche nel continente africano, e nel Medio Oriente. Il contrasto al cambiamento climatico è obiettivo unificante che richiama al dialogo multilaterale, al rispetto degli impegni liberamente assunti in sede internazionale. La applicazione di piani per la transizione energetica rappresenta di per sè una modalità che può permetterci di addivenire a un sistema economico globale più equo, più sostenibile, più giusto. È una grande opportunità per dare vita a forme di cooperazione internazionale equilibrate, che affrontino il tema dello sviluppo in modo sostenibile, con il necessario trasferimento tecnologico da parte dei Paesi più avanzati e mettendo a disposizione le risorse finanziarie necessarie a beneficio dei Paesi più vulnerabili. Il tema della giustizia climatica è fondamentale e l’Unione Europea sostiene l’iniziativa, lanciata in occasione della recente COP 27 a Sharm El Sheikh di istituire un meccanismo per sostenere i Paesi più esposti agli eventi estremi derivanti dal mutamento climatico, tramite la creazione di un Fondo sulle perdite e i danni, che agisca sulla base del principio di solidarietà e non del mero risarcimento. Particolarmente rilevante è il ruolo delle Istituzioni Finanziarie Internazionali per il sostegno alle iniziative finalizzate a ridurre le emissioni e consentire l’adattamento della società alle nuove condizioni. Care studentesse, cari studenti, in uno degli ultimi scritti, dell’Arcivescovo e Premio Nobel Desmond Tutu si legge: “Essere i custodi del creato non rappresenta un titolo vano; impone di agire e con tutta l’urgenza che la situazione richiede”. La tutela dell’ambiente e il contrasto al cambiamento climatico rappresentano responsabilità ineludibili, che ricadono su tutta l’umanità, nessuno escluso. Ciò detto, sono fermamente convinto che su questo tema, così come su molti altri, Africa ed Europa possano e debbano assumere congiuntamente un ruolo di guida. La cooperazione fra Europa e Africa – il cui futuro è in comune - è determinante per promuovere obiettivi ambiziosi. L’Africa detiene chiavi essenziali per il successo delle strategie di de-carbonizzazione del pianeta. La produzione di energia pulita e la sua efficace distribuzione sono fondamentali per lo sviluppo dell’Africa, come indicato nella strategia dell’Unione Africana sul clima. La transizione energetica, con la sua enfasi sulle energie rinnovabili e sull’economia circolare, apre nuovi e promettenti orizzonti di collaborazione per i nostri continenti. A questo riguardo, con l’istituzione di uno specifico Fondo per il Clima, l’Italia intende proporsi come soggetto di primo piano per interventi di finanza climatica. Dai grandi progetti per l’utilizzo dell’energia solare ed eolica, all’agricoltura 4.0, fino alla produzione di idrogeno verde, le potenzialità per il partenariato fra Africa e Europa sono numerose e tutte altamente promettenti. La chiave di un successo, che per essere durevole non potrà che essere comune, sta nel rafforzare la consapevolezza della complementarietà fra Africa ed Europa, complementarietà che un frangente storico così complesso rende ancora più evidente. Condividiamo la tensione verso un nuovo umanesimo, che ponga al centro, a livello nazionale e internazionale, l’uomo e la sua aspirazione a vivere con dignità in società più eque, inclusive e sostenibili. Nel percorso di intensificazione dei rapporti, l’Italia e l’Unione Europea contano sulla interlocuzione con quei Paesi, come il Kenya, con cui costruire un partenariato fondato, oltre che sulla convergenza verso comuni interessi, su valori condivisi. Quali il rispetto per la dignità di ogni persona e di ogni comunità, la promozione dei valori democratici, l’attenzione per la crescita e lo sviluppo delle giovani generazioni, la cura dei beni comuni globali, a cominciare - appunto - da quello, preziosissimo, dell’ambiente. Come affermò la stessa Wangari Maathai in occasione della cerimonia di consegna del Premio Nobel, “non può esserci pace senza sviluppo; e non vi può essere sviluppo senza una gestione sostenibile dell’ambiente in uno spazio pacifico e democratico”. In queste sue parole ci riconosciamo pienamente. Grazie. L'articolo Mattarella: «Il cambiamento climatico è una sfida Comune per Africa ed Europa» (VIDEO) sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Qual è lo stato dei boschi in Toscana?

lo stato dei boschi in Toscana
Un convegno regionale per fare il punto sullo stato dei boschi nella nostra regione organizzato da Legambiente Toscana, per fare il punto sulla copertura boschiva, parlare di manutenzione, legislazione nazionale e gestione sostenibile. Si tratta di Boschi in Toscana: il pomeriggio di dibattito che avrà luogo alla Casa del Popolo dell’Impruneta, sabato 18 marzo dalle ore 15 alle ore 19. Tanti gli ospiti in programma per affrontare il dibattito sulla copertura forestale in Toscana, una delle regioni con la maggior copertura forestale nazionale. Il convegno si aprirà alle ore 15 con l’introduzione del presidente regionale di Legambiente Toscana, Fausto Ferruzza e Simone Secchi, presidente Legambiente Chianti Fiorentino. Crisi climatica, dati sulla copertura forestale e aspetti legislativi saranno al centro della prima sessione del convegno che vedrà gli interventi di Bernardo Gozzini, amministratore unico del Lamma, Raffaello Giannini referente foreste dell’Accademia dei Georgofili. Si racconteranno i boschi messi alla prova dall’aumento delle temperature, dall’abbandono delle montagne, da incendi e dissesto idrogeologico. Poi, si approfondirà il contesto legislativo regionale con Nicoletta Ferrucci, docente ordinaria di Diritto Forestale e Ambientale di Unifi. Il convegno continuerà con una seconda sessione sulla gestione dei boschi e dei servizi ecosistemici, approfondendo il dibattito su criticità, diverse posizioni e proposte. A partire dall’intervento di Paolo Mori, amministratore unico della Compagnia delle Foreste su manutenzione boschiva e relative problematiche e Giuseppe Vignali, direttore Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano. In seguito, si passerà al tema della certificazione d’impresa, con Antonio Brunori segretario generale della PEFC Italia e le aziende che lavorano nell’ambito di tagli boschivi, con Sandro Orlandini, Vice Presidente regionale CIA/agricoltori italiani e poi continuare con il punto sulle inchieste su illeciti forestali, condotte dal gruppo CC Forestale di Firenze con il Comandante Luigi Bartolozzi. Un programma che si concluderà con un dibattito sui diversi punti di vista relativi alla gestione sostenibile dei boschi. L'articolo Qual è lo stato dei boschi in Toscana? sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

L’estinzione silenziosa degli anfibi africani

Lestinzione silenziosa degli anfibi africani
Lo studio “Continent-wide recent emergence of a global pathogen in African amphibians”, pubblicato su Frontiers in Conservation Science da un team di ricercatori statunitensi descrive dettagliatamente l'emergere e la diffusione relativamente recenti del fungo killer Batrachochytrium dendrobatidis (o Bd) tra gli anfibi in Africa.  Uno degli autori, il biologo Eliseo Parra della San Francisco State University, spiega che «Quando la pelle [degli anfibi] inizia a cambiare spessore, fondamentalmente crea una condizione in cui non possono mantenere i loro processi interni e muoiono. Se un fungo infetta  un mammifero, potrebbe colpire le sue unghie o qualcosa che non noteremmoi nemmeno, ma gli anfibi (rane, salamandre) usano la loro pelle per respirare. È una parte molto critica del loro corpo». L’autore senior dello studio, Vance Vredenburg (California Academy of Science, Museum of Vertebrate Zoology dell’università della California Berkeley e San Francisco State University), ricorda che «Il fungo è letale per molte popolazioni di anfibi ma non per altre» de il suo laboratorio voleva capire dove si trova il fungo, come ci è arrivato e perché è mortale per alcuni anfibi, in particolare in Africa dove è stato poco studiato. Nel 2016, la classe di Vredenburg, desiderosa di essere coinvolta nella ricerca sulla conservazione, ha letto articoli su Bd e valutato i dati pubblicati in precedenza. Parallelamente, il laboratorio di Vredenburg, in collaborazione con la California Academy of Sciences, ha valutato lo stato di infezione di esemplari di anfibi provenienti dall'Africa. Questi due approcci hanno fornito al progetto quasi 17.000 dati da analizzare provenienti da 165 anni di osservazioni su come questo fungokiller  interagisce con gli anfibi in tutto il continente africano. Il team ha constatato «Ua bassa prevalenza di Bd e una diffusione limitata della malattia in Africa fino al 2000, quando la prevalenza è aumentata dal 3,2% al 18,7% e Bd è diventato più diffuso» Vredenburg fa notare che «Non solo il fungo infetta gli anfibi, ma sta causando conseguenze negative (spesso mortali) rispetto alla dormienza». I ricercatori hanno anche scoperto due lignaggi del fungo in Africa: uno era un lignaggio globale - considerato la versione più pericolosa del fungo - mentre il secondo era precedentemente ritenuto più benigno, ma il team della San Francisco State University ha trovato prove che potrebbe anche essere distruttivo. In Camerun, il lignaggio Bd-CAPE del fungo si sta diffondendo e sembra essere più virulento di quanto si pensasse in precedenza. Utilizzando questi dati, il team di ricerca statunitense ha creato un modello secondo il quale l'Africa orientale, centrale e occidentale è l’area più vulnerabile al Bd. Vredenburg spiega ancora: «Stiamo cercando di estendere le nostre scoperte e fare previsioni su cosa potrebbe accadere in futuro. E’ il modo migliore per rendere il nostro studio degno del lavoro fatto. Ci sono quasi 1.200 specie di anfibi in Africa. Volevamo dire dove sono i luoghi più a rischio di focolai. Quelli saranno probabilmente i luoghi in cui avremo il maggior numero di hosts in un unico posto. Un altro autore dello studio, il biologo Hasan Sulaeman  della SFState,  sottolinea che «E’ molto importante notare che Bd, in un modo o nell'altro, non si è diffuso in tutto il mondo senza l'aiuto degli esseri umani. Non è il primo agente patogeno che colpisce centinaia di specie in tutto il mondo e non sarà l'ultimo». Il team di ricercatori sottolinea che «Questo progetto non si adatta agli schemi tradizionali per i documenti di ricerca o per le revisioni della letteratura scientifica». E Vredenburg ab ggiunge: «Anche il fatto che un articolo scientifico sia il risultato di una ricerca svolta in una classe è raro» e attribuisce questa impresa scientifica al talento e alla motivazione dei sui studenti. Sia Parra che Sulaeman hanno partecipato al progetto come studenti nella classe di un seminario e come ricercatori nel laboratorio di Vredenburg. Sono tra gli studenti che hanno continuato a essere coinvolti per una parte dei 5 anni successivi nel progetto semestrale iniziale. Attraverso questa esperienza, hanno acquisito preziose informazioni sul processo di pubblicazione scientifica - qualcosa che non è banale o rapido – già all'inizio della loro carriera. Vredenburg e i suoi colleghi hanno scoperto che in Guinea Equatoriale c’è stata una significativa diminuzione della prevalenza del fungo Killer, ma non ne conoscono il motivo. In alcuni casi la sua diffusione è riconducibile ai viaggi aerei o marittimi, che hanno incrementato i collegamenti tra Paesi diversi e con le isole. Vredenburg ricorda che «Nei Caraibi, le rane che si sono intrufolate con le spedizioni di banane sembrano aver trasportato il fungo da un'isola all'altra. Man mano che aumentiamo la connettività, interromperemo milioni di anni di evoluzione tra agenti patogeni e ospiti». Per Vredenburg, la diffusione del fungo Bd  gli ricorda che inizialmente non si era reso conto di quanto fosse una minaccia per le rane che aveva studiato nella Sierra Nevada: «Queste popolazioni di rane sono così robuste: sono qui da milioni di anni sulla montagna - ricorda di aver pensato in quel momento – Ero convinto che fossero abbastanza al sicuro, il fungo è penetrato e le ha spazzate via. Ho visto decine di migliaia di rane morte». 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Il cambiamento climatico altera la relazione uomo – rapaci

relazione uomo rapaci
In alcune aree dello Stato di Washington, negli Usa nord-occidentali, tra aquile di mare testabianca (Haliaeetus leucocephalus)  e produttori di latte esiste da tempo una relazione reciprocamente vantaggiosa in alcune parti dello. Secondo il nuovo studio “A win–win between farmers and an apex-predator: investigating the relationship between bald eagles and dairy farms”, pubblicato su Ecosphere da Ethan Duvall (Cornell University), Emily Schwabe (università di Washington – Seattle) e Karen Steensma (Trinity Western University), «Questa relazione "win-win" è stata uno sviluppo molto recente, guidato dall'impatto del cambiamento climatico sulla tradizionale dieta invernale delle carcasse di salmone delle aquile, nonché dall'aumento dell'abbondanza di aquile dopo decenni di sforzi di conservazione». Duvall  ricorda che «Tradizionalmente. la narrativa sui rapaci e gli agricoltori è stata negativa e conflittuale, a causa principalmente delle affermazioni sulla predazione del bestiame. Tuttavia, i produttori di latte nel nord-ovest di Washington non considerano le aquile delle minacce. In realtà, molti agricoltori apprezzano i servizi che le aquile forniscono, come la rimozione delle carcasse e la deterrenza per i parassiti». Per comprendere meglio questa relazione unica, il team di ricerca statunitense e canadese ha intervistato agricoltori di aziende lattiero-casearie di piccole, medie e grandi dimensioni nella contea di Whatcom. Lo studio è stato motivato dalla ricerca più recente di Duvall che mostra che, negli ultimi 50 anni, le aquile si stavano ridistribuendo dai fiumi ai terreni agricoli in risposta alla diminuzione della disponibilità di carcasse di salmone. Duvall spiega che «Il cambiamento climatico ha alterato il programma di deposizione delle uova dei salmoni, facendoli arrivare prima in inverno. Ora i salmoni si riproducono quando l'inondazione annuale del fiume Nooksack è al suo apice. I pesci che depongono le uova e muoiono vengono spazzati via dall'acqua alta, invece di essere depositati sulla riva dove le aquile possono facilmente accedervi. Lo spostamento dei tempi di riproduzione ha ridotto il numero di carcasse disponibili sul fiume, non il numero di singoli salmoni. Tuttavia, molti fiumi nel nord-ovest del Pacifico hanno subito un drastico calo della popolazione di salmoni, eliminando anche le risorse invernali per le aquile». Per compensare la riduzione del loro approvvigionamento alimentare naturale, le aquile di mare testabianca si sono rivolte al flusso costante di sottoprodotti dell'allevamento caseario derivanti dalla nascita e dalla morte delle mucche e predano alcune popolazioni di uccelli acquatici che si nutrono e riposano nelle aree agricole dello Stato di Washington. Le aquile calve tengono anche sotto controllo i tradizionali parassiti delle fattorie, come roditori e storni. Duvall conclude: «Sappiamo che questa interazione positiva tra agricoltori e aquile di mare testabianca non è la norma in molte altre aree agricole, specialmente vicino alle fattorie di pollame ruspanti dove le aquile catturano i polli. Ma questo studio mi dà la speranza che, andando avanti, agricoltori, gestori della fauna selvatica e ambientalisti possano riunirsi per pensare in modo critico a come massimizzare i benefici per le persone e la fauna selvatica negli spazi che condividono». L'articolo Il cambiamento climatico altera la relazione uomo – rapaci sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Le api sentinelle del Molise

api sentinelle del Molise
La scorsa settimana, al dipartimento di agricoltura, ambiente e alimenti dell’università degli studi del Molise sono stati presentati i risultati del monitoraggio ambientale condotto nell’ambito del progetto “Biomonitoraggio del territorio con “api sentille”. Ma in che modo è stata monitorata la qualità ambientale del territorio? Nell’ambito del progetto, finanziato dall’azione 19.2.16 del PSL del Gal Molise verso il 2000, sono stati presi in considerazione i diversi metodi e le diverse tecniche di biomonitoraggio del territorio, in questo caso il territorio di riferimento è quello del Gal Molise verso il 2000 (ma in precedenti studi anche in altre aree della regione), e da un'analisi delle diverse possibilità alla fine è stata adottata come agente di biomonitoraggio l’ape da miele. Le motivazioni risiedono principalmente nella completezza di informazioni che questo insetto è in grado di fornire. Nei limiti del tempo e delle risorse a disposizione, sono state scelte 5 diverse località nell'ambito del Gal Molise verso il 2000. Pertanto, a partire dai punti ritenuti strategici per il biomonitoraggio si è cercato di confrontare le aree potenzialmente esenti da una grossa pressione antropica, con aree, invece, in cui ci aspettiamo un maggior carico di inquinanti. Quindi la filosofia di fondo è stata quella di distribuire queste stazioni di biomonitoraggio con api da miele sul territorio con lo scopo di comparare i diversi ambienti analizzati. Perché sono state scelte le api da miele per il monitoraggio? L’ape da miele è risultato il bioindicatore, in senso lato, più adatto per due ragioni principali: 1 Per la sua vasta diffusione su tutto il territorio e questo permette di avvalersi anche della collaborazione delle associazioni apistiche, che hanno una presenza capillare sul territorio stesso, per cui in ogni ambiente è possibile monitorare uno o più allevamenti di api. 2 L'ape è in grado di esplorare tutti i comparti ambientali: aria, con la sua attività di volo; suolo, perché si poggia continuamente a terra, asportando anche eventuali particelle inquinanti e portandoli sul corpo; acqua, perché l’ape è un animale che fa un elevato uso di acqua e la vegetazione quindi praticamente è in grado di monitorare tutto il territorio con milioni di micro prelievi giornalieri per ogni alveare. Cosa rende le api bioaccumulatori e biocollettori? Un ulteriore vantaggio delle api è che sono contemporaneamente bioindicatori, bioindicatori veri, bioaccumulatori e biocollettori: ovvero le quattro categorie di bioindicatori universalmente riconosciute. Nello specifico bioaccumulatore è un organismo che accumula gli inquinanti nei tessuti corporei, per cui analizzando gli inquinanti presenti all'interno del corpo delle api la utilizziamo proprio come bioaccumulatore. Biocollettore invece significa che l'organismo accumula gli inquinanti nei propri prodotti di secrezione o di escrezione. Nel caso delle api è possibile ritrovare questi agenti inquinanti nella cera e nella pappa reale (che sono entrambi prodotti di secrezione), nel miele che è un prodotto misto, poiché proviene dall'elaborazione del nettare, che le api prendono dalle piante, attraverso la secrezione della loro saliva (si potrebbe paragonare, in ambito umano, al latte materno che può essere usato come biocollettore). Quali inquinanti sono stati cercati? Ci sono delle aree con una maggiore concentrazione? Gli inquinanti ricercati in questo progetto sono stati i due che normalmente si attenzionano in prima battuta in una campagna di biomonitoraggio, vale a dire i metalli pesanti (attualmente meglio definiti come elementi in traccia potenzialmente tossici) e gli agrofarmaci. La scelta degli inquinanti è legata alle particolari caratteristiche del territorio oggetto di esame. Queste due categorie di inquinanti sono state ricercate sia con un monitoraggio della mortalità delle api, per quanto riguarda prodotti fitosanitari, ed eventuale analisi chimica successiva e l'uso di matrici apistiche (ad esempio miele, cera oppure il corpo delle api stesse) per la ricerca dei metalli pesanti. Da un punto di vista della mortalità acuta fortunatamente non è stata rilevata mortalità da prodotti fitosanitari; d’altra parte, in tutte le matrici analizzate sono state elevate, anche se al di sotto dei limiti di legge, tutti i metalli pesanti ricercati. Sono stati rilevati inquinanti nel miele? Se sì, bisogna preoccuparsi? Nelle aree monitorate, in traccia, sono stati rilevati effettivamente tutti gli inquinanti ricercati. Questo non deve assolutamente destare preoccupazioni, perché il tipo di inquinanti ricercati, nella fattispecie alcuni metalli pesanti, sono ubiquitari. Quello che fa la differenza è la concentrazione all'interno della matrice analizzata, ovvero il miele, difatti nelle diverse stazioni sono state riscontrate concentrazioni diverse e sempre al di sotto dei limiti ammessi dalla legge, ma variabili in funzione soprattutto dell'antropizzazione del sito. In conclusione, nelle zone con una maggiore attività umana e con insediamenti produttivi le concentrazioni sono leggermente più alte anche se nei limiti ammessi. L'articolo Le api sentinelle del Molise sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

La plasticosi sta colpendo gli uccelli marini

Plasticosi
La plastica è onnipresente ed è diventata così comune da avere un impatto sulla salute di animali e persone. A dimostralo drammaticamente è lo studio “‘Plasticosis’: Characterising macro- and microplastic-associated fibrosis in seabird tissues”, pubblicato recentemente sul Journal of Hazardous Materials da un team di ricercatori australiani e britannici che dimostra che «Gli uccelli marini soffrono di una malattia indotta dalla plastica chiamata "plasticosi"». Gli scienziati spiegano che «Una nuova malattia è stata descritta negli uccelli marini, ma potrebbe essere solo la punta dell'iceberg. Piuttosto che essere causata da virus o batteri, la "plasticosi" è causata da piccoli pezzi di plastica che infiammano il tratto digestivo. Nel tempo, l'infiammazione persistente provoca cicatrici e deformazioni dei tessuti, con effetti a catena sulla crescita, la digestione e la sopravvivenza». Uno degli autori dello studio, Alexander Bond, del Bird Group del Natural History Museum britannico, sottolinea che «Mentre questi uccelli possono sembrare sani all'esterno, non stanno bene all'interno. Con questo studio, è la prima volta che il tessuto dello stomaco è stato studiato in questo modo e dimostra che il consumo di plastica può causare gravi danni al sistema digestivo di questi uccelli». Anche se finora la plasticosi è nota solo per una specie, la berta piedicarnicini (Ardenna carneipe) i ricercatori fanno notare che «La portata dell'inquinamento da plastica significa che potrebbe essere molto più diffusa. Potrebbe anche avere ripercussioni sulla salute umana». La plasticosi è una malattia fibrotica causata da una quantità eccessiva di cicatrici quando un'area del corpo viene ripetutamente infiammata e impedisce alla ferita di guarire normalmente. Generalmente, il tessuto cicatriziale temporaneo si forma dopo un infortunio e aiuta a rafforzare la riparazione. Ma quando l'infiammazione si ripete ripetutamente, si può formare una quantità eccessiva di tessuto cicatriziale che riduce la flessibilità dei tessuti e provoca il cambiamento della loro struttura. Nel caso della plasticosi, l'irritazione è causata da frammenti di plastica che scavano nel tessuto dello stomaco. Gli scienziati l'hanno scoperto durante le loro attività di ricerca su Lord Howe Island, dove studiano gli uccelli marini da 10 anni. Nonostante l'isola si trovi a 600 chilometri al largo della costa australiana, nel precedente studio “Seabird breeding islands as sinks for marine plastic debris”, pubblicato su Environmental Pollution nel maggio 2021,  il team di ricercatori  aveva precedentemente scoperto che le berta piedicarnicini che nidificano solo a Lord Howe, «Sono gli uccelli più contaminati dalla plastica al mondo, poiché consumano pezzi di plastica in mare dopo averli scambiati per cibo». Durante lo studio delle berte, i ricercatori hanno scoperto che «La cicatrizzazione del proventricolo, che è la prima camera dello stomaco dell'uccello, è diffusa e causa ferite simili negli uccelli». Una coerenza che ha portato il team a descrivere la plasticosi come una malattia specifica. Sebbene questo termine fosse stato usato per un breve periodo per descrivere la rottura della plastica nelle protesi articolari, il suo utilizzo non è mai diventato comune, quindi il  team ha ritirato fuori il nome per la sua somiglianza con altre malattie fibrotiche causate da materiali inorganici, come la silicosi e l'asbestosi. I ricercatori evidenziano che «Finora, è noto che la plasticosi colpisce solo il sistema digestivo, ma ci sono suggerimenti che potrebbe potenzialmente colpire altre parti del corpo, come i polmoni». Le cicatrici causate dalla plasticosi influenzano la struttura fisica del proventricolo. Con l'aumentare dell'esposizione alla plastica, il tessuto diventa gradualmente più gonfio fino a quando non inizia a rompersi. Bond aggiunge: «Le ghiandole tubulari, che secernono composti digestivi, sono forse il miglior esempio dell'impatto della plasticosi. Quando la plastica viene consumata, queste ghiandole diventano gradualmente più rachitiche fino a perdere completamente la loro struttura tissutale ai massimi livelli di esposizione. La perdita di queste ghiandole può rendere gli uccelli più vulnerabili alle infezioni e ai parassiti e influire sulla loro capacità di assorbire alcune vitamine. Le cicatrici possono anche indurire lo stomaco e renderlo meno flessibile, il che lo rende meno efficace nella digestione del cibo». Nei giovani uccelli e nei pulcini, questo può essere particolarmente dannoso poiché i loro stomaci non sono in grado di contenere tanto cibo. Alcuni studi hanno rilevato che ben il 90% dei giovani uccelli contiene almeno un po' di plastica che era presente nel cibo fornito loro dai genitori. Portato all’estreme conseguenze, questo può far morire di fame i pulcini perché i loro stomaci si riempiono di plastica che non possono digerire. E’ probabile che la plasticosi sia anche uno dei fattori che influenza il modo in cui la plastica influisce sulla crescita delle giovani berte. Lo studio ha scoperto che «La lunghezza dell'ala è legata alla quantità di plastica nel loro corpo, mentre il numero di pezzi di plastica è associato al peso complessivo dell'uccell»o. Mentre gli uccelli consumano naturalmente altri oggetti inorganici, come le pietre pomice, il team ha scoperto che «Questo non provoca cicatrici. Invece, le pietre possono aiutare a scomporre la plastica in frammenti più piccoli che causano ulteriori danni». Bond conclude: «Il nostro team di ricerca ha già esaminato in che modo le microplastiche influiscono sui tessuti. Abbiamo trovato queste particelle in organi come la milza e il rene, dove erano associate a infiammazione, fibrosi e a una completa perdita di struttura. Al momento, la plasticosi è nota solo nelle berte piedicarnicini ma, data la quantità di inquinamento da plastica è ragionevole supporre che anche altre specie siano colpite da questa malattia. È uno dei tanti modi in cui la plastica sta influenzando la salute degli animali in tutto il pianeta, compresi i cambiamenti nella chimica del sangue e le alterazioni dell'equilibrio degli ormoni». 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Il valore economico della caccia italiana

Valore della caccia
Secondo lo studio “Il Valore dell’Attività Venatoria in Italia”, curato da Nomisma e presentato ieri dalla Federazione Italiana della Caccia in Senato,  il b calore ambientale della caccia in Italia è di un miliardo: «708 milioni di euro di valore naturale generati dal mantenimento delle aree umide, degli habitat e dalla tutela delle aree naturali protette resi possibili grazie a finanziamenti e gestione del mondo venatorio. 20 milioni di euro di valore agricolo derivanti dai risarcimenti agli agricoltori per danni da selvatici e/o per misure di prevenzione. 75 milioni di euro di risparmi derivanti dalla riduzione dell’impronta ecologica e idrica prodotte dalla filiera della carne».  E’ evidente il tentativo di far passare i danni all’agricoltura per risorse. La “pronta caccia” per gestione ambientale e il goffo tentativo di contrapporre la carne sostenibile di selvaggina a quella insostenibile degli animali di allevamento. Il tutto assicurando che «Il mondo venatorio, da tempo impegnato in un percorso di rafforzamento del proprio ruolo in chiave più etica e sostenibile, è in grado di generare un valore di circa 8,5 miliardi di euro annui per la collettività in termini economici e ambientali». Ma leggendo attentamente lo studio/rapporto/sondaggio (e distinguendo le pere dalle mele mischiate ad arte) viene fuori che il valore economico- sociale della caccia è in realtà molto ridotto e che i cacciatori spendono la grandissima parte di quelli che si vorrebbero far passare per generosi investimenti economico-ambientali  solo per armi, munizioni, abbigliamento, auto, cani, vacanze di caccia, ecc. e che, per difendere la carne di selvaggina, si mostra in realtà la crescita di contrarietà agli allenamenti intensivi soprattutto da parte della stessa fetta di opinione pubblica che è contraria alla caccia. Questo dei cacciatori di selvaggina fatta passare per carne “sana” e poco conosciuta come valida alternativa alla carne “industrializzata” è un cambiamento di immagine che i cacciatori danno di sé stessi: si passa dal cacciatore sportivo e disinteressato a rifornire sottobanco i ristoranti (attività spesso attribuita solo ai bracconieri, anche se la realtà è ben diversa) al cacciatore del nuovo corso politico italico che si fa fornitore del mercato della carne per risolvere il problema degli ungulati, un problema che ha creato una politica venatoria scellerata di immissioni e allevamenti che non viene messa in dubbio né dallo studio né dalle nuove politiche del governo Meloni-Lollobrigida-Pichetto Fratin. Il problema è che rifornire una filiera di mercato economicamente sostenibile bisogna mantenere il problema – cinghiali ad esempio – che si dice che sarà risolto con la caccia. Un cane che si morde la coda della sostenibilità sociale e ambientale. Ma si parte da una mutazione dei consumi verso un minor consumo di carne – evidente anche nello studio -  per   rilevare che «Tra i 45 milioni di maggiorenni che si nutrono di carne il 62% consuma anche selvaggina. Nella maggioranza dei casi si tratta di un consumo che avviene prevalentemente fuori casa (nel 39% dei casi al ristorante). Queste interessanti prospettive per la filiera alimentare della selvaggina sono rafforzate dal fatto che ben 23 milioni di consumatori italiani (il 51%) si dichiara pronto ad acquistarla per consumo domestico se fosse di più facile reperimento. Gli intervistati, inoltre, risultano particolarmente attenti e sensibili nell’attuare comportamenti sostenibili nelle proprie scelte alimentari. Rispetto alla carne acquistata, il 72% ritiene molto importante il fatto che presenti meno rischi per la salute e il 70% che provenga da una filiera tracciabile (sic!). Inoltre, il rispetto del benessere degli animali e dell’ambiente è ritenuto condizione imprescindibile dal 64% del campione, così come il 61% degli intervistati è attento al fatto che la carne non provenga da allevamenti intensivi. Il 47% considera importante che la carne acquistata sia naturale e provenga da animali selvatici e non di allevamento». Lo studio, che divide generosamente a metà gli italiani tra contrari e favorevoli alla caccia (altri sondaggi e studi danno una schiacciante percentuale di contrari), si lamenta però che sulla caccia «Di base è presente una forte disinformazione tanto che ben 2 italiani su 3 si dichiarano non sufficientemente informati sulla tematica e solo 1 intervistato su 10 afferma di conoscere appieno norme e disposizioni che ne regolano l’operato. Rispetto ai soggetti dai quali gli italiani vorrebbero ricevere informazioni, il 60% degli intervistati individua gli enti pubblici come realtà autorevole e adeguata a fornire tali informazioni». Peccato che gli enti pubblici facciano spesso disinformazione, come dimostrano le dichiarazione carpite al presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana durante un incontro coi cacciatori in campagna elettorale. Ma, per quanto edulcorato, anche lo studio/ricerca/sondaggio dice che gli italiani sono contrari alla caccia e che non ci vedono tutte queste ricadute economiche e sociali che vengono evidenziate da Federcaccia. Ma Marco Marcatili, responsabile sviluppo di Nomisma, la vede in tutt’altro modo è perllui il bicchiere venatori è più chre mezzo pieno: «Per la prima volta il sistema della caccia  decide di aprirsi alla società, ascoltare la comunità e avviare un dialogo aperto e trasparente con il mondo istituzionale, agricolo e ambientale. Il lavoro di Nomisma – spiega Marcatili – è, da un lato, rassicurante perché conferma la non ostilità alla caccia, anzi una inedita apertura della comunità a inserire più selvaggina sostenibile nella propria alimentazione; dall’altro lato, però, induce la Federazione Italiana della Caccia a una responsabilità aumentata in termini di maggiore informazione e disponibilità alla caccia etica e sostenibile. Non sono molte in Italia le attività che danno un contributo annuale di 1 miliardo in termini ambientali, l’impegno in questa direzione consentirà di traguardare opportunità derivanti dai nuovi scenari climatici, come il presidio dei territori fragili e il rafforzamento delle filiere nazionali sotto il profilo alimentare e occupazionale». Ma Nomisma ammette che dalla lettura dei risultati e delle interviste emergono anche aree di miglioramento meritevoli di attenzione. Come sia nato il sondaggio lo spiega bene il presidente nazionale di Federcaccia Massimo Buconi: «Abbiamo deciso di affidare a Nomisma un primo bilancio ambientale dell’attività venatoria in Italia al fine di misurare il reale valore generato per Comunità e Ambiente e indagare il percepito delle famiglie italiane sul nostro operato. Siamo certi che favorire una migliore comprensione delle dinamiche che regolano i rapporti tra caccia e società possa concorrere a un giusto riconoscimento del nostro ruolo e della nostra attività, alla luce degli effetti positivi derivanti da una caccia etica e sostenibile. I risultati mostrano un sistema importante già in essere testimoniando il nostro potenziale ruolo di attori nel processo di transizione ecologica, ma evidenziano alcune aree di miglioramento, su cui strutturare un percorso di confronto con fruitori, stakeholders e Istituzioni. Intendiamo proseguire in questa direzione di dialogo, in modo costante e incisivo». E, dopo le reiterate richieste di allungare i calendari venatori, sparare a specie protette, rigettare le normative europee, consentire la caccia nei Parchi Nazionale e nelle ZSC/ZPS, dopo che l’Italia risulta tra i peggiori pasesi del mondo per bracconaggio/abbattimento dell’avifauna migratoria.., è abbastanza spericolato che lo studio – sulla base di una senzazione di cittadini dei quali si ammette la scarsa conoscenza della materia -  nomini i cacciatori «“Sentinella del territorio” (o più tecnicamente “citizen as sensor”), in quanto soggetti volontari coinvolti nei programmi di monitoraggio delle risorse naturali per migliorarne la gestione e contribuire alla ricerca. Così come viene evidenziato il contributo che il mondo venatorio è in grado di rendere alla collettività attraverso programmi di gestione faunistica, tutela ambientale e sorveglianza sanitaria esercitata da cacciatori volontari». E qui il “successo” del ruolo svolto dalla caccia consumistica è evidente con la proliferazione dei cinghiali ibridati, la diffusione della peste suina, e l’immissione di specie alloctone e/o ibridate per la pronta caccia che hanno provocato l’estinzione locale di specie autoctone. E, viste  le proposte fatte fin qui dal mondo venatorio su calendari, aree protette, caccia ai grandi carnivori viene davvero da pensare che ci sia bisogno di ascoltare chi ritiene necessario di «Sostenere una “caccia etica”, che non solo rispetti i regolamenti ma, soprattutto, favorisca il contenimento e il controllo delle attività illegali, promuovendo e consolidando un ruolo attivo del cacciatore nella tutela di ambiente e habitat. Altro ambito di miglioramento è rappresentato dalla sensibilizzazione del sistema venatorio nel suo complesso sulle azioni di contenimento degli impatti ambientali e su un maggiore sviluppo di un modello di caccia che sia in equilibrio con la biodiversità. A livello organizzativo e gestionale, infine, il settore venatorio italiano può mirare a una dimensione adattiva che permetta di modulare prelievi di selvaggina sulla base di un principio di sostenibilità, potenziando il monitoraggio e la programmazione dei piani di caccia e di controllo. Ciò concorrerebbe a consolidare la compatibilità tra attività venatoria e conservazione della fauna e dell’ambiente». Ma la caccia etica – con buona pace dello studio Nimisma - Federcaccia - non è certamente quello di cui i cacciatori discutono con politici come Fontana. L'articolo Il valore economico della caccia italiana sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Le popolazioni di cigni che vivono nelle aree protette crescono 30 volte più velocemente

popolazioni di cigni che vivono nelle aree protette
I cigni selvatici (Cygnus cygnus) passano gli inverni nel Regno Unito e le estati in Islanda e, secondo lo studio “Demographic rates reveal the benefits of protected areas in a long-lived migratory bird”, pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences da un team di ricercatori britannici, islandesi e statunitensi «All'interno delle riserve naturali Le popolazioni di cigni selvatici crescono 30 volte più velocemente». Il nuovo studio ha esaminato 30 anni di dati sui cigni in 22 siti del Regno Unito, 3 dei quali sono riserve naturali gestite dal Wildfowl and Wetlands Trust (WWT) e ne è emerso che «I tassi di sopravvivenza erano significativamente più alti nelle riserve naturali e la crescita della popolazione era così forte che molti cigni si sono trasferiti in siti non protetti». Sulla base di questi risultati, il team di ricerca, guidato dalle università di Exeter e Helsinki, prevede che «Entro il 2030, le riserve naturali potrebbero contribuire a raddoppiare il numero di cigni selvatici che svernano nel Regno Unito». In realtà, i cigni che vivono nelle riserve naturali hanno una probabilità annuale di riproduzione inferiore, ma i ricercatori sottolineano che «Questi uccelli hanno più opportunità di riprodursi nel corso della vita e produrranno in media più prole». I risultati dello studio evidenziano «Il grande effetto che le riserve naturali possono avere sulla conservazione, anche quando le aree protette sono relativamente piccole e vengono utilizzate solo durante brevi periodi del ciclo di vita di una specie». Il principale autore dello studio, Andrea Soriano-Redondo, del Centre for ecology and conservation dell’università di Exeter e dell’Helsingin yliopisto , sottolinea che «Le aree protette sono lo strumento principale utilizzato per arginare il declino della biodiversità, e c'è un crescente consenso sul fatto che il 30% della superficie del pianeta dovrebbe essere protetto entro il 2030. Tuttavia, l'efficacia delle aree protette non è sempre chiara, soprattutto quando le specie si spostano per tutta la durata della loro vita tra aree protette e non protette. I nostri risultati forniscono una forte evidenza che le riserve naturali sono estremamente utili per i cigni selvatici e potrebbero far aumentare notevolmente il loro numero nel Regno Unito». Il dataset ultratrentennale utilizzato per realizzare lo studio, includeva osservazioni di oltre 10.000 cigni selvatici, il team di ricerca ha costruito un modello di popolazione che prevede che i numeri invernali potrebbero raddoppiare entro il 2030. Un altro autore dello studio, Richard Inger, un collega di Soriano-Redondo, aggiunge che «Il tasso di crescita annuale della popolazione all'interno delle riserve naturali è stato del 6%, rispetto allo 0,2% al di fuori delle riserve. Questo aumento della popolazione non è limitato alle riserve naturali: ha creato una maggiore densità di popolazione, che ha portato alcuni cigni a trasferirsi in aree non protette. I giovani cigni erano più propensi a farlo, il che significa che i benefici delle riserve naturali si estendono anche ad altre aree». L’autore senior dello studio, Stuart Bearhop dell'università di Exeter, conferma che «Nel complesso, il nostro studio dimostra gli enormi vantaggi della protezione localizzata per le specie animali altamente mobili. Dimostra anche che misure mirate durante i periodi chiave del ciclo di vita possono avere effetti sproporzionati sulla conservazione». Le riserve naturali del WWT comprese nello studio attuano una serie di misure per aiutare i cigni a svernare, tra le quali recinzioni anti-volpi, cibo supplementare, siti di riposo gestiti e divieti di caccia e David Pickett, center & reserve manager del WWT Caerlaverock Wetland Centre, conclude: «Questa ricerca mostra come i rifugi sicuri per la fauna selvatica delle zone umide, come quelli del WWT Caerlaverock, Welney e Martin Mere, possono aiutare una specie a sopravvivere e avere successo quando il loro siti tradizionali sono sotto minaccia. Molti uccelli selvatici fanno affidamento sui nostri siti per cibo e riparo e ci impegniamo a creare e ripristinare sempre più di questi habitat sani delle zone umide dei quali il Regno Unito ne ha persi così tanti nella nostra storia recente». L'articolo Le popolazioni di cigni che vivono nelle aree protette crescono 30 volte più velocemente sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.