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Prosegue la riforestazione marina in Sardegna

riforestazione marina in Sardegna
In occasione della Giornata Mondiale dell’Acqua, zeroCO2, B-Corp italo guatemalteca che sviluppa progetti di riforestazione ad alto impatto sociale, e Worldrise, Onlus, attiva per la conservazione e valorizzazione dell’ambiente marino, annunciano «La continuazione del progetto “Riforestazione Marina” a Golfo Aranci (SS), in Sardegna, per contrastare attivamente il cambiamento climatico e tutelare le foreste sommerse». Una decisione che nasce dal successo della riforestazione dei primi 100 m2 di prateria di Posidonia oceanica, ripristinati nel 2022 nella stessa area. Infatti, le due parti spiegano che «Il primo monitoraggio scientifico effettuato sul posidonieto riforestato ha registrato un tasso di sopravvivenza delle piante del 75%: per quest’anno l’obiettivo è continuare a salvaguardare uno degli habitat più importanti del Mar Mediterraneo, ripristinando altri 200 m2 di piante marine entro il mese di giugno 2023. Con il reimpianto di circa 5000 talee di P. oceanica sarà possibile continuare a contrastare l’acidificazione e il riscaldamento delle acque del Mar Mediterraneo, sempre più a rischio a causa del cambiamento climatico». Andrea Pesce, founder di zeroCO2, sottolinea che «Nel 2022 abbiamo raggiunto gli obiettivi prefissati insieme a Worldrise e a tutte le aziende che hanno deciso di supportarci in nome della salvaguardia del Mediterraneo, che ad oggi è uno degli ecosistemi più colpiti dalla crisi climatica. Nel 2023 vogliamo replicare i risultati raggiunti e dare un chiaro segnale alle istituzioni: la lotta al cambiamento climatico è possibile ma dobbiamo collaborare e agire adesso». Per zeroCO2 e Worldrise, «La salute del mare, infatti, è una parte fondamentale della lotta alla crisi climatica e ha un impatto diretto e quotidiano su ogni persona. L’oceano genera più del 50% dell’ossigeno che respiriamo e assorbe circa 1/3 dell’anidride carbonica in eccesso presente in atmosfera: le piante marine, come Posidonia oceanica, giocano un ruolo fondamentale in questo processo, essendo in grado di assorbire fino a 83.000 tonnellate di carbonio per km2, più del doppio di un bosco terrestre. Inoltre, i posidonieti sono uno scrigno di biodiversità e, quando sono in salute, possono ospitare fino a 350 specie diverse di animali marini per ogni ettaro. Purtroppo, negli ultimi 50 anni oltre il 29% delle praterie di Posidonia è regredito in maniera incontrollata. Per ogni m2 di prateria persa si rischia l’erosione di circa 15 metri di litorale sabbioso». La Presidente di Worldrise ed esperta di conservazione marina, Mariasole Bianco, conclude: «Il progetto Riforestazione Marina dimostra che collaborando è possibile non solo creare valore sul territorio e sensibilizzare, ma anche avere un impatto positivo per il ripristino degli ecosistemi. Continuare a portare avanti questo progetto significa poter fare davvero la differenza per il nostro mare. Il progetto di zeroCO2 e Worldrise ha rappresentato l’inizio di una rigenerazione del Mediterraneo per contrastare la scomparsa della Posidonia e ripristinare il polmone blu del nostro mare. Dopo un anno, l’impegno delle due realtà è più vivo che mai e aperto al contributo di tutti, a dimostrazione dell’importanza di continuare a tutelare l’oceano». L'articolo Prosegue la riforestazione marina in Sardegna sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

I fiumi nel cielo che plasmano il clima africano

fiumi nel cielo
L'Africa orientale è molto più secca di altre regioni terrestri tropicali, comprese le foreste pluviali dell'Amazzonia e del Congo. Si è sempre pensato che la geografia dell'Africa orientale rendesse la regione arida e suscettibile alla siccità, ma fino ad ora non si era capito quale fosse il meccanismo preciso che provoca questa situazione climatica. Secondo lo studio “Valley formation aridifies East Africa and elevates Congo Basin rainfall”, pubblicato su Nature da Callum Munday e Richard Washington del Climate Research Lab della School of geography and the environment dell’università di Oxford e da Nicholas Savage e Richard Jones del Met Office Hadley Centre, «Le valli profonde contengono "fiumi nel cielo" trasportati dall'aria e contribuiscono a creare condizioni aride nell'Africa orientale». Lo studio ha infatti scoperto come le valli fluviali orientate est-ovest dirigano milioni di tonnellate di vapore acqueo dall'Oceano Indiano lontano dall'Africa orientale e verso la foresta pluviale del Congo e, così facendo, limitino le precipitazioni dell'Africa orientale e dimostra che «Le valli fluviali da est a ovest sono un fattore cruciale nelle scarse precipitazioni annuali». La ricerca fa parte del REACH programme della Smith School of Enterprise and the Environment dell’università di Oxford ed è finanziata dal Foreign, Commonwealth and Development Office (FCDO) e supportata dalla Met Office Academic partnership. Il team di Oxford e del Met Office era già stato in Kenya per misurare i "fiumi invisibili" con palloni meteorologici. I ricercatori britannici volevano vedere come le valli influenzano il clima in tutta l'Africa. Per farlo  hanno ideato una serie di esperimenti modello che hanno cambiato la geografia del sistema dei rift riempiendo progressivamente i canali fluviali. Munday  spiega: «Normalmente, quando pensiamo alle valli e all'acqua, pensiamo ai fiumi che scorrono lungo il territorio. Nell'Africa orientale, valli profonde, come la Turkana Valley, incanalano forti venti e creano fiumi invisibili nel cielo. Questi fiumi invisibili trasportano milioni di tonnellate di vapore acqueo, l'ingrediente chiave per la pioggia». Washington sottolinea che «Gli esperimenti mostrano che le valli influenzano il clima su scala continentale. Non può piovere allo stesso modo ovunque, e le valli aiutano a sostenere precipitazioni abbondanti nel bacino del Congo, lasciando l'Africa orientale soggetta alla siccità». I ricercatori sono convinti che «Comprendere i “compromessi” climatici nelle precipitazioni tra le diverse regioni su scala continentale può aiutarci a migliorare la  capacità di prevedere i futuri modelli di precipitazioni in tutta l'Africa. Questo, date le implicazioni politiche del cambiamento climatico in tutta l'Africa. è particolarmente importante. Il bacino del Congo è anche un hotspot chiave per la biodiversità e un deposito di carbonio». Ma i risultati dei “fiumi nel cielo” nel Corno d’Africa vengono aggravati dal cambiamento climaticop: a est delle valli è in corso la più lunga e grave siccità mai registrata in un’are già semiarida e arida.  Washington  evidenzia che «Sebbene le valli non influenzino la variabilità annuale delle precipitazioni, creando un ambiente in cui le precipitazioni sono così insolitamente bassein partenza, le valli rendono l'Africa orientale molto più soggetta alla siccità». Su scale temporali più lunghe, gli esperimenti degli scienziati di Oxford e del Met Office possono aiutare a spiegare anche le pressioni ambientali che i nostri primi antenati ominidi hanno dovuto affrontare milioni di anni fa. o Munday conclude, «L'inaridimento e l'espansione degli ecosistemi di tipo savana nel corso di milioni di anni è considerato un fattore cruciale nell'evoluzione delle prime specie di ominidi, portando ad adattamenti come il bipedismo (camminare su due piedi). Gli esperimenti sui modelli dimostrano che la formazione di valli e il prosciugamento associato è un meccanismo plausibile che potrebbe aver portato a questa espansione della savana». L'articolo I fiumi nel cielo che plasmano il clima africano sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

I primi cavalieri del mondo: gli esseri umani andavano a cavallo già 5.000 anni fa

primi cavalieri 1
Studiando i resti di scheletri umani trovati nei kurgan, tumuli funerari risalenti a 4500  - 5000 anni fa e appartenenti alla cultura Yamnaya, un team di  ricercatori ha scoperto le prime prove dell'equitazione. Gli Yamnayan erano una popolazione e una cultura che si sono evolute nelle steppe del Ponto-Caspio alla fine del IV millennio a.C., poi erano emigrati dalle steppe del Ponto-Caspio per trovare pascoli più verdi nelle odierne Romania e della Bulgaria e spingendosi fino all'Ungheria e alla Serbia.  I ricercatori dicono che «Adottando l'innovazione chiave della ruota e del carro, sono stati in grado di migliorare notevolmente la loro mobilità e sfruttare un'enorme risorsa energetica altrimenti irraggiungibile, il mare di erba della steppa lontano dai fiumi, consentendo loro di mantenere grandi mandrie di bovini e ovini. Impegnandosi così in un nuovo stile di vita, questi pastori, se non furono i primi veri nomadi nel mondo, si espansero notevolmente nei due secoli successivi fino a coprire più di 5000 chilometri tra l'Ungheria a ovest e, nella forma della cosiddetta cultura Afanasievo, Mongolia e Cina occidentale a est. Dopo aver seppellito i loro morti in fosse comuni sotto grandi tumuli, chiamati kurgan, si dice che gli Yamnayan siano stati i primi ad aver diffuso le lingue proto-indoeuropee». Ma oro lo studio “First bioanthropological evidence for Yamnaya horsemanship”, pubblicato su Science da  un team internazionale di ricercatori rivela che questi antichi pastori nomadi non allevavano solo  bovini e pecore ma anche cavalli. Uno degli autori dello studio, Volker Heyd, professore di archeologia all'università di Helsinki, ricorda che «L'equitazione sembra essersi evoluta non molto tempo dopo il presunto addomesticamento dei cavalli nelle steppe eurasiatiche occidentali durante il IV millennio a.C. Era già piuttosto comune nei membri della cultura Yamnaya tra il 3000 e il 2500 a.C.» Le regioni a ovest del Mar Nero costituiscono una zona di contatto nella quale gruppi nomadi di pastori della cultura Yamnaya incontrarono per la prima volta le comunità di agricoltori del tardo neolitico e del calcolitico. Per decenni, l'espansione delle popolazioni della steppa nell'Europa sud-orientale della prima età del bronzo è stata spiegata come un'invasione violenta. Con l'avvento della ricerca sul DNA antico, le differenze tra questi migranti dall'est e i membri delle società locali sono diventate ancora più pronunciate. Un’altra autrice del nuovo studio, Bianca Preda-Bălănică dell'università di Helsinki, sottolinea che «La nostra ricerca sta ora iniziando a fornire un quadro più sfumato delle loro interazioni. Ad esempio, finora i reperti di violenza fisica previsti sono praticamente inesistenti nella documentazione scheletrica. Iniziamo anche a comprendere i complessi processi di scambio nella cultura materiale e nelle usanze funerarie tra i nuovi arrivati ​​e la gente del posto nei 200 anni successivi al loro primo contatto». L'utilizzo degli animali per il trasporto, in particolare del cavallo, ha segnato una svolta nella storia dell'uomo. Il notevole guadagno in termini di mobilità e distanza percorsa  ha avuto effetti profondi sull'utilizzo del suolo, sul commercio e sulla guerra. La ricerca attuale si è concentrata principalmente sui cavalli, ma l'equitazione è un'interazione di due componenti - la cavalcatura e il suo cavaliere - e i resti umani sono disponibili in numero maggiore e in condizioni più complete rispetto ai primi resti di cavalli. Dato che l'equitazione è possibile senza attrezzature specializzate, l'assenza di reperti archeologici relativi all'equitazione più antica non è così strana. Come spiega il principale autore dello studio, Martin Trautmann, bioantropologo dell’università di Helsinki, «Abbiamo analizzato oltre 217 scheletri provenienti da 39 siti, di cui circa 150 trovati nei tumuli funerari appartengono agli Yamnayan. La diagnosi dei modelli di attività negli scheletri umani non è univoca. Non ci sono tratti singolari che indicano una certa occupazione o comportamento. Solo nella loro combinazione, come una sindrome, i sintomi forniscono spunti affidabili per comprendere le attività abituali del passato». Il team internazionale ha deciso di utilizzare 6 criteri diagnostici stabiliti come indicatori dell'attività equestre (la cosiddetta "sindrome dell'equitazione"):  1. Siti di attacco muscolare sul bacino e sul femore; 2. Cambiamenti nella forma normalmente rotonda delle orbite dell'anca; 3. Segni di impronta causati dalla pressione della rima acetabolare sul collo del femore; 4. Il diametro e la forma della diafisi femorale; 5. Degenerazione vertebrale causata da ripetuti impatti verticali; 6. Traumi che tipicamente possono essere causati da cadute, calci o morsi da cavallo. Inoltre, per aumentare l'affidabilità diagnostica, il team ha utilizzato anche un metodo di filtraggio più rigoroso e ha sviluppato un sistema di punteggio che tiene conto del valore diagnostico, della particolarità e dell'affidabilità di ciascun sintomo. Ne è venuto fuori che «Complessivamente, dei 156 individui adulti del campione totale, almeno 24 (15,4%) possono essere classificati come "possibili cavalieri", mentre 5 Yamnaya e 2 successivi, nonché due possibilmente precedenti, si qualificano come "probabili cavalieri"». Trautmann è convinto che «La prevalenza piuttosto elevata di questi tratti nella documentazione scheletrica, soprattutto rispetto alla completezza complessiva limitata, mostra che queste persone andavano a cavallo regolarmente». Per capire se l'equitazione venisse esercitata per comodità in uno stile di vita pastorale mobile, per consentire un allevamento più efficace del bestiame, come mezzo per fare incursioni rapide e di vasta portata o semplicemente come status symbol, sono necessarie ulteriori ricerche. L’autore senior dello studio, lo statunitense David Anthony, professore emerito dell'Hartwick College, conclude: «Nella serie, abbiamo una sepoltura intrigante. Una tomba datata intorno al 4300 a.C. a Csongrad-Kettöshalom in Ungheria, a lungo sospettata dalla sua posa e dai manufatti di essere di un immigrato dalle steppe, ha sorprendentemente mostrato 4 delle 6 patologie dell’equitazione, indicando forse che cavalcava un millennio prima degli Yamnaya. Un caso isolato non può supportare una conclusione definitiva, ma nei cimiteri neolitici di quest'epoca nelle steppe, i resti di cavalli venivano occasionalmente collocati in tombe umane insieme a quelli di bovini e ovini, e mazze di pietra venivano scolpite a forma di teste di cavallo. Chiaramente, dobbiamo applicare questo metodo anche alle collezioni più vecchie». L'articolo I primi cavalieri del mondo: gli esseri umani andavano a cavallo già 5.000 anni fa sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Gli odontoceti cacciano in profondità usando il registro vocale fry

Gli odontoceti
Gli odontoceti - delfini, orche, focene e capodogli - sono abili predatori dal cervello grande, estremamente socievoli, cooperano e possono cacciare prede fino a 2 km di profondità (gli zifi anche oltre). Tutti questi straordinari comportamenti sono resi possibili  dal suono che viaggia lontano e velocemente in acque torbide e oscure e che permette agli odontoceti di comunicare tra loro e cacciare. Ma finora era rimasto un mistero come questi incredibili animali producano il loro ricco repertorio vocale nelle profondità marine. Il nuovo studio “Toothed whales use distinct vocal registers for echolocation and communication”, pubblicato su Science dai biologi danesi Peter Madsen ( Aarhus Universitet), , Coen Elemans (Syddansk Universitet) e dalla tedesca Ursula Siebert (Tierärztliche Hochschule Hannover), ha scoperto per la prima volta che nel loro naso hanno evoluto una nuova sorgente sonora azionata dall’aria, che è funzionalmente uguale alla laringe umana, che opera su diversi registri vocali come la voce umana. Elemans, Madsen e la Siebert  dimostrano che «Gli odontoceti, come gli esseri umani, hanno almeno tre registri vocali; il registro vocale fry (noto anche come voce scricchiolante, che produce i toni più bassi), il registro di petto (che è la nostra normale voce parlante) e il registro in falsetto (che produce frequenze ancora più alte)». Elemans spiega che «Il vocal fry è un normale registro vocale che viene spesso utilizzato nell'inglese-americano. Kim Kardashian, Kate Perry e Scarlet Johannsen sono personaggi famosi che usano questo registro». Secondo la nuova ricerca, gli odontoceti usano questo registro vocale per produrre i loro richiami di ecolocalizzazione per catturare la prede. Elemans spiega ancora: «Durante il vocal fry, le corde vocali restano aperte solo per un tempo molto breve, e quindi ci vuole pochissima aria respirabile per usare questo registro». E Madsen  fa notare che «Questo risparmio  di aria lo rende particolarmente ideale per l'ecolocalizzazione. Durante le immersioni profonde, tutta l'aria viene compressa a una minuscola frazione del volume che ha in superficie» Alcune specie di odontoceti si immegono a grandi profondità e catturano più pesci dell'industria della pesca umana. Quando cacciano nelle acque profonde e torbide, producono brevi, potenti clic di ecolocalizzazione ultrasonica a una velocità fino a 700 al secondo per localizzare, tracciare e catturare la preda. Madsen sottolinea che «Così i vocal fry consentono ai cetacei di accedere alle nicchie di cibo più ricche sulla terra: quelle dell'oceano profondo». Elemans aggiunge che «Mentre i vocal fry possono essere controversi tra gli esseri umani e possono essere percepiti come qualsiasi cosa, da fastidiosi a autorevoli, senza dubbio hanno reso gli odontoceti una storia di successo evolutivo». Prima si pensava che gli odontoceti emettessero suoni con la laringe proprio come gli altri mammiferi, ma 40 anni fa è diventato chiaro che non è così; in qualche modo usano il naso per produrre suoni. Nel nuovo studio, utilizzando video ad alta velocità e attraverso endoscopi, il team di ricerca danese-tedesco ha scoperto cosa succede esattamente: «Gli odontoceti hanno evoluto un sistema di produzione del suono azionato dall'aria nel loro naso, che funziona fisicamente in modo analogo alla produzione del suono della laringe e della siringe nei mammiferi e negli uccelli, ma la sua posizione è tutt'altro che la stessa». Madsen spiega ancora: «L'evoluzione l'ha spostata dalla trachea al naso, il che ha consentito di fare pressioni molto più elevate - fino a 5 volte quelle che può produrre un trombettista - senza danneggiare i tessuti polmonari». Elemans conferma che «Questa elevato driver di pressione consente ai cetacei di emettere i suoni più forti di qualsiasi animale del pianeta", aggiunge». A profondità superiori a 100 metri, i polmoni dei cetacei collassano per evitare i problemi da compressione/decompressione e quindi non sono utili per l'approvvigionamento d'aria, e l'aria rimanente si trova nei passaggi nasali del cranio. Questo fornisce uno spazio aereo piccolo ma sufficiente per produrre un suono di ecolocalizzazione alla sorprendente profondità di 2000 metri e oltre. Durante l'ecolocalizzazione, gli odontoceti pressurizzano l'aria nel loro naso osseo e la lasciano passare in strutture chiamate labbra foniche che vibrano proprio come le corde vocali umane. La loro accelerazione produce onde sonore che viaggiano attraverso il cranio fino alla parte anteriore della testa. Oltre all'ecolocalizzazione, gli odontoceti emettono una vasta gamma di suoni utili per la loro complessa comunicazione sociale. Madsen ricorda che «Alcune specie, come le orche e i globicefali, emettono richiami molto complessi che vengono appresi e trasmessi culturalmente come i dialetti umani». Nel loro studio. i ricercatori dimostrano che questi suoni sono prodotti dalle labbra foniche che vibrano nel petto e nei registri del falsetto. Hanno filmato le labbra foniche utilizzando diversi approcci, si sono avvalsi sia delfini addestrati che di animali  selvatici che si muovevano liberamente con addosso un piccolo tag che registrava i loro suoni. Elemans conclude soddisfatto: «Ci sono voluti quasi 10 anni per sviluppare nuove tecniche, raccogliere e analizzare tutti i nostri dati». L'articolo Gli odontoceti cacciano in profondità usando il registro vocale fry sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Da aprile il paradiso sommerso di Pianosa riapre alle immersioni

Collage foto Penco immersioni Pianosa
Riapre il campo boe per organizzare immersioni nell'Isola di Pianosa. Da aprile sarà nuovamente possibile immergersi nelle acque cristalline e ricche di biodiversità di Pianosa. L'area tutelata è stata aperta in via sperimentale alle immersioni nel luglio 2013, dopo oltre 150 anni di chiusura integrale - prima per il regime carcerario e poi a seguito dell'istituzione del Parco Nazionale - con un campo boe per consentire le immersioni subacquee entro il miglio di tutela integrale. La fruizione è fortemente contingentata: 6 boe per l’ormeggio dei Centri Diving accreditati, percorsi definiti e prestabiliti, immersione concessa ai sub esperti e accompagnamento di una Guida Parco o ambientale subacquea ogni sei subacquei. Le immersioni sono consentite da aprile a novembre per cinque giorni a settimana. Il tutto monitorato periodicamente da esperti biologi. Un' opportunità per tutti gli appassionati del settore che scoprono un mare ancora integro con una fauna marina oramai non più riscontrabile in zone aperte alla pesca ed alle attività antropiche intensive. L'apertura controllata in un'ottica di sviluppo sostenibile che mette d'accordo la tutela dell’ambiente e la promozione turistico naturalistica, è risultata di successo come confermato dai commenti entusiastici e dai racconti di chi si è calato nel magico blu dell’isola, un tempo proibito. Basta andare sui social media o sui siti dei centri Diving per capire come il mare di Pianosa stia regalando grandi emozioni.  I diving raccontano, fotografano e filmano lo stupore dei subacquei al ritorno da una immersione nel mare dell’isola del diavolo. Un mare ricco come ai tempi di Jacques Cousteau. Già all’avvicinarsi alla boa colpisce la vista dal mare della suggestiva piccola isola piatta che cattura il fascino dei visitatori per la sua particolarità. I sub si immergono accolti nel silenzio totale per l’assenza di passaggio delle imbarcazioni in transito, stupiti per la ricchezza di pesce, per le praterie di posidonia e per le aree di secca ben coperte di coralligeno e alghe. Il fondale presenta archi naturali rocciosi in cui è possibile transitare senza pericolo e incrociare pesci tranquilli che si avvicinano senza paura. La presenza di pesce è impressionante: concentrazioni notevolissime di cernia bruna anche di grandi dimensioni, sarago maggiore, sarago fasciato, sarago pizzuto, corvine, queste ultime oramai introvabili nelle acque elbane a causa della pesca in apnea. Oltre alle cernie, sono incredibili i branchi di giovani tonni in caccia, le eleganti aquile di mare, i banchi di grandi barracuda che riflettono d’argento e fanno pensare ai mari tropicali. Dal 2013 ad oggi sono state condotte migliaia di immersioni e i diving che vi accedono di solito sono una quindicina ogni anno. Per fare immersioni a Pianosa bisogna rivolgersi a un Diving Center autorizzato. Tutte le info sulla pagina del sito istituzionale del PNAT  https://www.islepark.it/visitare-il-parco/pianosa/itinerari/immersioni a cura del Parco nazionale Arcipelago toscano L'articolo Da aprile il paradiso sommerso di Pianosa riapre alle immersioni sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Nel 2021 gli incendi boschivi hanno emesso una quantità record di CO2

incendi boschivi hanno emesso una quantita record di CO2
Secondo lo studio “Record-high CO2 emissions from boreal fires in 2021”, pubbliv cato recentemente su Science  da un team internazionale di ricercatori, «Le emissioni di anidride carbonica dovute agli incendi, che dal 2000 sono aumentate gradualmente, nel 2021 sono aumentate drasticamente fino a raggiungere un livello record». Infatti, nel 2021 dalle foreste boreali in fiamme nel Nord America e in Eurasia è stata rilasciata quasi mezza gigatonnellata di carbonio (o 1,76 miliardi di tonnellate di CO2), il 150% in più rispetto alle emissioni medie annuali di CO2 tra il 2000 e il 2020. Il coautore senior dello studio, Steven Davis dell’università della California – Irvine (UCI) evidenzia che «Secondo le nostre misurazioni, gli incendi boreali nel 2021 hanno infranto i record precedenti. Questi incendi sono il frutto di due decenni di rapido riscaldamento e di estrema siccità nel Canada settentrionale e in Siberia e, sfortunatamente, anche questo nuovo record potrebbe non durare a lungo». I ricercatori sono convinti che «Il peggioramento degli incendi fa parte di un feedback clima-fuoco in cui le emissioni di anidride carbonica riscaldano il pianeta, creando condizioni che portano a più incendi e più emissioni». Un altro autore dello studio, Yang Chen del Department of Earth System Science dell’UCI, aggiunge: «Si prevede che l'escalation degli incendi nella regione boreale acceleri il rilascio del grande deposito di carbonio nello strato di suolo del permafrost, oltre a contribuire all'espansione verso nord degli arbusti. Questi fattori potrebbero potenzialmente portare a un ulteriore riscaldamento e creare un clima più favorevole per il verificarsi di incendi». Davis fa notare che «Nel 2021, gli incendi boreali hanno rilasciato quasi il doppio di CO2 rispetto o all'aviazione globale, Se questo livello di emissioni da territori non gestiti  diventasse la nuova normalità, stabilizzare il clima terrestre sarà ancora più difficile di quanto pensassimo». Analizzare la quantità di anidride carbonica rilasciata durante gli incendi è difficile una serie di motivi: il terreno accidentato e avvolto dal fumo ostacola le osservazioni satellitari durante un evento di combustione e le misurazioni satellitari non hanno una risoluzione sufficientemente precisa per rivelare i dettagli delle emissioni di CO2. I ricercatori  sottolineano che «I modelli utilizzati per simulare il carico di carburante, il consumo di carburante e l'efficienza antincendio funzionano bene in circostanze normali, ma non sono abbastanza robusti da rappresentare incendi estremi». E Chen aggiunge che un altro problema lo abbiamo creato noi: «L'atmosfera terrestre contiene già grandi quantità di anidride carbonica derivante dalla combustione di combustibili fossili antropici e il gas serra esistente è difficile da distinguere da quello prodotto dagli incendi boschivi». Il team internazionale guidato dal cinese Bo Zheng della Tsinghua University ha trovato un modo per aggirare questi ostacoli studiando il monossido di carbonio espulso nell'atmosfera durante gli incendi. Combinando le letture di CO di MOPITT –Measurements Of Pollution In The Troposphere satellite instrument – con i dataset esistenti sulle emissioni degli incendi e sulla velocità del vento, il team ha ricostruito i cambiamenti nelle emissioni globali di CO2 degli incendi dal  2000 al 2021. All’UCI spiegano ancora: «Il monossido di carbonio (CO) ha una durata di vita più breve nell'atmosfera rispetto alla CO2, quindi se gli scienziati rilevano un'abbondanza anomala di CO, questo fornisce la prova di incendi». I ricercatori hanno confermato in modo indipendente il verificarsi di incendi estremi nel 2021 con dataset  forniti dallo spettroradiometro per immagini a risoluzione moderata della NASA a bordo dei satelliti Terra e Aqua. Chen spiega a sua volta: «L'approccio di inversione impiegato in questo studio è un metodo complementare all'approccio convenzionale dal basso verso l'alto, che si basa sulla stima dell'area bruciata, del carico di carburante e della completezza della combustione. La combinazione di questi approcci può portare a una comprensione più completa dei modelli di incendi boschivi e dei loro impatti». I ricercatori affermano La nostra analisi dei dati ha rivelato collegamenti tra gli estesi incendi boreali e fattori climatici, in particolare l'aumento delle temperature medie annuali e le ondate di caldo di breve durata» e hanno scoperto che «Le latitudini settentrionali più elevate e le aree con frazioni di copertura arborea più grandi erano particolarmente vulnerabili». David  conclude: «Per i primi due decenni del XXI secolo, a livello globale le emissioni di carbonio degli incendi boschivi sono state relativamente stabili a circa 2 gigatonnellate all'anno, ma il 2021 è stato l'anno in cui le emissioni sono davvero decollate. Circa l'80% di queste emissioni di CO2  verrà recuperato attraverso la ricrescita della vegetazione, ma il 20% viene perso nell'atmosfera in modo quasi irreversibile, quindi gli esseri umani dovranno trovare un modo per rimuovere quel carbonio dall'aria o ridurre sostanzialmente la nostra stessa produzione di anidride carbonica atmosferica». L'articolo Nel 2021 gli incendi boschivi hanno emesso una quantità record di CO2 sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Caccia: Confagricoltura Toscana chiede di ridurre l’Iva sulla selvaggina

Confagricoltura Toscana chiede di ridurre lIva sulla selvaggina
Secondo Confagricoltura Toscana, bisogna «Ridurre l’Iva sulla selvaggina da immettere nel territorio, contenere gli ungulati e affrontare di petto il problema dei predatori». Una concezione economicistica della caccia e della gestione degli ungulati (e non solo) che Confagricoltura Toscana ha esposto direttamente  nei gorni scorsi durante un vertice  col sottosegretario alle politiche agricole Patrizio La Pietra di Fratelli d’Italia ed eletto proprio in Toscana. Il  presidente di Confagricoltura Toscana Marco Neri ha spiegato che «Il 10% del territorio a caccia programmata è gestito da imprese private. E’ insomma un mondo importante, che merita attenzione. Da parte nostra auspichiamo una proficua collaborazione tra Ente Produttori di Selvaggina e Ministero con l’obiettivo di svolgere un lavoro di squadra, mantenere e promuovere il tessuto imprenditoriale, culturale e storico degli istituti privati. Confagricoltura Toscana è fiduciosa che questa collaborazione possa mitigare i problemi legati all’eccessiva presenza di ungulati e le conseguenti future richieste di risarcimento danni da parte degli agricoltori». Cosa c’entri l’Iva sulla selvaggina venduta da imprese private con gli abbattimenti dei cinghiali è un mistero, ma queste idee che prima circolavano in ambienti ristretti (la filiera della carne che a ha il difetto di garantire la risorsa non certo di diminuirla…) ora sono state sdoganate dalle strampalate e anti-scientifiche plitiche venatorie del governo Meloni che sono già sotto la lente della Commissione europea che ha chiesto immediate spiegazioni. Ma  Neri non se ne cura e annuncia: «Chiediamo anche   l’adozione di norme più flessibili a favore delle regioni per regolare l’attività venatoria e una riduzione dell’Iva sulla selvaggina viva, ad esempio il Fagiano, da immettere nel territorio, Iva che ad oggi è al 22%, il regime Iva deve essere convertito come per tutte le carni compreso il pollame al 10%. L’agricoltura ha di fronte una serie di criticità, dai rincari energetici alla siccità. Ma c’è un problema, quello degli ungulati, che da anni crea danni enormi, ormai insostenibili, alle nostre aziende. C’è la necessità imminente di ristabilire un equilibrio nel rapporto tra l’agricoltura e la fauna». E’ davvero strano che per ristabilire un equilibrio tra agricoltura e fauna si proponga di rafforzare il modello pronta-caccia – allevare animali per poi ammazzarli subito dopo liberati -  che è alla base dell’introduzione del cinghiale ibridato in zone dove si era estinto da 200 anni (come l’Isola d’Elba) o dove prima non era presente.  E che dire dei fagiani da sparo che neri evidentemente considera una specie “innocua”. Neri, più che una gestione venatoria degli ungulati e della fauna selvatica, sembra pensare a una grande macelleria a cielo aperto dove i cinghiali sono la scusa  ripropone come una novità di continuare come e prima e peggio di prima, pronta caccia e rilascio di animali da sparo e carniere compresi. L'articolo Caccia: Confagricoltura Toscana chiede di ridurre l’Iva sulla selvaggina sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Cnr, intelligenza artificiale al lavoro per migliorare la tutela dei cetacei nel Golfo di Taranto

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Il Cnr-Stiima di Bari ha condotto – insieme a Jdc, Cmcc e le Università di Bari e della Basilicata – uno studio per comprendere meglio habitat e usi dei cetacei nel Golfo di Taranto, usando per la prima volta tecnologie di intelligenza artificiale. «I cetacei sono esposti a molteplici stress di natura antropica e ai cambiamenti climatici. Valutare lo stato di conservazione di queste specie diventa dunque strategico per impostare efficaci piani di gestione sostenibile della risorsa mare e, nello stesso tempo, per la conservazione delle aree critiche per la fauna marina d’interesse comunitario – spiega Rosalia Maglietta esperta di intelligenza artificiale del Cnr-Stiima – Per farlo, abbiamo utilizzato descrittori ambientali forniti dalla Fondazione Cmcc e ricavati mediante l’uso di tecniche di telerilevamento spaziale e di prodotti di modellistica numerica del Servizio europeo Marine Core Service, che forniscono una vasta gamma di informazioni in relazione ai dati raccolti sull’ambiente in cui i delfini vivono, per la prima volta investigati e presentati in uno studio scientifico. Sfruttando le informazioni contenute nei descrittori ambientali forniti dal Servizio Copernicus, le intelligenze artificiali hanno consentito di predire l’abbondanza di tre odontoceti più diffusi nel Mar Ionio settentrionale: la stenella striata, il tursiope e il grampo». I risultati della ricerca sono stati pubblicati su Scientific Reports, grazie allo studio Environmental variables and machine learning models to predict cetacean abundance in the Central-eastern Mediterranean Sea. «Preziosi per l’esame dell’habitat sono stati i dati di avvistamento raccolti nell’area di studio dall’Associazione Jonian Dolphin Conservation, lungo un arco temporale di oltre 10 anni, tra l’estate del 2009 e quella del 2022, secondo un rigido protocollo scientifico. Le attività di Citizen Science sviluppate dall’associazione, con il coinvolgimento di cittadini, studenti e turisti, sono inoltre risultate strategiche per l’acquisizione con continuità temporale di questi dati – conclude Maglietta – Lo studio, con il suo carattere multidisciplinare, porta avanzamento e nuova conoscenza sull’utilizzo dell’habitat da parte di questi odontoceti.  Inoltre, la strategia di analisi e studio sviluppata potrebbe essere efficacemente applicata anche in altre aree geografiche e su specie di cetacei differenti». L'articolo Cnr, intelligenza artificiale al lavoro per migliorare la tutela dei cetacei nel Golfo di Taranto sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Cambiamento climatico: aumenta la diffusione di un parassita pericoloso per la salute umana

aumenta la diffusione di un parassita pericoloso per la salute umana
Secondo lo studio “Current and future distribution of a parasite with complex life cycle under global change scenarios: Echinococcus multilocularis in Europe”, pubblicato su Global Change Biology da un team di ricercatori dell’università di Pisa, Istituto di bioeconomia CNR Firenze e Fondazione Edmund Mach di Trento, « Per effetto del cambiamento climatico la distribuzione di Echinococcus multilocularis, un parassita di canidi e piccoli mammiferi, e dannoso per la salute umana, è in espansione». Echinococcus multilocularis è un verme piatto che circola tra canidi (selvatici e domestici) e piccoli mammiferi (soprattutto roditori) e che causa una grave patologia denominata Echinococcosi alveolare che ha spesso esiti fatali nell’uomo. Si tratta del secondo più importante parassita trasmesso per via orale all’uomo in Europa, e terzo al mondo dopo la Taenia solium e l’Echinococcus granulosus. Il professor Alessandro Massolo del Dipartimento di biologia dell’università di Pisa, che ha condotto il team di ricerca, a spiega che «Il cambiamento globale in corso sta influenzando drammaticamente la diffusione e l’emergere di molte malattie infettive, sia nelle popolazioni umane, sia in quelle animali, si stima infatti che oltre il 60% delle malattie infettive umane conosciute e circa il 75% di quelle emergenti siano causate da agenti patogeni di origine animale; comprendere dunque l'impatto del cambiamento globale sulla distribuzione e la prevalenza dei parassiti è una questione cruciale per la salute pubblica». Insieme al professor Massolo, per l’Ateneo pisano hanno lavorato alla ricerca Lucia Cenni, dottoranda in biologia, e Andrea Simoncini, studente di magistrale di biologia in conservazione ed evoluzione - WCE. Hanno partecipato allo studio anche Heidi Christine Hauffe e Annapaola Rizzoli della Fondazione Edmund Mach di Trento e Luciano Massetti dell’Istituto per la Bioeconomia del CNR di Firenze. Con l’aiuto di tecniche di machine learning, il team di ricercatori ha analizzato, la distribuzione attuale e futura in Europa di Echinococcus multilocularis, sulla base di scenari di cambiamento climatico e di uso del suolo e ne è venuto fuori che «Le proiezioni suggeriscono un aumento generale di aree ad molto idonee per questo parassita verso le latitudini settentrionali (Gran Bretagna e Penisola Finno-scandinava) e nell'intera regione alpina, mentre ne prevedono una diminuzione in Europa centrale (Germania, Polonia, Svizzera, Austria e Repubblica Ceca)». Masslo evidenzia che «Per la prima volta abbiamo stimato la distribuzione di Echinococcus multilocularis in base a vari scenari relativi ai cambiamenti climatici e all’uso del suolo, per farlo abbiamo integrato varie discipline quali l’ecologia animale, la modellizzazione ecologica, la parassitologia e la epidemiologia».   L'articolo Cambiamento climatico: aumenta la diffusione di un parassita pericoloso per la salute umana sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Nevediversa 2023: in Italia il 90% delle piste è già innevato artificialmente

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Secondo  i dati del nuovo dossier “Nevediversa 2023. Il turismo invernale nell’era della crisi climatica”  di Legambiente, «In Italia, complice la crisi climatica, è sos neve. Una neve sempre più rara – visto che su Alpi e Appennini a causa dell’aumento delle temperature nevica sempre di meno con impatti negativi anche sul turismo invernale e sulla stagione sciistica – e una neve sempre più costosa dato che per compensare la mancanza di quella naturale, l’Italia punta sull’innevamento artificiale, una pratica non sostenibile e alquanto cara sperperando anche soldi pubblici». In base alle ultime stime disponibili, il rapporto del Cigno Verde evidenzia che «L’Italia è tra i paesi alpini più dipendenti dalla neve artificiale con il 90% di piste innevate artificialmente, seguita da Austria (70%), Svizzera (50%), Francia (39%). La percentuale più bassa è in Germania, con il 25%. Preoccupante il numero di bacini idrici artificiali presenti in montagna ubicati in prossimità dei comprensori sciistici italiani e utilizzati principalmente per l’innevamento artificiale: sono ben 142 quelli mappati nella Penisola per la prima volta da Legambiente attraverso l’utilizzo di immagini satellitari per una superficie totale pari a circa 1.037.377 mq. Il Trentino Alto Adige detiene il primato con 59 invasi, seguito da Lombardia con 17 invasi e dal Piemonte con 16 bacini. Nel Centro Italia, l’Abruzzo è quello che ne conta di più, ben 4. In parallelo, nella Penisola nel 2023 aumentano sia gli “impianti dismessi” toccando quota 249, sia quelli “temporaneamente chiusi” - sono 138 – sia quelli sottoposti a “accanimento terapeutico”, ossia quelli che sopravvivono con forti iniezioni di denaro pubblico, e che nel 2023 arrivano a quota 181». Tutti impianti censiti da Legambiente che quest’anno allarga il suo monitoraggio includendo anche altre categorie: quelle degli “impianti un po’ aperti, un po’ chiusi”, ossia quei casi che con le loro aperture “a rubinetto” rendono bene l’idea della situazione di incertezza che vive il settore. In totale sono 84. La categoria degli “edifici fatiscenti”, 78 quelli censiti. Ed infine la categoria “smantellamento e riuso”, 16 i casi censiti. Per Legambiente «Il sistema di innevamento artificiale non è una pratica sostenibile e di adattamento, dato che comporta consistenti consumi di acqua, energia e suolo in territori di grande pregio». L’associazione ambientalista evidenzia: «Considerando che in Italia il 90% delle piste è dotato di impianti di innevamento artificiale il consumo annuo di acqua già ora potrebbe raggiungere 96.840.000 di m3 che corrispondono al consumo idrico annuo di circa una città da un milione di abitanti. Inoltre l’innevamento artificiale richiede sempre maggiori investimenti per nuove tecnologie ed enormi oneri a carico della pubblica amministrazione. Senza contare che il costo della produzione di neve artificiale sta anche lievitando, passando dai 2 euro circa a metro cubo del 2021-2022, ai 3-7 euro al metro cubo nella stagione 2022-2023. Per questi motivi Legambiente torna a ribadire l’urgenza di ripensare ad un nuovo modello di turismo invernale montano ecosostenibile, partendo da una diversificazione delle attività. Ce lo impone la crisi climatica che avanza e che sta avendo anche pesanti impatti sull’ambiente montano. Difronte a ciò l’Italia non può più restare miope, ne può pensare di poter inseguire la neve». Presentando “Nevediversa 2023”, Il presidente nazionale di Legambiente Stefano Ciafani ha detto che «La crisi climatica sta accelerando la sua corsa: la fusione repentina dei ghiacciai alpini che raccontiamo con la nostra campagna Carovana dei ghiacciai, l’emergenza siccità mai finita dalla scorsa estate che non sta dando tregua al nostro Paese, l’aumento delle temperature e degli eventi estremi, sono tutti codici rossi e campanelli d’allarme che il nostro Pianeta ci sta inviando. Al ministro del Turismo Daniela Santachè, che questo inverno ha avviato un tavolo tecnico per l’emergenza legata alla mancanza di neve in Appennino, torniamo a ribadire che avrebbe più senso investire risorse nell’adattamento e non nell’innevamento artificiale. Con un clima sempre più caldo, nei prossimi anni andremo incontro a usi plurimi dell’acqua sempre più problematici e conflittuali. Per questo è fondamentale che nella lotta alla crisi climatica l’Italia cambi rotta mettendo in campo politiche più ambiziose ed efficace, aggiornando e approvando entro la fine di marzo il piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici, e rindirizzando meglio i fondi del PNRR». Nel report Legambiente ricorda che «Il  2022 è stato l’anno più caldo e secco in oltre due secoli in Italia, il secondo più caldo in Europa. Negli ultimi anni i maggiori incrementi di temperatura si sono registrati nell’arco alpino. L’elevate temperature e lo scarso innevamento producono impatti e ricadute negative anche sul turismo invernale e sulla stagione sciistica. Nella stagione sciistica 2022-2023 per la prima volta nella storia dello sci nel calendario di Coppa del mondo, da inizio stagione a fine febbraio 2023, sono state cancellate/rinviate per il comparto maschile 8 gare su 43, il 18,6% del totale. Per il comparto femminile: 5 le gare cancellate su un totale di 42 (11,9% de totale). Quasi tutte per scarso innevamento e/o temperature elevate». Vanda Bonardo, responsabile nazionale Alpi di Legambiente, spiega che «La neve artificiale che negli anni ottanta era a integrazione di quella naturale, ora costituisce il presupposto indispensabile per una stagione sciistica, a tal punto che i comprensori per sopravvivere richiedono sempre nuove infrastrutture. Non si considera però che se le temperature aumenteranno oltre una certa soglia, l’innevamento semplicemente non sarà più praticabile se non in spazi molto ristretti di alta quota, in luoghi dove i costi già elevati della neve e della pratica sportiva subiranno incrementi consistenti, tanto da permettere l’accessibilità dello sci alpino unicamente ad una ridotta élite, così come accadeva nel passato. Lo ripetiamo, le nostre montagne stanno cambiando: pochissima neve, nevica più tardi e la neve è più bagnata e più pesante. E’ la fine di un’epoca, che però deve essere accompagnata da un nuovo modo ecosostenibile di ripensare il turismo insieme ad un nuovo approccio culturale. Per questo è fondamentale sostenere le buone pratiche che si stanno sviluppando nelle nostre montagne». Sono 249 gli impianti dismessi censiti da Legambiente (15 in più rispetto al 2022). Tra i casi simbolo quello di Gressoney-la Trinité (AO) Loc. Orsia-Bedemie dove l’ex sciovia era utilizzata per lo sci estivo e lo snowboard. Lo skilift è stato dismesso per la fusione del ghiacciaio. Le stazioni di partenza e di arrivo del vecchio skilift sono state smantellate e sgomberate, ma i rottami dell’impianto nel 2018 erano ancora sul posto. Sono 138 gli impianti temporaneamente chiusi (3 in più rispetto al 2022), tra questi quello di Picinisco (FR) dove il comprensorio non riesce a risollevarsi nonostante il rimodernamento da parte dell’Amministrazione. Impennata degli impianti sottoposti a “accanimento terapeutico”, salgono a 181 (33 in più rispetto al 2022). Ad esempio ad Asiago (VI), Comprensorio Kaberlaba, è stato costruito un nuovo bacino di raccolta per sparare neve nonostante la contrarietà delle attività ricettive. Tra i casi simbolo della categoria “impianti un po’ chiusi, un po’ aperti” c’è quello di Subiaco, nel Lazio, a Monte Livata dove l’impianto, composto da una seggiovia e tre skilift, è stato chiuso a dicembre, aperto a gennaio. Un continuo rincorrere la neve. Per la categoria “edifici fatiscenti” si segnala quello di Colonia Pian di Doccia, Gavinana (PT) dove si trova un enorme complesso in totale stato di abbandono e colpito da atti di vandalismo. Buone notizie arrivano, invece, dagli “smantellamenti”. In Lombardia a Castione della Presolana (BG) la seggiovia biposto è stata smontata e demolita. Nel report Legambiente fa anche il punto sulle Olimpiadi 2026: «A tre anni dal via, sono diversi i rischi, i ritardi e le ombre all’orizzonte. Se da una parte i cantieri delle infrastrutture considerate essenziali-indifferibili risultano già essere in ritardo, dall’altra parte - sottolinea Legambiente - la costruzione di queste opere sarà soggetta a “procedure accelerate”, rischiando di sacrificare così le necessarie valutazioni sugli impatti ambientali e sanitari.Manca ancora un completo cronoprogramma e questo rende molto difficile stabilire se e quali opere verranno effettivamente concluse in tempo per i giochi olimpici e quali saranno realizzate solamente per “stralci”. Per non parlare del rischio di infiltrazioni mafiose». Infine nel report c’è spazio anche ad una settantina di buone idee, storie di giovani e meno giovani che hanno deciso di puntare su Alpi e Appennini su sostenibilità e senso di comunità. Non manca un’analisi critica su alcune “cattive idee” che non stanno facendo bene alla montagna. L'articolo Nevediversa 2023: in Italia il 90% delle piste è già innevato artificialmente sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.