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Una tassa internazionale progressiva sulla ricchezza estrema per sanare l’ingiustizia sociale e climatica

Una tassa internazionale progressiva sulla ricchezza estrema

Il “Climate Inequality Report 2023” pubblicato recentemente da Lucas Chancel e Philipp Bothe del World Inequality Lab dell’Ecole d’économie de Paris e Università della California Berkley  e da Tancrède Voituriez del CIRAD, evidenzia che «La crisi climatica ha iniziato a sconvolgere le società umane colpendo gravemente le fondamenta stesse del sostentamento umano e dell'organizzazione sociale. Gli impatti climatici non sono equamente distribuiti in tutto il mondo: in media, i Paesi a basso e medio reddito subiscono impatti maggiori rispetto alle loro controparti più ricche. Allo stesso tempo, la crisi climatica è segnata anche da significative disuguaglianze all'interno dei Paesi. Recenti ricerche rivelano un'alta concentrazione di emissioni globali di gas serra tra una frazione relativamente piccola della popolazione, che vive nei Paesi emergenti e ricchi. Inoltre, la vulnerabilità a numerosi impatti climatici è fortemente legata al reddito e alla ricchezza, non solo tra Paesi ma anche al loro interno».
A un mese e mezzo dall’uscita di quel rapporto, in un forum su Le Monde, un centinaio di eurodeputati, economisti (compreso Joseph Stiglitz), ONG e uomini di affari chiedono all'Ocse e all'Onu di promuovere l’istituzione di una tassa internazionale progressiva sulla ricchezza estrema.
L’eurodeputata socialista Aurore Lalucq, spiega: «Siamo più di 120 eurodeputati, economisti fiscali, milionari, ONG... e chiediamo una tassazione equa degli ultra-ricchi. Impossibile? Ce lo avevano detto anche per la tassazione delle multinazionali!» Parlando dewgli enormi guadagni fatti dai super-ricchi con lsa crisi Covid-19 e con la crisi energetica e alimantare della guerra in Ucraina, la Lalucq ha evidenziato che «Siamo in un classico caso di "mutualizzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti". Ricordatevi che la Commissione Europea è favorevole a questa tassa e anche il Regno Unito, noto per il suo comunismo, l'ha introdotta. Questa tassa sul sovraprofitti, non è di destra o di sinistra, è sostenuta dalla Commissione Europea... lei stessa il frutto di un compromesso sinistra-destra. Non attuarla è irragionevole»
Gabriel Zucman, un economista francese che è attualmente professore associato di politiche pubbliche ed economia alla Goldman School of Public Policy dell’università della California Berkeley, sottolinea: «Immaginatevi che ci sia una politica governativa che salvaguarda la tua ricchezza se sei ricco, nel caso in cui accadano cose brutte (ad esempio, il tuo banchiere si rivela essere un truffatore) Possiamo discutere i meriti di questa politica, ma almeno lì dovrebbe esserci una "tassa" basata sulla ricchezza, giusto?»
Il Forum ricorda che «Mentre dal 2020 l'1% più ricco si è impossessato di quasi i due terzi della ricchezza prodotta, la povertà estrema è aumentata e i salari di quasi due miliardi di persone non riescono ancora a tenere il passo con l'inflazione. Concretamente, perché i numeri parlano più delle parole, nel 2018 Elon Musk, allora secondo uomo più ricco del mondo, non ha pagato un centesimo di tasse federali. Jeff Bezos non ha pagato le tasse nemmeno nel 2007 o nel 2011. In Francia,  Paese noto per il suo alto livello di tassazione, le 370 famiglie più ricche sono in realtà tassate solo dal 2% al 3% circa».
Come ci siamo arrivati a questa situazione nella quale – come ind segna l’Italia - i ricchissimi che non pagano tasse si lamentano per l’alta tassazione che in realtà è sulle spalle di altri? «Semplicemente perché i più ricchi possono utilizzare elaborati accordi fiscali per ridurre la loro aliquota fiscale al minimo indispensabile – rispondono eurodeputati ed esperti -  cosa che le famiglie comuni non possono fare, ma anche perché i Paesi hanno gradualmente abbandonato la tassazione sulla ricchezza e sul capitale. Una situazione che ricorda quella che prevale tra multinazionali e Piccole e medie imprese».  Le Monde fa notare che «In media, l'aliquota fiscale per le PMI in Europa supera il 20%, quando, ade esempio, ristagna intorno al 9% per le multinazionali digitali».
Di fronte a questa ingiustizia ea questa violazione dell'uguaglianza, è stato redatto un accordo globale sulla tassazione minima delle multinazionali sotto l'egida dell'OCSE. Sarà efficace su scala europea grazie a una direttiva adottata definitivamente alla fine del 2022. L’idea è quella di un'imposta dell'1,5% su patrimoni di almeno 50 milioni di euro, ma l livello esatto «Dovrebbe essere deciso collettivamente e democraticamente».
I partecipanti al Forum concludono: «Quel che siamo riusciti a ottenere per le multinazionali, ora dobbiamo farlo per i più ricchi. La nostra proposta è semplice: introdurre un'imposta progressiva sulla ricchezza degli ultra-ricchi su scala internazionale per ridurre le disuguaglianze e contribuire a finanziare gli investimenti necessari per la transizione ecologica e sociale»
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Il 61% dei suoli dell’Unione europea è in uno stato malsano

suoli dellUnione europea

Le principali caratteristiche del nuovo  soil health dashboard  sono un dataset sul suolo armonizzato a livello di Unione europea e una nuova metodologia, Si tratta di  un nuovo strumento dell' EU Soil Observatory (EUSO) sviluppato e gestito dal Joint Research Centre (JRC) che supporta l'imminente proposta della Commissione europea per una legge sulla salute del suolo e gli indicatori proposti dalla Soil Mission del programma di ricerca e innovazione dell'Ue Horizon Europe.
Al JRC spiegano che «Questa proposta fa parte della strategia dell'Ue per il suolo per il 2030. Il suo scopo è quello di specificare le condizioni per un suolo sano, determinare le opzioni per il monitoraggio del suolo e stabilire regole favorevoli all'utilizzo e al ripristino sostenibili del suolo».
Per la prima volta è così possibile visualizzare lo stato di salute del suolo in tutta l'Ue e il risultato è abbastanza scioccante: uno sbalorditivo 61% dei suoli dell'Ue si trova in uno stato malsano e al JRC avvertono che « Questa cifra è una sottostima dell'effettiva portata del degrado del suolo, data la riconosciuta mancanza di dati su molti altri problemi di degrado del suolo, come la contaminazione del suolo».
Il valore attuale è in linea con la valutazione principale effettuata per l'istituzione di una Soil Mission, secondo la quale «Il 60-70% dei suoli d'Europa era in uno stato malsano. I tipi più diffusi di degrado del suolo sembrano essere la perdita di carbonio organico del suolo (48%), la perdita di biodiversità del suolo (37,5%) e l'erosione del suolo da parte dell'acqua (32%)».
Inoltre, il  soil health dashboard  mostra che la maggior parte dei suoli malsani è soggetta a più di un tipo di degrado del suolo.
Il dashboard EUSO sulla salute del suolo si basa su una serie di 15 indicatori dei processi di degrado del suolo che coprono:  erosione del suolo, inquinamento del suolo, nutrienti, perdita di carbonio organico del suolo, perdita di biodiversità del suolo, compattazione del suolo, salinizzazione del suolo, perdita di suoli organici e impermeabilizzazione del suolo. Ma il team EUSO presso il JRC fa notare che «In pratica, tuttavia, gli indicatori coprono solo un sottoinsieme dei processi di degrado che interessano i suoli. Speriamo che il dashboard metta in luce le attuali lacune nei dati sul suolo, al fine di guidare una migliore condivisione dei dati e una ricerca mirata».
Una novità del dashboard EUSO e l’utilizzo dell’approccio della convergenza delle prove, che combina spazialmente i dataset per evidenziare l'intensità e la posizione dei processi di degrado del suolo. «La mappa che ne è risultata – dicono al JRC - mostra, per la prima volta, dove convergono le prove scientifiche per indicare le aree che potrebbero essere interessate dal degrado del suolo. In altre parole, fornisce un'indicazione di dove possono trovarsi suoli malsani nell'Ue. Questo  è stato reso possibile utilizzando dataset armonizzati a livello Ue, la maggior parte dei quali sono stati sviluppati dal JRC e provenienti dall'ESDAC, l’European Soil Data Centre da lungo tempo operativo, ma anche dall'European Environment Agency e da altre istituzioni. Con il  tempo, altri dati verranno aggiunti da fonti diverse».
Un'altra novità è la fissazione di valori soglia per determinare quando i suoli possono essere considerati sani o insalubri. Al JRC spiegano ancora che «Sulla base di una combinazione di stime scientifiche e limiti critici stabiliti, sono state fissate soglie per ogni processo di degrado del suolo. Rappresentano una stima del punto oltre il quale la maggior parte dei suoli può ragionevolmente essere considerata vulnerabile a un determinato processo. Data l'ampia gamma di tipi di suolo, alcune di queste soglie a livello Ue possono comportare grandi incertezze. In futuro, l'accuratezza della mappa del dashboard EUSO verrà migliorata applicando soglie basate a livello locale o offrendo agli utenti la possibilità di creare mappe basate sulle soglie che ritengono più appropriate. Il dashboard EUSO sulla salute del suolo presenta anche l'area di sovrapposizione osservata tra le coppie dei 15 processi di degrado del suolo, evidenziando le associazioni tipiche. Infine, statistiche e mappe vengono presentate per ciascun indicatore attraverso un display interattivo in cui gli utenti possono selezionare il degrado del suolo e la scala a cui sono interessati».
La serie di indicatori, insieme alle soglie che determinano lo stato di salute del suolo, si evolverà in base all'attuazione della prossima legislazione dell'Ue sulla salute del suolo, agli sviluppi scientifici (ad esempio i progetti Soil Mission di Horizon Europe) e al miglioramento dei flussi di dati provenienti dai Paesi Ue. Ulteriori elementi saranno sviluppati per riflettere l'attuazione di strategie politiche e normative specifiche, ad esempio la strategia per il suolo, il piano d'azione per l'inquinamento zero, la strategia per la biodiversità, la strategia farm to forke gli Obiettivi di sviluppo sostenibile.
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Post terremoto in Siria e Turchia, Unhcr: livelli di privazione e disperazione mai visti

Terremoto Siria Turchia

Il terremoto che ha devastato il sud della Turchia e il nord della Siria è già scomparso dai telegiornali, ma nei due Paesi, il terremoto ha causato la morte di 54.000 persone e provocato distruzioni enormi in un’area abitata da oltre 23 milioni di persone, molte delle quali, durante 12 anni di guerra civile/internazionale, erano già state costrette a fuggire, sia all’interno della Siria sia oltre confine entrando in Turchia come rifugiati. Sono gli stessi che cercano di attraversare l’Egeo e lo Ionio in tempesta e che vanno a schiantarsi e a morire in spiagge come quella di Cutro.
A cercare di riportare il dramma turco-siriano sotto i riflettori dell’attenzione mediatica ci ha provato l’Alto Commissario Onu per i Rifugiati, Filippo Grandi, che ha appena concluso una visita di 5 giorni nelle aree devastate dal terremoto, incontrando sopravvissuti, persone che hanno subito danni e operatori umanitari impegnati sul campo per garantire sostegno immediato alla popolazione colpita. Grandi ha commentato: «Il livello di distruzione e devastazione è scioccante e, in molte aree, lo scenario è apocalittico. A causa di quest’evento tragico e terribile, milioni di persone hanno subito perdite, ferite e traumi, e molte altre sono state costrette a fuggire».
Il capo dell’UNHCR ha sottolineato che «Le esigenze rilevate sul campo in entrambi i Paesi sono di elevata criticità ed è pertanto necessario assicurare maggiori risorse alle attività di risposta. Pur essendo di fondamentale importanza concepire e supportare misure a più lungo termine, è necessario garantire sempre più  aiuti umanitari e risorse utili ad avviare una prima fase di ripresa, affinché le persone possano iniziare a ricostruire la propria vita e a sostentarsi.
In Turchia, l’Alto Commissario ha incontrato famiglie turche e siriane che hanno perduto tutto a causa del terremoto e che, ora, insieme ad altre migliaia di persone, sono accolte in un campo di alloggi container. In Siria, Grandi ha incontrato famiglie accolte all’interno di alloggi collettivi e che erano già state costrette a fuggire in più occasioni, prima dal conflitto che ha dilaniato il Paese e ora a causa del terremoto. L’UNHCR sottolinea che «La tragica condizione di queste persone chiarisce le enormi difficoltà causate da dodici anni di conflitto ai danni del popolo siriano e le distruzioni arrecate alle infrastrutture del Paese, quali servizi essenziali come l’approvvigionamento idrico e l’erogazione di corrente elettrica. Oltre il 90 per cento delle persone in Siria oggi vive al di sotto della soglia di povertà».
Grandi aggiunge: «Torno in Siria regolarmente da quasi 20 anni e, ovunque io sia stato, non ho mai assistito prima d’ora a questi livelli di privazione e disperazione. È inconcepibile che così tante persone siano state lasciate con così poco per così tanto tempo. E’ necessario assicurare loro tutto il sostegno a cui hanno diritto. Per noi, oggi, costituisce un imperativo umanitario intensificare le attività di assistenza e avviare la prima fase di ripresa in tutto il Paese. E’ di fondamentale importanza arrivare a tutti coloro che necessitano assistenza, ovunque si trovino».
L’Onu ha chiesto 1 miliardo di dollari per finanziare le attività di risposta umanitaria agli effetti del terremoto in Turchia e quasi 400 milioni di dollari per la Siria. Nell’ambito dei piani di risposta, la parte dell’UNHCR è pari a 201 milioni. L’appello dell’Onu è attualmente finanziato solamente al 12% per la Turchia e al 59% per la Siria. Passata l’emozione, spentisi i riflettori delle televisioni, ci stiamo scordando di milioni di persone che rischiano di andare a ingrossare le folle dei profughi che cerrcano s di scappare in Europa o quelle di chi, di fronte alla disperazione, va a rimpinguare le fila delle milizie jihadiste.
Intanto, la Commissione internazionale indipendente d'inchiesta dell’Onu sulla Siria ha denunciato la lentezza degli aiuti umanitari dopo il terremoto e ha chiesto l'apertura di un'inchiesta.
Secondo i tre inquirenti Onu, «La risposta ai recenti massicci terremoti è stata caratterizzata da ulteriori fallimenti che hanno ostacolato la consegna di aiuti urgenti e salvavita alla Siria nordoccidentale. Questi fallimenti hanno coinvolto il governo e le altre parti in conflitto, così come la comunità internazionale e le Nazioni Unite». La Commissione rimprovera ai vari attori di «Non essere riusciti a garantire un cessate il fuoco che avrebbe facilitato l'erogazione degli aiuti durante la prima settimana successiva al disastro. I siriani si sono sentiti abbandonati e trascurati da coloro che avrebbero dovuto proteggerli, nei loro momenti più disperati».
Il presidente della Commissione, Paulo Pinheiro, ha ricordato che «Molte voci si sono giustamente alzate per chiedere che si svolga un'indagine e che i responsabili siano ritenuti responsabili. I siriani hanno ora bisogno di un cessate il fuoco completo e pienamente rispettato, in modo che i civili, inclusi gli operatori umanitari, siano al sicuro», Intere comunità sono state distrutte e l’Onu stima che nella parte siriana dell'area colpita dal terremoto «Circa 5 milioni di persone abbiano bisogno di un riparo di base e di assistenza non alimentare. Anche prima dei terremoti del 6 febbraio, più di 15 milioni di siriani - più che mai dall'inizio del conflitto - avevano bisogno di aiuti umanitari».
Pinheiro denuncia che «Incomprensibilmente, a causa della crudeltà e del cinismo delle parti in conflitto, stiamo ora indagando su nuovi attacchi, anche in aree devastate dai terremoti. Questi includono l'attacco israeliano segnalato la scorsa settimana all'aeroporto internazionale di Aleppo, un punto di passaggio per gli aiuti umanitari».
Inoltre, gli investigatori Onu hanno denunciato che «Subito dopo il terremoto, il governo siriano ha impiegato un'intera settimana per consentire l'accesso transfrontaliero di aiuti vitali. Sia il governo che la Syrian National Army (SNA, milizie antigiovernative jihadiste filoturche, ndr) hanno bloccato gli aiuti transfrontalieri alle comunità colpite, mentre Hayat Tahrir al Sham (HTS - al-Qaeda in Siria, ndr) nella Siria nordoccidentale ha rifiutato gli aiuti transfrontalieri provenientida Damasco».
Una dei commissari, Hanny Megally, ha detto che «Attualmente stiamo indagando su diverse accuse secondo cui le parti in conflitto avrebbero deliberatamente ostacolato l'assistenza umanitaria alle comunità colpite».
Il rapporto della Commissione, preparato prima dei devastanti terremoti, fornisce una sintesi delle violazioni e degli abusi commessi contro i civili in Siria e sottolinea che «In generale, le parti in conflitto in Siria hanno commesso diffuse violazioni e abusi dei diritti umani nei mesi che hanno preceduto i terremoti più devastanti della regione in più di un secolo, continuando un modello decennale di fallimenti nella protezione dei civili siriani».
Nelle aree controllate dal governo sirialo, la Commissione ha riscontrato «Una crescente insicurezza a Dara'a, Suwayda' e Hama, oltre a continui arresti arbitrari, torture, maltrattamenti e sparizioni forzate.  Nel nord-ovest del Paese, i civili che vivono nelle zone colpite dal terremoto sono stati particolarmente esposti ad attacchi mortali nei mesi scorsi. A novembre, in un unico attacco indiscriminato, le forze governative hanno usato munizioni a grappolo per colpire campi di sfollati densamente popolati nel governatorato di Idlib, uccidendo 7 civili e ferendone almeno altri 60.  Ad agosto, un altro attacco indiscriminato ha ucciso 16 civili e ne ha feriti 29 all'interno e nei dintorni di un affollato mercato di Al-Bab, a nord-est di Aleppo. Queste atrocità fanno parte di un modello consolidato di attacchi indiscriminati, che possono costituire crimini di Guerra».
Per I 3 commissari, nel nord-est della Siria, le Sirian Democratic Forces (SDF) a guida curda «Continuano a detenere illegalmente 56.000 persone, per lo più donne e bambini, sospettate di avere legami familiari con i combattenti di Daesh (Stato Islamico, ndr), nei campi di Al-Hawl e Roj, dove le condizioni continuano a peggiorare. La Commissione ha ragionevoli motivi per ritenere che le sofferenze inflitte a queste persone possano essere assimilate al crimine di guerra di lesione della dignità della persona, e chiede che vengano accelerati i rimpatri».
La Commissione presenterà la sua relazione al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite il 21 marzo a Ginevra.
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Riforma del Codice degli appalti, così non va. Le proposte di modifica al decreto legislativo del governo

Riforma del Codice degli appalti

«Legalità, trasparenza, concorrenza, tutela effettiva della salute e della sicurezza di lavoratrici e lavoratori, obbligatorietà delle clausole sociali, partecipazione dei cittadini attraverso un vero dibattito pubblico»: Sono le richieste rivolte al Parlamento e al governo da un ampio fronte di reti, associazioni, fondazioni e cooperative perché «Il decreto legislativo di riforma del Codice degli appalti diventi, in un quadro di semplificazione delle norme e delle procedure, un vero argine ai rischi di infiltrazione mafiosa e di diffusione di fenomeni corruttivi». All’appello lanciato da Libera, Cgil, Avviso pubblico e Legambiente hanno aderito il Forum Disuguaglianze Diversità, Tempi Moderni, Spazio Solidale, Centro Studi ed Iniziative Culturali Pio La Torre, della Pro Civitate Christiana, Libera informazione, Link Coordinamento Universitario, Associazione di Quartiere Collina della Pace, Cooperare con Libera Terra, SNOP - Società Nazionale Operatori della Prevenzione ETS, ACSI - Associazione di Cultura Sport e Tempo Libero, Lega anti vivisezione LAV, Altro Modo Flegreo-Laboratorio di Cittadinanza attiva Pozzuoli(NA), Fondazione Openpolis, Federazione Nazionale Pro Natura APS, Coop. Generazioni Future, Scuola Capitale sociale, Unione degli Universitari.
Nella nota congiunta inviata a Parlamento e governo si legge: «A seguito dell’approvazione da parte del Consiglio dei ministri della proposta di nuovo Codice degli appalti e dell’esame del testo in Parlamento, le seguenti associazioni e organizzazioni sindacali – si legge nella nota - hanno avviato un confronto interno volto ad analizzare nel merito le proposte di modifica rispetto alla legislazione vigente. L’origine di questa lettura sistemica da parte di realtà che sono ciascuna portatrice di valori, contenuti e sensibilità proprie in materia di prevenzione e contrasto a mafie e corruzione, tutela dei diritti dei lavoratori, ambiente e sviluppo sostenibile, si fonda sull’esperienza maturata durante il Covid, denominata “Giusta Italia. In quei mesi terribili per il nostro Paese è nato un patto per far uscire l’Italia dalla cultura dell’emergenza, fondato sull’etica della responsabilità e finalizzato a far ripartire il Paese nella legalità, mettendo al centro valori come la partecipazione dei cittadini, la trasparenza della pubblica amministrazione, la tutela dei diritti sociali e ambientali. Un patto per andare oltre gli errori del passato e che guarda con preoccupazione a come mafie, corruzione, criminalità economica e ambientale sappiano sfruttare l’allentarsi delle regole, conquistando consenso sociale e riciclando capitali accumulati illegalmente, a detrimento dell'economia legale, di un lavoro sicuro e giustamente retribuito, della qualità dell’ambiente in cui viviamo. Sono preoccupazioni a cui è fondamentale rispondere anche grazie ai  principi che ispirano quello che diventerà il nuovo Codice degli appalti, ovvero la massima tempestività e il miglior rapporto tra qualità e prezzo; l'importanza di garantire legalità, trasparenza, concorrenza e tutela effettiva, non subordinata ai costi, della salute e della sicurezza di lavoratrici e lavoratori; la necessità di costruire fiducia nella pubblica amministrazione e negli operatori economici per gestire in maniera efficace le risorse pubbliche disponibili, a partire da quelle previste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, in un quadro generale di semplificazione delle norme e delle procedure».
Per  il fronte di reti, associazioni, fondazioni e cooperative, «Ogni sforzo deve essere compiuto per migliorare il sistema nel suo complesso. Perciò è necessario garantire le condizioni di lavoro delle lavoratrici e dei lavoratori, in particolare dei sub appalti, quelli più "deboli " degli appalti di servizi e le imprese più strutturate che più hanno investito in questi anni in professionalità, mezzi, innovazione e che rischiano ora di subire concorrenze sleali o dinamiche poco "trasparenti". Per queste ragioni è fondamentale inserire nei bandi di gara l'obbligatorietà delle clausole sociali per garantire la stabilità occupazionale del personale impiegato, nonché l'applicazione dei contratti collettivi nazionali e territoriali di settore».
La modernizzazione del sistema dei contratti pubblici è «Un obiettivo da raggiungere attraverso un importante investimento su piattaforme, procedure e strumenti che migliorino la trasparenza, facilitino l’accesso civico e rendano più facile per stazioni appaltanti e imprese i processi di gestione».
I promotori e i firmatari dell’appello spiegano che «A partire da queste considerazioni e dalla disponibilità dichiarata dal Governo di utilizzare questa fase di ascolto e confronto per migliorare il testo del decreto legislativo nel rispetto dei principi sopra indicati, abbiamo raccolto alcune criticità puntuali nel testo attualmente all’esame delle commissioni parlamentari competenti in materia, perché possano esprimere il loro parere. Abbiamo ritenuto opportuno evidenziarle, indicando anche ipotesi di emendamento in modo da accompagnare alla critica anche le proposte che, sulla base della nostra esperienza assolutamente trasversale, possono migliorare il nuovo Codice e renderlo maggiormente rispondente agli obiettivi per cui è stato redatto».
In linea generale le questioni maggiormente rilevanti individuate sono: 1) Conflitto di interessi. Questa modifica rischia, con l’inversione dell’onere della prova, di considerare i conflitti di interesse come un fatto che riguarda i privati e non l’interesse generale. Bisogna intervenire in una logica di semplificazione, rispettosa della vigente normativa europea e che tuteli le stazioni appaltanti nell'individuare i reali contraenti ed eventuali rapporti con soggetti terzi. 2) Dibattito pubblico. L’attuale versione dell’art. 40 del Codice degli appalti di fatto finisce per azzerare l’effettiva utilità del dibattito pubblico, regolato finora dal Dpcm 76/2018, con la cancellazione della Commissione nazionale, il cui lavoro stava già producendo risultati postivi, il dimezzamento dei tempi previsti, l’esclusione di momenti di confronto con la cittadinanza interessata dalla realizzazione delle opere previste. Uno strumento concepito per sottoporre a un esame partecipato le ragioni e le caratteristiche dei cantieri da avviare, riducendo i contenziosi che spesso li accompagnano, viene svuotato di senso e ridotto a una mera elencazione di eventuali osservazioni e pareri.  3) Necessità di intervento sulle stazioni appaltanti in termini di qualificazioni e soglie. Una delle questioni irrisolte nel nostro Paese da decenni è la moltiplicazione di stazioni appaltanti poco qualificate e non in grado di comprare sul mercato a condizioni vantaggiose per la pubblica amministrazione. Questo è un elemento di debolezza che si paga in termini di velocità delle procedure ed efficienza nella spesa del denaro pubblico. Inoltre, stazioni appaltanti poco qualificate e numerose sono meno controllabili, più fragili e potenzialmente più a rischio di fenomeni corruttivi e di infiltrazione mafiosa. La proposta non agisce in questa direzione e di fatto legittima il modello esistente, favorendo per altro una maggiore possibilità di affidare nuovi contratti pubblici.  4) Riduzione degli ambiti di affidamento diretto. Questa previsione, derivante dalla normativa emergenziale legata al Covid, rischia di porre in capo a dirigenti e responsabili delle stazioni appaltanti la scelta di come verificare la congruità sul mercato, favorendo peraltro relazioni con mondi criminali, mafiosi e con contesti e operatori locali in un’Italia degli 8 mila comuni di cui la maggior parte sotto i 5 mila abitanti. Occorre intervenire per favorire comparazione e ricerche di mercato, rotazioni e strumenti che evitino di ridurre imparzialità e trasparenza nella gestione di risorse pubbliche.  5) Delimitazione dell’appalto integrato a contratti con importo e complessità rilevanti. Non è coerente con i principi del codice il ricorso a uno strumento che di fatto rischia, senza alcuna delimitazione, di consegnare la progettazione e realizzazione di opere a imprese, riducendo il ruolo della stazione appaltante a ente pagatore, con rischi di incremento di costi e possibili infiltrazioni mafiose. 6) Eliminazione subappalto a cascata. La riduzione dei documenti di gara e la semplificazione dell’istruttoria, assolutamente condivisibile, non può generare una condizione tale per cui si perde di fatto il controllo delle attività in subappalto, con riflessi pericolosi per quanto attiene potenziali infiltrazioni mafiose.  7) Reintroduzione del registro in-house. Il registro delle in-house è strumento a tutela degli enti che decidono di sottrarre al mercato l’affidamento di opere, servizi e forniture, evitando possibili contenziosi successivi e potenziali inefficienze. La semplificazione del registro è un obiettivo da raggiungere, salvaguardando il valore di un'attività preventiva e di controllo di adeguatezza ed economicità del soggetto in house a cui si intende procedere con l’affidamento di un contratto pubblico. 8) Programmazione di infrastrutture prioritarie. La semplificazione del procedimento di un numero definito di opere di interesse nazionale, previsto dall’art. 39 dello schema di decreto legislativo è condivisibile a due condizioni:  il ripristino e la rapida attuazione di quanto previsto con il Codice degli appalti del 2016, che aveva definito agli artt. 200-203, una nuova disciplina per la programmazione e il finanziamento delle infrastrutture e degli insediamenti prioritari per lo sviluppo del Paese, basata sull’adozione di due strumenti di pianificazione e programmazione rappresentati dal Piano Generale dei Trasporti e della Logistica (PGTL) e dal Documento Pluriennale di Pianificazione (DPP), entrambi mai adottati ed approvati;  la garanzia di adeguate condizioni di trasparenza e tutela da infiltrazioni mafiose e criminali.
Il Per  il fronte di reti, associazioni, fondazioni e cooperative conclude: «Per tutte queste opere è fondamentale prevedere, come già accennato, l’effettivo svolgimento di procedure di dibattito pubblico con enti e istituzioni interessate e rappresentanze di associazioni e cittadini, quale strumento di concertazione e velocizzazione del procedimento».
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Le foreste zombie del riscaldamento globale (VIDEO)

foreste zombie

Lo studio “Low-elevation conifers in California’s Sierra Nevada are out of equilibrium with climate”, pubblicato recentemente su Pnas Nexus da un team di ricercatori della Stanford Unversity. rivela che «Un quinto delle foreste di conifere della Sierra Nevada della California è “arenato” in habitat che per loro sono diventati troppo caldi»
I ricercatori della Stanford hanno creato mappe che mostrano dove il clima più caldo ha portato gli alberi a sopravvivere in condizioni non adatte, rendendoli più inclini a essere sostituiti da altre specie.  Gli scienziati statunitensi dicono che «I risultati potrebbero aiutare a informare gli incendi a lungo termine e la gestione dell'ecosistema in queste "foreste di zombi"».
Come spiega efficacemente Rob Jordan dello Stanford Woods institute for the environment, «Come un vecchio improvvisamente consapevole che il mondo è andato avanti senza di lui, la conifera originaria delle quote più basse della catena montuosa della Sierra Nevada in California si trova in un clima irriconoscibile».
Lo studio  evidenzia che «Circa un quinto di tutte le foreste di conifere della Sierra Nevada - emblema della natura selvaggia del West - sono in “mancata corrispondenza" con il clima caldo delle loro regioni» e  fa notare come «Queste  "foreste di zombi" stiano temporaneamente ingannando la morte, probabilmente per essere sostituite con specie di alberi meglio adattate al clima dopo uno dei sempre più frequenti incendi catastrofici della California».
Il principale autore dello studio, il biologo Avery Hill  dela School of humanities & sciences di Stanford, sottolinea che «I gestori delle foreste e degli incendi devono sapere dove le loro risorse limitate possono avere il maggiore impatto. Questo studio fornisce una solida base per capire dove è probabile che si verifichino le transizioni forestali e come questo influenzerà i futuri processi ecosistemici come i regimi degli incendi».
Nel novembre 2021, Hill e Christopher Field hanno pubblicato su Naturommunications lo studio “Forest fires and climate-induced tree range shifts in the western US” che dimostra come gli incendi abbiano accelerato lo spostamento degli areali degli alberi negli Usa occidentali.
Le conifere della Sierra Nevada, come il pino ponderosa, il sugar pine e l'abete Douglas, sono tra gli esseri viventi più alti e massicci della Terra e mentre dagli anni ’30 le temperature nel loro areale si erano riscaldate in media di poco più di 1 grado Celsius, gli ultimi anni hanno visto un'ondata gigantesca di nuovi residenti umani attratti verso le quote più basse della Sierra Nevada da paesaggi spettacolari, stili di vita rilassati e relativa convenienza. Gli scienziati dicono che «La combinazione di clima più caldo, più costruzioni e una storia di soppressione degli incendi hanno alimentato incendi sempre più distruttivi, rendendo i nomi di comunità come Paradise e Caldor sinonimo della furia di Madre Natura».
Hill e i suoi coautori hanno iniziato analizzando i dati sulla vegetazione risalenti a 90 anni fa, quando la stragrande maggioranza del riscaldamento causato dall'uomo doveva ancora verificarsi. Basandosi su queste informazioni,  hanno realizzato un modello computerizzato che ha dimostrato che «Dagli anni ’30, l'elevazione media delle conifere si è spostata di 34 metri verso l'alto, mentre le temperature più adatte per le conifere hanno superato gli alberi, spostandosi mediamente di 182 metri in salita. In altre parole, la velocità del cambiamento climatico ha superato la capacità di molte conifere di adattarsi o spostare il proprio areale, rendendole altamente vulnerabili alla sostituzione, soprattutto dopo gli incendi boschivi».
Lo studio stima che «Circa il 20% di tutte le conifere della Sierra Nevada non corrisponda al clima che le circonda. La maggior parte di quegli alberi non corrispondenti si trova al di sotto di un'altitudine di 2.356 metri. La prognosi: anche se l'inquinamento globale che intrappola il calore arrivasse al limite inferiore delle proiezioni scientifiche, il numero di conifere della Sierra Nevada non più adatte al clima raddoppierà entro i prossimi 77 anni».
Field, direttore dello Stanford Woods Institute for the Environment della Stanford Doerr School of Sustainability, aggiunge: «Dato il gran numero di persone che vivono in questi ecosistemi e l'ampia gamma di servizi ecosistemici che conferiscono, dovremmo considerare seriamente le opzioni per proteggere e migliorare le caratteristiche che sono più importanti».
Le prime mape rwalizxzate dallo studio – uniche nel loro genere - dipingono un quadro  «Territori in rapida evoluzione che richiederanno una gestione più adattativa degli incendi boschivi che eviti la soppressione e la resistenza al cambiamento per l'opportunità di dirigere le transizioni forestali a beneficio degli ecosistemi e delle comunità vicine. Allo stesso modo, gli sforzi di conservazione e di rimboschimento post-incendio dovranno prendere in considerazione come garantire che le foreste siano in equilibrio con le condizioni future. Una foresta bruciata dovrebbe essere ripiantata con specie nuove nella zona? Gli habitat che si prevede andranno fuori equilibrio con il clima di un'area dovrebbero essere bruciati in modo proattivo per ridurre il rischio di incendi catastrofici e la corrispondente conversione della vegetazione?»
Hill conclude: «Le nostre mappe impongono alcune discussioni essenziali e difficili su come gestire le imminenti transizioni ecologiche. Queste conversazioni possono portare a risultati migliori per gli ecosistemi e le persone».
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L’assurda discussione sul prolungamento dell’aeroporto della Pila

Aeroporto prolungamento

La discussione sull’ampliamento dell’Aeroporto di Campo nell’Elba non meriterebbe nemmeno di essere affrontata se non fosse per l’impegno, legittimo ma probabilmente sprecato, dello staff di Alatoscana nel tentativo di spingere la Regione, quale disponibile socio di maggioranza, a finanziare un’opera che ha zero possibilità di essere economicamente sostenibile, con un impatto ambientale, urbanistico e idrogeologico insostenibile, e che comunque, anche se l’opera fosse finanziata, andrebbe sottoposto a VIA.
L’allungamento della pista di 306 metri, con ampliamenti, sarebbe necessario per garantire la continuità territoriale aerea, peccato che la continuità territoriale, se vogliamo limitarci alle destinazioni di Pisa e Firenze, necessiti più che altro del finanziamento programmato fino a ieri dalla Regione e non di centinaia di metri di ampliamenti che comporteranno lo spostamento della strada provinciale Anello Occidentale, l’abbattimento di diverse abitazioni, lo spostamento di uno dei fossi a maggior rischio idrogeologico, il tutto in una zona “rossa” dalla quale sono partiti in soli 9 anni due alluvioni che dimostrano che il ritorno duecentennale degli eventi estremi dei quali parla Ala Toscana è un ricordo spazzato via dal cambiamento climatico, come sa bene – o dovrebbe saper bene – la Regione Toscana che nella piana campese ha speso molti milioni di euro per mettere “in sicurezza” un territorio che ora l’ampiamento dell’Aeroporto vanificherebbe con un’ulteriore impermeabilizzazione del territorio.
Secondo i fan del progetto, l’allungamento della pista permetterebbe l’atterraggio degli ATR 72 che alimenterebbero così il traffico turistico. Si dimentica che il traffico turistico aereo che ha l’Elba come destinazione potrebbe essere soddisfatto da un adeguato collegamento/navetta veloce fra Pisa e Piombino coincidente finalmente (e davvero) con alcune navi in partenza o in arrivo con costi, per i contribuenti, infinitamente minori e con una positiva ricaduta anche sulle esigenze degli stessi elbani. Si dimentica inoltre che gli ATR verrebbero impiegati per un massimo di 8/10 settimane all’anno. Nelle altre 40 la continuità territoriale aerea dovrebbe essere garantita dagli stessi aeromobili che lo hanno fatto finora. Ciliegina sulla torta, l’obiettivo di tutto questo ambaradan è di raggiungere i 20.000 passeggeri annui (fra andata e ritorno), una frazione infinitesimale del turismo che attualmente frequenta la nostra isola e che rappresenta il numero già raggiunto nel 2015, con l’attuale pista. Allora a che serve allungare la pista?
A quanto pare i campesi saranno chiamati a votare in un referendum sul sì o il no all’aeroporto (cioè a questo progetto di aeroporto), ma deve essere chiaro che andranno a votare su un progetto fatto e finanziato da chi vuole fare  il lavoro, quindi non da enti pubblici e per interesse pubblico.
E veniamo ai costi. Il costo valutato del progetto di ampliamento è di 18 milioni di euro. Il costo reale a fine opera, visti gli aumenti intervenuti in questi anni e la normale levitazione “all’italiana” dei costi in corso d’opera sarà probabilmente oltre i 35/40 milioni. A questi sono da aggiungersi gli espropri forzati oltre agli indennizzi dei residenti nelle case che andrebbero demolite. Vi sono poi costi non ancora esplicitati, le dotazioni di manutenzione per gli ATR, serbatoi per il carburante e distaccamento dei Vigili del fuoco oltre a sistemi di sicurezza da implementare. Il tutto per portare all’Elba poche decine di bus con le ali e scaricando sui contribuenti i costi, mentre l’affare – anche abbastanza limitato – lo faranno davvero solo pochi privati.
Un pessimo affare, in particolare per gli elbani.  E’ abbastanza incredibile che in un’isola servita da traghetti vetusti e inquinanti, a volte vere e proprie carrette dei mari, ormai superati secondo le direttive europee e le normative internazionali, si pensi a spendere cifre gigantesche in un aeroporto che porterà – forse - poche migliaia di turisti mentre gli investimenti andrebbero destinati al rinnovo della continuità territoriale marittima con navi in grado di assicurare il servizio anche in condizioni meteo marine perturbate nella stagione invernale e collegamenti multimodali (mare/rotaia o mare/strada) con Livorno, Pisa e Firenze e, non ultimo, con il finanziamento di un Trasporto Pubblico Locale finalmente in grado di scoraggiare i residenti e i turisti dall’impiego massivo delle auto private. Invece la Regione Toscana sembra voler tagliare all’Elba tratte dei bus che portano a diverse frazioni elbane, comprese alcune campesi.
Alla Regione Toscana chiediamo di rivedere le sue priorità sui trasporti puntando innanzitutto a soddisfare i reali bisogni degli elbani e dei turisti non ripetendo il disastro monopolistico combinato con la privatizzazione della Toremar.
La continuità territoriale è un diritto della cittadinanza e non un'arma di ricatto per convincere gli amministratori comunali e gli elbani ad accettare un'opera infrastrutturale che sconvolge il territorio dell'isola per far atterrare pochi bus con le ali.
Il ricatto o ampliamento o chiusura dell’aeroporto non funziona perché a dirlo sono le stesse cifre su passeggeri e traffico fornite a da Alatoscana. L’aeroporto può fare – ed ha fatto – quei numeri così come è, e potrà continuare a farli. magari con un minimo restyling e adeguamenti infrastrutturale. Inoltre, è abbastanza strano che si punti a ampliare l’aeroporto con un impatto ambientale e urbanistico insostenibile mentre altri Paesi – e la stessa Ue – stanno discutendo di sopprimere le tratte minori raggiungibili con 2 – 4 ore di treno.
La Regione e i Comuni se vogliono davvero dare agli elbani dei trasporti moderni, avveniristici e sostenibili devono puntare sul trasporto pubblico, su traghetti non inquinanti e puntuali e su collegamenti ferroviari numerosi, rapidi, con coincidenze certe, che non lascino gli elbani e i turisti a terra mentre parte il traghetto per l’Elba o il bus e il treno per Campiglia Marittima.
In un’isola – e in una regione – che non ce la fa nemmeno a garantire questi diritti di base (più volte promessi con impegni solenni), l’ampiamento dell’aeroporto sembra la fuga in avanti verso un nuovo fallimento economico e trasportistico. Non è così che si fanno gli interessi dell’Elba, del suo ambiente, della sua economia e del suo futuro sostenibile.
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Biden approva il Willow project. Estrazione di petrolio e gas nel territorio protetto dell’Alaska

Biden approva il Willow project 0

Il dipartimento degli interni Usa ha approvato il Willow project, una contestaa concessione di licenze di trivellazione di idrocarburi avanzata da  ConocoPhillip sul North Slope dell'Alaska. In base al piano approvato dall'amministrazione Biden, ConocoPhillips sarà autorizzata a sviluppare tre pozzi (ne aveva chiesti 5), in uno dei più grandi progetti di estrazione di petrolio e gas su terreni pubblici federali e potrebbe emettere circa 287 milioni di tonnellate di inquinamento da carbonio nei prossimi 30 anni, equivalenti alla riattivazione di un terzo di tutte le centrali a carbone negli Stati Uniti. La decisione arriva dopo che, il giorno prima. l'amministrazione Biden aveva annunciato nuove protezioni per le terre e le acque artiche, vietando le trivellazioni di petrolio e gas su milioni di acri della National Petroleum Reserve-Alaska e del Mare Artico.
Le associazioni ambientaliste, le comunità indigene e diversi parlamentari democratici si erano opposti al controverso progetto Willow, una "bomba di carbonio" che bloccherebbe per decenni gli sforezi Usa per uscire dai combustibili fossili. Ben Jealous, direttore esecutivo del Sierra Club, la più grande associazione ambientalista Usa (molto vicina ai democratici) ha duramente criticato la decisione: «Non possiamo trivellare la nostra strada verso un futuro sostenibile. Dobbiamo conservare le terre pubbliche, non svenderle alle multinazionali che inquinano. Gli effetti dannosi della decisione del presidente Biden non possono essere sottovalutati. Consentendo a ConocoPhillips di portare avanti questa operazione, lui e la sua amministrazione hanno reso quasi impossibile raggiungere gli obiettivi climatici che si erano prefissati per i terreni pubblici. Willow sarà una delle più grandi operazioni di petrolio e gas su terreni pubblici federali del Paese e l'inquinamento di carbonio che rilascerà nell'aria avrà effetti devastanti per le nostre comunità, la fauna selvatica e il clima. Ne subiremo le conseguenze per i decenni a venire. Mentre celebriamo le protezioni senza precedenti dell'amministrazione per i territori e le acque dell'Alaska, la decisione di approvare il progetto Willow potrebbe benissimo spazzare via molti di questi benefici climatici ed ecologici. E approvando uno dei più grandi progetti di estrazione di petrolio e gas su terreni pubblici federali, ci si deve porre la domanda su cosa ha in serbo l'amministrazione Biden per l'Arctic Refuge».
Anche People vs. Fossil Fuels, una coalizione nazionale di oltre 1.200 organizzazioni in prima linea, per la giustizia climatica e progressiste – tra le quali quelle indigena di Sovereign Iñupiat for a Living Arctic e l’ Alaska Wilderness League  - ha condannato fermamente l'amministrazione Biden per la sua decisione di approvare il Willow Oil Drilling Project che è stato fortemente osteggiato dalla comunità della giustizia ambientale e climatica, Secondo la coalizione, «La decisione ignora l'opposizione diffusa che è cresciuta rapidamente dal 1° febbraio, quando l'amministrazione Biden ha segnalato che avrebbe approvato il progetto nel rilascio della sua dichiarazione finale sull'impatto ambientale». Nel mese successivo, oltre 2,3 milioni di nuove osservazioni sono stati presentati alla Casa Bianca, sollecitando il presidente Biden a negare il progetto. I video #StopWillow di una vasta gamma di giovani creativi  sono diventati virali online, con oltre 200 milioni di visualizzazioni stimate sulle piattaforme social.
Per People vs. Fossil Fuels, «Il Willow Oil Project ci blocca in decenni di inquinamento da combustibili fossili in un momento in cui abbiamo un disperato bisogno di fermare tutti i nuovi progetti di combustibili fossili e iniziare rapidamente a eliminare gradualmente la produzione esistente. L'approvazione è una negazione della scienza climatica e contraddice direttamente l'impegno dell'amministrazione di proteggere le aree selvagge dell'Alaska dall'estrazione di risorse e gli obiettivi climatici dichiarati da Biden».
La coalizione della quale fa parte anche Greenpeace Usa evidenzia che «Gli scienziati globali sono stati assolutamente chiari: dobbiamo porre fine all'espansione dei combustibili fossili se vogliamo evitare una devastazione climatica irreversibile e danni immediati alle comunità in prima linea. L'approvazione di un nuovo imponente progetto di trivellazione petrolifera che si stima rilascerà 280 milioni di tonnellate di gas serra quando siamo già in un'emergenza climatica sta segnando il nostro futuro.  poteri presidenziali di Biden gli consentono di rifiutare tutti i nuovi progetti sui combustibili fossili e dichiarare un'emergenza climatica che garantirebbe la sopravvivenza delle nostre comunità e del nostro pianeta. Invece, sta scegliendo di ingrassare i portafogli degli amministratori delegati del petrolio espandendo l'infrastruttura dei combustibili fossili che ci spingerà ulteriormente nel caos climatico. La lotta per #StopWillow e tutti i nuovi progetti sui combustibili fossili non è finita. Il nostro movimento per combattere i fossili continua a crescere e continueremo a lottare per un futuro vivibile in linea con la scienza e la giustizia».
Christy Goldfuss, chief policy impact officer del Natural Resources Defense Council, conclude: «Questo è un grave errore. Dà il via libera a una bomba al carbonio, frena la lotta per il clima e incoraggia un'industria decisa a distruggere il pianeta. E’ sbagliato per il clima e sbagliato per il Paese. Willow è un progetto fuori dal tempo. Con la scienza che chiede di porre fine ai combustibili fossili, questo ci blocca in decenni di maggiore dipendenza dal petrolio. Con la crisi climatica che peggiora di giorno in giorno, questo ha la stessa impronta di carbonio annuale di circa 1,1 milioni di case, più di quelle di Chicago. Con gli investimenti nell’energia pulita che guidano un rinascimento manifatturiero, questo progetto riporta il nostro futuro ai carburanti del passato. Prenderemo in considerazione ogni strumento appropriato nella nostra continua lotta per fermare la bomba climatica di Willow».
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Le temperature del mare determinano la distribuzione dei pesci europei

Le temperature del mare determinano la distribuzione dei pesci

Lo studio “Sea temperature is the primary driver of recent and predicted fish community structure across Northeast Atlantic shelf sea”, pubblicato su Global Change Biology da un team di ricercatori britannici e norvregesi ha analizzato il mare in una vasta area che si estende dal Portogallo meridionale alla Norvegia settentrionale evidenziando  l'importanza della temperatura nel determinare dove si trovano le specie ittiche. I ricercatori dicono che «Confermando la temperatura come fattore chiave della variazione spaziale su larga scala negli assemblaggi ittici, lo studio è stato in grado di utilizzare le proiezioni climatiche future per prevedere dove le specie saranno più comuni entro il 2050 e il 2100».
Lo studio, finanziato dal Natural Environment Research Council [NERC] e dall'Office for Science del governo del Regno Unito, che ha incluso 198 specie di pesci marini provenienti da 23 sondaggi e 31.502 campioni raccolti da scienziati della pesca tra il 2005 e il 2018, è  il primo del suo genere a utilizzare i dati delle indagini sulla pesca su un'area così vasta per valutare in che modo le variazioni ambientali determinano la distribuzione delle specie e i risultati dimostrano che «Nel complesso, i maggiori cambiamenti a livello di comunità sono previsti in luoghi con maggiore riscaldamento, con gli effetti più pronunciati più a nord, a latitudini più elevate».
Martin Genner , professore di ecologia evolutiva presso la School of Biological Sciences dell'Università di Bristol , che ha guidato la ricerca, hasottolineato che «Questo studio unico riunisce i dati delle indagini sulla pesca provenienti da questo ecosistema marino di vitale importanza. Utilizzando queste informazioni, siamo in grado di dimostrare in modo conclusivo l'importanza su larga scala della temperatura del mare nel controllare il modo in cui si assemblano le comunità ittiche».
L’autrice principale dello studio, Louise Rutterford del Centre for Environment Fisheries and Aquaculture Science (Cefas) e delle università di Exeter e Bristol, Bristol, evidenzia che «L'analisi del team ha dimostrato come la temperatura si sia rivelata la variabile più critica per determinare dove si trovano le specie, con la profondità dell'acqua e la salinità che sono anche fattori importanti. Questo ci ha permesso di utilizzare modelli predittivi per saperne di più su come i pesci risponderanno al riscaldamento climatico nei prossimi decenni».
Steve Simpson delle università di Exeter e Gristol, che ha supervisionato la ricerca, conclude: «Lo studio si aggiunge a un numero crescente di prove che indicano che il futuro riscaldamento causato dal clima porterà a cambiamenti diffusi nelle comunità ittiche, con conseguenti potenziali modifiche alle catture della pesca commerciale in tutta la regione».
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Al via la stagione 2023 dei campi di volontariato con Legambiente

campi di volontariato con Legambiente

A Pasqua si inaugura la nuova stagione dei campi di volontariato organizzati da Legambiente, in Italia e all’estero, per adulti (dai 18 anni), ragazzi (15-17 anni) e famiglie, cioè bambini (4-13 anni) accompagnati da uno o più adulti. Diverse le proposte del Cigno Verde, la maggior parte per il periodo che va da giugno a settembre. Un’occasione unica per sentirsi cittadini attivi, mettersi in gioco, dando un contributo concreto alla salvaguardia del territorio, all’insegna della giustizia sociale e climatica, della tutela di ambiente, paesaggio e biodiversità; con workshop dedicati e momenti formativi e di citizen science, come nei campi costieri con attività di raccolta e catalogazione dei rifiuti spiaggiati secondo il protocollo europeo del Beach Litter.
In Italia, per esempio, gli adulti possono in Abruzzo occuparsi del recupero e della valorizzazione delle architetture spontanee in pietra a secco e dei sentieri, parte delle antiche vie tratturali: opere murarie e infrastrutture legate alla storia millenaria degli agricoltori e dei pastori sulle montagne, e alla tradizione della transumanza, inserita dall'UNESCO nella Lista del Patrimonio Culturale Immateriale. O decidere di partecipare in Toscana, ai due campi di volontariato - organizzati nella tenuta di San Rossore a Pisa e nel Parco Regionale Migliarino, San Rossore, Massaciuccoli - per preservare e recuperare gli ambienti naturali di una delle zone umide più importanti del Tirreno, con attività di sentieristica, pulizia e monitoraggio della flora invasiva. O ancora optare per un’estate in Sicilia, nella suggestiva Isola di Lampedusa (AG) per la tutela della spiaggia dei Conigli, un delicato ambiente costiero, e per la protezione e la sorveglianza dei nidi della tartaruga Caretta caretta.
Gli adulti e i ragazzi possono regalarsi un’esperienza di volontariato in Sardegna, nella penisola del Sinis, in collaborazione con l’Area Marina Protetta Penisola del Sinis – Isola di Mal di Ventre, per sensibilizzare e informare turisti e cittadini sulla corretta fruizione delle spiagge. O di prendere parte ai numerosi campi di volontariato, dal Cilento in Campania alla costa degli Etruschi in Toscana, in collaborazione con ASD Swimtrekking, con attività di nuoto esplorativo e raccolta di rifiuti presenti in mare. E ancora in Puglia, i ragazzi possono scegliere Gallipoli (LE) per i campi di volontariato sull’antincendio boschivo e sulle dinamiche naturali e antropiche del sistema costiero. Infine, per le famiglie, in Molise e in Abruzzo, l'associazione ambientalista ha pensato ad una ricca offerta di attività dedicate ai bambini, agli adulti e da poter fare insieme. Queste solo alcune delle proposte attive e che si arricchiranno nel corso dei mesi.
Non solo attività nelle diverse regioni italiane. Legambiente propone centinaia di campi all’estero, grazie alla collaborazione con altre organizzazioni di volontariato: in Europa, ma anche in Asia, America centrale e meridionale e in Africa.
Per avere maggiori informazioni e iscriversi ai campi è possibile consultare le varie sezioni del sito del volontariato di Legambiente, suddiviso per categorie. Per aderire ai campi organizzati dall’associazione ambientalista sono previste una quota di partecipazione (comprensiva di vitto e alloggio), che serve a coprire le spese del settore Volontariato, e la sottoscrizione della tessera soci di Legambiente che dà diritto anche alla copertura assicurativa. Il numero di partecipanti previsti per ciascun campo è limitato e l’iscrizione è possibile fino a esaurimento posti.
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Imprese agricole ed energie rinnovabili: pochi investimenti

Imprese agricole ed energie rinnovabili

Secondo lo studio “Analyzing the land and labour productivity of farms producing renewable energy: the Italian case study”, punbblicato sul Journal of Productivity Analysis da Antonella Bassoe Maria Bruna Zolin,  professoresse di matematica applicata ed economia agraria all’Università Ca’ Foscari Venezia, che ha analizzato i dati di quasi 10mila aziende agricole italiane, «Il binomio agricoltura e rinnovabili può portare benefici economici concreti alle aziende agricole. Tuttavia, integrare l’attività zootecnica o agricola con la produzione di energia green è ad oggi un’opportunità sfruttata solo dal 7,2% delle imprese del settore. Le rimanenti 9.216 aziende agricole, pari al 92,8% del nostro campione, non producono rinnovabili, evidenziando il grande potenziale del comparto agricolo per contribuire alla crescita sostenibile».
La Basso e la Zolin hanno analizzato i dati del database europeo Rete di Informazione Contabile Agricola (RICA), in particolare, i risultati di un questionario del 2018 che coinvolse 10.386 aziende italiane. Nello studio sono state prese in considerazione le aziende del settore agricolo italiano con una produzione tra un minimo di 8.000 e un massimo di 10 milioni di euro e un’area utilizzata superiore ad 1 ettaro di terreno. In totale sono state prese in considerazione 9.927 aziende agricole.
Lo studio mette a confronto la produttività della forza lavoro e della terra delle aziende produttrici di energie rinnovabili e di quelle non produttrici. Per produttività viene intesa la resa, misurata in euro, per ogni unità di lavoro o di terreno e ne viene fuori che «La produttività media del terreno ammonta a 11.672 per le aziende non produttrici di rinnovabili. Soltanto prendendo in considerazione le aziende produttrici di energie rinnovabili nel loro complesso la media è di 12.552 euro. Tuttavia, prendendo in considerazione solo le produttrici di biogas la produttività media sale a ben 30.676 (+162,81 %). La produttività media della forza lavoro è di 56.279 euro nelle aziende prive di impianti a rinnovabili. Si tocca una produttività media di 83.092 euro per le aziende produttrici di energie rinnovabili e di 85.752 euro. Questa produttività sale del +52,37% per le aziende produttrici di energia solare».
Per le due autrici dello studio, «I risultati economici dimostrano come, specialmente nel caso della produzione di biogas e di energia solare, questa attività aggiuntiva generi risultati economici superiori nelle aziende produttrici di energie rinnovabili rispetto a quelle che non lo sono. Tuttavia, ci sono dei colli di bottiglia: ci sono molte barriere che ostacolano la produzione e il conseguente uso di energie rinnovabili nell’agricoltura. In primis questioni finanziarie, tecniche, sociali e regolatorie relative alle risorse naturali».
La Basso e la Zolin concludono facendo notare che «Risulta molto importante il possibile conflitto fra sicurezza alimentare e sicurezza energetica. Attualmente le normative italiane prevedono che la prima abbia precedenza sulla seconda, preferendo dunque la produzione alimentare a quella energetica. Una soluzione, suggeriscono le ricercatrici, è quella di utilizzare i terreni abbandonati, al fine di evitare un possibile conflitto tra i due tipi di produzione».
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