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Qual è lo stato dei boschi in Toscana?

lo stato dei boschi in Toscana
Un convegno regionale per fare il punto sullo stato dei boschi nella nostra regione organizzato da Legambiente Toscana, per fare il punto sulla copertura boschiva, parlare di manutenzione, legislazione nazionale e gestione sostenibile. Si tratta di Boschi in Toscana: il pomeriggio di dibattito che avrà luogo alla Casa del Popolo dell’Impruneta, sabato 18 marzo dalle ore 15 alle ore 19. Tanti gli ospiti in programma per affrontare il dibattito sulla copertura forestale in Toscana, una delle regioni con la maggior copertura forestale nazionale. Il convegno si aprirà alle ore 15 con l’introduzione del presidente regionale di Legambiente Toscana, Fausto Ferruzza e Simone Secchi, presidente Legambiente Chianti Fiorentino. Crisi climatica, dati sulla copertura forestale e aspetti legislativi saranno al centro della prima sessione del convegno che vedrà gli interventi di Bernardo Gozzini, amministratore unico del Lamma, Raffaello Giannini referente foreste dell’Accademia dei Georgofili. Si racconteranno i boschi messi alla prova dall’aumento delle temperature, dall’abbandono delle montagne, da incendi e dissesto idrogeologico. Poi, si approfondirà il contesto legislativo regionale con Nicoletta Ferrucci, docente ordinaria di Diritto Forestale e Ambientale di Unifi. Il convegno continuerà con una seconda sessione sulla gestione dei boschi e dei servizi ecosistemici, approfondendo il dibattito su criticità, diverse posizioni e proposte. A partire dall’intervento di Paolo Mori, amministratore unico della Compagnia delle Foreste su manutenzione boschiva e relative problematiche e Giuseppe Vignali, direttore Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano. In seguito, si passerà al tema della certificazione d’impresa, con Antonio Brunori segretario generale della PEFC Italia e le aziende che lavorano nell’ambito di tagli boschivi, con Sandro Orlandini, Vice Presidente regionale CIA/agricoltori italiani e poi continuare con il punto sulle inchieste su illeciti forestali, condotte dal gruppo CC Forestale di Firenze con il Comandante Luigi Bartolozzi. Un programma che si concluderà con un dibattito sui diversi punti di vista relativi alla gestione sostenibile dei boschi. L'articolo Qual è lo stato dei boschi in Toscana? sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

L’Arabia Saudita minaccia l’embargo petrolifero in caso di prezzo massimo alle esportazioni di petrolio

LArabia Saudita minaccia lembargo petrolifero
Rispondendo a una domanda di Energy Intelligence sulla reintroduzione del disegno di legge Nopec da parte del Congresso Usa e sul tetto massimo del prezzo del petrolio russo imposto dal G7 e sulle potenziali implicazioni per il mercato petrolifero, il ministro dell'energia saudita, il principe Abdulaziz bin Salman, ha detto che «La legislazione Nopec e l'estensione del tetto massimo sono molto diverse, ma i loro potenziali impatti sul mercato petrolifero sono simili. Tali politiche aggiungono nuovi livelli di rischio e incertezza in un momento in cui sono più necessarie chiarezza e stabilità. Devo ribadire il punto di vista che ho reso noto ad agosto e settembre su come tali politiche aggraverebbero inevitabilmente l'instabilità e la volatilità del mercato e avrebbero un impatto negativo sull'industria petrolifera. Al contrario, Opec+ ha compiuto ogni sforzo ed è riuscita a portare stabilità e trasparenza significative al mercato petrolifero, soprattutto rispetto a tutti gli altri mercati delle materie prime. Il disegno di legge Nopec non riconosce l'importanza di detenere capacità inutilizzata e le conseguenze del mancato mantenimento di capacità inutilizzata sulla stabilità del mercato. Il Nopec minerebbe anche gli investimenti nella capacità petrolifera e causerebbe un calo dell'offerta globale molto inferiore alla domanda futura. Gli impatti si faranno sentire in tutto il mondo sia sui produttori che sui consumatori, così come sull'industria petrolifera». Dopo l’accordo con l’Iran mediato dalla Cina, l’Arabia saudita ha cambiato idea anche sulle sanzioni e bin Salman avverte che, «Lo stesso vale per i massimali di prezzo, siano essi imposti a un Paese o a un gruppo di Paesi, al petrolio o a qualsiasi altra merce. Ciò porterà a contro-risposte singole o collettive con conseguenze intollerabili sotto forma di massiccia volatilità e instabilità. Quindi, se venisse imposto un prezzo massimo alle esportazioni di petrolio saudita, non venderemo petrolio a nessun Paese che impone un prezzo massimo alla nostra offerta e ridurremo la produzione di petrolio, e non sarei sorpreso se altri facessero lo stesso». Non a caso l’intervista di bin Salman a  Energy Intelligence è stata rilanciata con grande rilievo dai media russi e iraniani. Lo scenario è quello di una nuova crisi petrolifera in stile austerity anni ’70 e il ministro dell’energia saudita manda a dire a statunitensi ed europei che «La capacità inutilizzata e le scorte di emergenza globali sono la rete di sicurezza definitiva per il mercato petrolifero di fronte a potenziali shock. Ho ripetutamente avvertito che la crescita della domanda globale supererà l'attuale capacità di riserva globale, mentre le riserve di emergenza sono ai minimi storici. Ecco perché è fondamentale che vengano messe in atto politiche per sostenere gli investimenti necessari per aumentare la capacità inutilizzata in modo tempestivo e che le scorte di emergenza globali siano mantenute a un livello adeguato e confortevole. In Arabia Saudita, abbiamo avviato in modo proattivo l'espansione della nostra capacità a 13,3 milioni di barili al giorno entro il 2027. L'espansione è già in corso nella fase di ingegneria e il primo incremento dovrebbe entrare in funzione nel 2025». Intanto prosegue il riavvicinamento tra l’Iran e le monarchie petrolifere assolute sunnite del Golfo: domani il segretario del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale della Repubblica islamica dell’Iran, Ali Shamkhani, sarà negli Emirati Arabi Uniti per ricambiare la visita in Iran dello sceicco Tahnoun bin Zayed Al Nahyan, consigliere per la sicurezza nazionale degli Emirati. Pars Today spiega che dd accompagnare Shamkhani ci saranno  alti funzionari economici, bancari e della sicurezza che discuteranno le questioni di intresse comune, regionali e internazionali. Commentando l'accordo tra Iran e Arabia Saudita per riprendere le relazioni diplomatiche Il portavoce del governo iraniano, Ali Bahadori Jahromi, ha detto che «La soluzione alle questioni regionali e globali non viene dall'Occidente. Questo evento e il rilancio delle relazioni tra i due Paesi hanno dimostrato che la soluzione delle questioni regionali e globali non passa per la rotta occidentale. La politica estera del 13esimo governo iraniano è stata quella di sviluppare relazioni di vicinato e dare priorità alla politica di diplomazia regionale, e questo recente evento è stato nella stessa direzione, e anche i Paesi della regione hanno accolto con favore il rilancio delle relazioni tra Iran e Arabia Saudita». L'articolo L’Arabia Saudita minaccia l’embargo petrolifero in caso di prezzo massimo alle esportazioni di petrolio sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Dal Pnrr 550 milioni per sostenere l’innovazione delle startup

550 milioni per sostenere linnovazione delle startup
Il ministero delle imprese e del made in Italy ha annunciato che «Startup e piccole e medie imprese possono presentare progetti riguardanti la transizione ecologica e digitale, finanziati con risorse europee ricomprese nel PNRR per un ammontare di 550 milioni. L’obiettivo è stimolare la crescita del Paese tramite investimenti di capitale di rischio (venture capital diretti e indiretti)». I finanziamenti provengono dal Green Transition Fund (GTF), dotato di 250 milioni di euro, e dal Digital Transition Fund (DTF), dotato di 300 milioni, gestiti da CDP Venture Capital SGR per conto del ministero delle imprese e del Made in Italy, e sono compresi negli interventi PNRR “Supporto di startup e venture capital attivi nella transizione ecologica” e “Finanziamento di startup”. GTF e  DTF) sono due fondi che promuovono l'innovazione in Italia attraverso investimenti di capitale di rischio, investono, direttamente o indirettamente, in imprese attive negli ambiti della transizione ecologica o digitale con l’obiettivo di sostenere i processi di transizione con l’impegno di risorse PNRR e attivando capitali privati con competenze specifiche, in tutte le fasi di sviluppo di un’impresa. Il ministero sottolinea che «I progetti riguardanti la transizione verde potranno prevedere l’utilizzo di energia rinnovabile, mobilità sostenibile, efficienza energetica, economia circolare, mentre quelli legati alla transizione digitale dovranno interessare gli ambiti come l’Intelligenza Artificiale, l’Industria 4.0, la cybersicurezza, fintech e blockchain L’ente gestore selezionerà le proposte di investimento conformemente a quanto previsto dalla politica di investimento dei Fondi e in linea con le best practice di mercato. Il 40% delle risorse saranno riservate agli investimenti (diretti e indiretti) da realizzare nelle regioni del Mezzogiorno».   L'articolo Dal Pnrr 550 milioni per sostenere l’innovazione delle startup sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

In Trentino Alto Adige trend negativi per le nevicate negli ultimi 40 anni

Nevicate trentino
Lo studio “Diverging snowfall trends across months and elevation in the northeastern Italian Alps”, pubblicato sull’International Journal of Climatology da Giacomo Bertoldi, Michele Bozzoli e Alice Crespi di Eurac Research  e da Michael Matiu, Lorenzo Giovannini, Dino Zardi e Bruno Majone dell’università di Trento, ha collezionato i dati storici sulle precipitazioni nevose delle Provincie autonome di Bolzano e Tren to e  dell’associazione Meteo Trentino Alto Adige e li ha interpretati in base a fasce di quota e ad altri parametri climatici e «I risultati delle analisi mostrano come in generale i trend delle nevicate dal 1980 al 2020 sono diffusamente negativi in tutto il Trentino Alto Adige, con picchi fino a meno 75%. I dati più negativi si registrano a inizio e fine stagione; solo nel cuore dell’inverno, tra gennaio e febbraio, e attorno 2.000 metri di quota, le nevicate sono stabili o addirittura in crescita in poche stazioni di misurazione come quelle dei passi Rolle e Tonale, che registrano un aumento attorno al 15%. Nei fondovalle la mancanza di neve, pur non danneggiando direttamente l’economia dello sci, ha comunque cambiato del tutto la percezione dell’inverno. Ovunque si registra un aumento delle temperature medie, con picchi fino a 3 gradi». ;Ma anche i pochi casi di trend positivi delle nevicate, a quote attorno o superiori ai 2.000 metri, sono da ricondurre al fatto che, nonostante un aumento della temperatura, è ancora sufficientemente freddo perché le precipitazioni avvengano sottoforma di neve.  «Per esempio – evidenziano i ricercatori - anche se ai passi Rolle e Tonale le temperature sono cresciute in media rispettivamente di circa 1,5 e 2,3 gradi, l’aumento delle precipitazioni ha portato a un aumento dell’accumulo di neve fresca rispettivamente del 16 e 17%». Tra il 1980 e il 2020 la neve fresca accumulata per stagione, cioè la somma dei centimetri di neve che cadono tra ottobre e aprile, è diminuita del 75% nella città di Bolzano e del 46%  a Trento. Ma se nei capoluoghi di provincia la mancanza di neve è sotto gli occhi di tutti oramai da anni – tanto che le rare nevicate occupano spesso le prime pagine dei giornali – a preoccupare di più i ricercatori sono i numeri negativi di altre località.  Bertoldi e Bozzoli sottolineano che «A San Candido le nevicate sono diminuite del 26%, a Andalo del 21%  e a Rabbi del 29%. L’impatto visivo è meno forte perché parliamo di posti dove l’accumulo medio di neve fresca rimane comunque sopra il metro, ma queste diminuzioni hanno conseguenze gravi per le falde acquifere, la disponibilità di acqua e dunque tutte le attività umane che ne hanno bisogno». Per i ricercatori è colpa del cambiamento climatico: «L’aumento medio della temperatura nelle 18 stazioni che abbiamo selezionato è di 1,54 gradi. Per il caldo le precipitazioni rimangono perlopiù sottoforma liquida, soprattutto alle quote più basse, perché non c’è abbastanza freddo per trasformarsi in neve». Bertoldi  conclude: «Infatti, il bilancio totale delle precipitazioni stagionali in 40 anni non è negativo: «Anzi, ovunque sono aumentate, ma per lo più sottoforma di pioggia, e questo aspetto è solo parzialmente rassicurante. Infatti, anche se statisticamente non sembrano aumentare gli inverni secchi come questo o il precedente – e questo è indispensabile per avere abbastanza acqua – il passaggio da neve a pioggia ha conseguenze negative non solo per le attività sciistiche. La neve è fondamentale perché protegge i ghiacciai e il terreno ostacolando l’evaporazione e, sciogliendosi lentamente in primavera, ricostituisce gradualmente le riserve di acqua. Senza neve il rischio siccità è maggiore». L'articolo In Trentino Alto Adige trend negativi per le nevicate negli ultimi 40 anni sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Lo stato della sicurezza alimentare e della nutrizione in Europa e Asia centrale

sicurezza alimentare e della nutrizione in Europa e Asia centrale
Secondo il rapporto “Europe and Central Asia – Regional Overview of Food Security and Nutrition 2022” pubblicato da Fao, International Fund for Agricultural Development (IFAD), Unicef, United Nations Development Programme (UNDP), United Nations Economic Commission for Europe (UNECE), World Food Programme (WFP); Regional Office for Europe dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e World metorological organization (Wmo), «In Europa e Asia centrale, la pandemia Covid-19 tutt’ora in corso e la guerra in Ucraina mettono in pericolo la sicurezza alimentare e il diritto a un’alimentazione sana. I prezzi dei generi alimentari sono saliti alle stelle, rendendo difficoltoso per i responsabili delle decisioni garantire l’obiettivo di non lasciare indietro nessuno». Ma il rapporto evidenzia anche che «I dati e le tendenze degli ultimi anni tratteggiano un quadro della sicurezza alimentare e della nutrizione perlopiù incoraggiante in Europa e Asia centrale. In generale, la regione versa in condizioni migliori rispetto ad altre aree del mondo, benché siano necessari miglioramenti per evitare battute d’arresto». Il rapporto elaborato dalle 8 agenzie Onu fornisce indicazioni preziose per aiutare a far fronte a questa situazione e contiene informazioni e analisi aggiornate sui trend a livello regionale e sui progressi compiuti verso il conseguimento dell’Obiettivo di sviluppo sostenibile (SDG) “Fame zero”. Inoltre, riporta studi sulla definizione di «Quadri strategici che consentano di favorire l’accesso a un’alimentazione sana e di rendere i sistemi agroalimentari più sostenibili dal punto di vista ambientale nella regione di Europa e Asia centrale». Le agenzie Onu sottolineano che «Avvalendosi dei dati e delle raccomandazioni contenuti nel rapporto, i paesi dovrebbero essere nelle condizioni di fornire assistenza ai piccoli agricoltori, alle comunità rurali e a tutti gli attori della filiera alimentare, nonché di sostenere le fasce povere e vulnerabili della popolazione tramite programmi olistici, secondo quanto previsto negli SDG. Come per le precedenti edizioni della Rassegna regionale della sicurezza alimentare e della nutrizione in Europa e Asia centrale, ci auguriamo che il rapporto fornisca conoscenze e riscontri preziosi e contribuisca a individuare alternative per un dialogo consapevole e un'azione concertata da parte di tutti i partner, in un contesto di piena collaborazione, tesa ad accelerare i progressi verso l’obiettivo della fame zero e dell’accesso a un’alimentazione sana in Europa e Asia centrale». Il rapporto evidenzia che «La prevalenza della sottoalimentazione nel mondo è salita al 9,9% nel 2020 e, da allora, non ha smesso di crescere, mentre negli oltre 50 Paesi dell’Europa e dell’Asia centrale la media è rimasta al di sotto del 2,5% negli ultimi anni. Inoltre, sebbene in alcune zone della regione (Caucaso, Asia centrale e Balcani occidentali) la porzione di popolazione classificata come sottonutrita sia in aumento, e non si prevedano inversioni di rotta, la media regionale dovrebbe attestarsi al di sotto del 2,5%». Dopo un brusco rialzo nel 2020, la prevalenza regionale dell’insicurezza alimentare moderata o grave è tornata a salire dall’11,% nel 2020 al 12,4% nel 2021, un dato che  secondo il rapporto «Riflette un deterioramento della situazione per le persone che si trovano in gravi difficoltà a causa della pandemia Covid-19. Nel complesso, nel 2021, circa 116,3 milioni di persone, nella regione, versavano in condizioni di insicurezza alimentare moderata o grave; di queste, 25,5 milioni sono stati segnalati in soli due anni. Il numero delle persone vittime dell’insicurezza alimentare grave, ossia che non hanno regolarmente accesso a una quantità sufficiente di cibo nutriente, ha subito un’accelerata, aumentando di oltre 13 milioni dal 2019 al 2021». Il dato positivo è che in Europa e Asia centrale,  «I ritardi della crescita (un basso rapporto tra età e altezza) e il deperimento (causato da un apporto insufficiente di nutrienti all’organismo) interessano, rispettivamente, il 7,3% e l’1,9% dei bambini di età inferiore ai 5 anni, mentre, nel resto del mondo, tali condizioni colpiscono un numero di bambini tre volte maggiore». Ma nella regione Europa e Asia centrale «Il sovrappeso e l’obesità continuano a essere fenomeni allarmanti, sia tra bambini che tra gli adulti, con dati superiori alla media globale». E il rapporto avverte che «A causa del rialzo dei prezzi dei prodotti alimentari, il costo di un’alimentazione sana è aumentato in quasi tutti i paesi dell’Europa e dell’Asia centrale. Nonostante ciò, ad eccezione di alcuni Paesi, la maggior parte della popolazione della regione (approssimativamente il 96,4%) ha potuto permettersi un’alimentazione sana, rispetto alla media del 58% della popolazione mondiale nel 2020. Alcuni Paesi importatori netti e a basso e medio reddito della regione (tra cui Armenia, Kirghizistan e Tagikistan) hanno una percentuale molto alta di popolazione (oltre il 40%) che non può permettersi una dieta sana». Il rapporto ricorda che «I Paesi della regione si caratterizzano per livelli di sviluppo diversi, così come diverso è il sostegno finanziario che essi assicurano al settore alimentare e agricolo. Inoltre, la maggior parte di questi paesi, soprattutto quelli a medio reddito, sono stati particolarmente colpiti dalle criticità emerse di recente, a livello regionale e globale, e non possono fare affidamento su maggiori capacità di investimento nei sistemi agroalimentari, come ricetta per superare la crisi». Per questo le agenzie Onu evidenziano che «Occorre rimodulare le politiche alimentari e agricole, in modo da renderle più adatte ad affrontare la “triplice sfida” a cui sono attualmente esposti i sistemi agroalimentari, vale a dire potenziare l'accesso a un’alimentazione sana, garantire mezzi di sostentamento migliori agli agricoltori e promuovere la sostenibilità ambientale. Per conseguire questo traguardo, non sarà sufficiente offrire incentivi fiscali ai singoli agricoltori, ma occorrerà ottimizzare i servizi generali, con interventi mirati nei settori della ricerca e dello sviluppo agricoli e dell’istruzione, con misure di espansione, con azioni di controllo di parassiti e malattie, con l’adozione di sistemi pubblici di controllo della sicurezza alimentare, nonché con la promozione di un'agricoltura climaticamente intelligente e di tecnologie e pratiche più efficienti in termini di emissioni». Secondo il rapporto, «Ripensando le attuali strutture di sostegno agricolo, sarà possibile incoraggiare anche il consumo di alimenti sani, primi fra tutti frutta, ortaggi e legumi. Nel definire il quadro per lo sviluppo di sistemi agroalimentari più sani, sostenibili, equi ed efficienti, non sarà, tuttavia, sufficiente limitarsi alle politiche agricole. Per avere azioni di rimodulazione degli obiettivi capaci di incidere nella regione, occorrerà, invece, ampliare lo spettro, fino a includere anche politiche complementari nel campo della sanità, della protezione sociale, del commercio e dell'ambiente. Soprattutto per quanto concerne la sostenibilità ambientale e una maggiore riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, i responsabili delle decisioni dovranno pensare in maniera olistica e facilitare l’applicazione di tecnologie e pratiche basate sulla scienza, climaticamente intelligenti ed efficienti dal punto di vista energetico lungo tutta la filiera agroalimentare». Il rapporto conclude: «Per avere successo, è fondamentale che tutti questi interventi tengano conto, in particolare, delle circostanze locali e rispettino il principio della partecipazione». L'articolo Lo stato della sicurezza alimentare e della nutrizione in Europa e Asia centrale sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Il valore economico della caccia italiana

Valore della caccia
Secondo lo studio “Il Valore dell’Attività Venatoria in Italia”, curato da Nomisma e presentato ieri dalla Federazione Italiana della Caccia in Senato,  il b calore ambientale della caccia in Italia è di un miliardo: «708 milioni di euro di valore naturale generati dal mantenimento delle aree umide, degli habitat e dalla tutela delle aree naturali protette resi possibili grazie a finanziamenti e gestione del mondo venatorio. 20 milioni di euro di valore agricolo derivanti dai risarcimenti agli agricoltori per danni da selvatici e/o per misure di prevenzione. 75 milioni di euro di risparmi derivanti dalla riduzione dell’impronta ecologica e idrica prodotte dalla filiera della carne».  E’ evidente il tentativo di far passare i danni all’agricoltura per risorse. La “pronta caccia” per gestione ambientale e il goffo tentativo di contrapporre la carne sostenibile di selvaggina a quella insostenibile degli animali di allevamento. Il tutto assicurando che «Il mondo venatorio, da tempo impegnato in un percorso di rafforzamento del proprio ruolo in chiave più etica e sostenibile, è in grado di generare un valore di circa 8,5 miliardi di euro annui per la collettività in termini economici e ambientali». Ma leggendo attentamente lo studio/rapporto/sondaggio (e distinguendo le pere dalle mele mischiate ad arte) viene fuori che il valore economico- sociale della caccia è in realtà molto ridotto e che i cacciatori spendono la grandissima parte di quelli che si vorrebbero far passare per generosi investimenti economico-ambientali  solo per armi, munizioni, abbigliamento, auto, cani, vacanze di caccia, ecc. e che, per difendere la carne di selvaggina, si mostra in realtà la crescita di contrarietà agli allenamenti intensivi soprattutto da parte della stessa fetta di opinione pubblica che è contraria alla caccia. Questo dei cacciatori di selvaggina fatta passare per carne “sana” e poco conosciuta come valida alternativa alla carne “industrializzata” è un cambiamento di immagine che i cacciatori danno di sé stessi: si passa dal cacciatore sportivo e disinteressato a rifornire sottobanco i ristoranti (attività spesso attribuita solo ai bracconieri, anche se la realtà è ben diversa) al cacciatore del nuovo corso politico italico che si fa fornitore del mercato della carne per risolvere il problema degli ungulati, un problema che ha creato una politica venatoria scellerata di immissioni e allevamenti che non viene messa in dubbio né dallo studio né dalle nuove politiche del governo Meloni-Lollobrigida-Pichetto Fratin. Il problema è che rifornire una filiera di mercato economicamente sostenibile bisogna mantenere il problema – cinghiali ad esempio – che si dice che sarà risolto con la caccia. Un cane che si morde la coda della sostenibilità sociale e ambientale. Ma si parte da una mutazione dei consumi verso un minor consumo di carne – evidente anche nello studio -  per   rilevare che «Tra i 45 milioni di maggiorenni che si nutrono di carne il 62% consuma anche selvaggina. Nella maggioranza dei casi si tratta di un consumo che avviene prevalentemente fuori casa (nel 39% dei casi al ristorante). Queste interessanti prospettive per la filiera alimentare della selvaggina sono rafforzate dal fatto che ben 23 milioni di consumatori italiani (il 51%) si dichiara pronto ad acquistarla per consumo domestico se fosse di più facile reperimento. Gli intervistati, inoltre, risultano particolarmente attenti e sensibili nell’attuare comportamenti sostenibili nelle proprie scelte alimentari. Rispetto alla carne acquistata, il 72% ritiene molto importante il fatto che presenti meno rischi per la salute e il 70% che provenga da una filiera tracciabile (sic!). Inoltre, il rispetto del benessere degli animali e dell’ambiente è ritenuto condizione imprescindibile dal 64% del campione, così come il 61% degli intervistati è attento al fatto che la carne non provenga da allevamenti intensivi. Il 47% considera importante che la carne acquistata sia naturale e provenga da animali selvatici e non di allevamento». Lo studio, che divide generosamente a metà gli italiani tra contrari e favorevoli alla caccia (altri sondaggi e studi danno una schiacciante percentuale di contrari), si lamenta però che sulla caccia «Di base è presente una forte disinformazione tanto che ben 2 italiani su 3 si dichiarano non sufficientemente informati sulla tematica e solo 1 intervistato su 10 afferma di conoscere appieno norme e disposizioni che ne regolano l’operato. Rispetto ai soggetti dai quali gli italiani vorrebbero ricevere informazioni, il 60% degli intervistati individua gli enti pubblici come realtà autorevole e adeguata a fornire tali informazioni». Peccato che gli enti pubblici facciano spesso disinformazione, come dimostrano le dichiarazione carpite al presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana durante un incontro coi cacciatori in campagna elettorale. Ma, per quanto edulcorato, anche lo studio/ricerca/sondaggio dice che gli italiani sono contrari alla caccia e che non ci vedono tutte queste ricadute economiche e sociali che vengono evidenziate da Federcaccia. Ma Marco Marcatili, responsabile sviluppo di Nomisma, la vede in tutt’altro modo è perllui il bicchiere venatori è più chre mezzo pieno: «Per la prima volta il sistema della caccia  decide di aprirsi alla società, ascoltare la comunità e avviare un dialogo aperto e trasparente con il mondo istituzionale, agricolo e ambientale. Il lavoro di Nomisma – spiega Marcatili – è, da un lato, rassicurante perché conferma la non ostilità alla caccia, anzi una inedita apertura della comunità a inserire più selvaggina sostenibile nella propria alimentazione; dall’altro lato, però, induce la Federazione Italiana della Caccia a una responsabilità aumentata in termini di maggiore informazione e disponibilità alla caccia etica e sostenibile. Non sono molte in Italia le attività che danno un contributo annuale di 1 miliardo in termini ambientali, l’impegno in questa direzione consentirà di traguardare opportunità derivanti dai nuovi scenari climatici, come il presidio dei territori fragili e il rafforzamento delle filiere nazionali sotto il profilo alimentare e occupazionale». Ma Nomisma ammette che dalla lettura dei risultati e delle interviste emergono anche aree di miglioramento meritevoli di attenzione. Come sia nato il sondaggio lo spiega bene il presidente nazionale di Federcaccia Massimo Buconi: «Abbiamo deciso di affidare a Nomisma un primo bilancio ambientale dell’attività venatoria in Italia al fine di misurare il reale valore generato per Comunità e Ambiente e indagare il percepito delle famiglie italiane sul nostro operato. Siamo certi che favorire una migliore comprensione delle dinamiche che regolano i rapporti tra caccia e società possa concorrere a un giusto riconoscimento del nostro ruolo e della nostra attività, alla luce degli effetti positivi derivanti da una caccia etica e sostenibile. I risultati mostrano un sistema importante già in essere testimoniando il nostro potenziale ruolo di attori nel processo di transizione ecologica, ma evidenziano alcune aree di miglioramento, su cui strutturare un percorso di confronto con fruitori, stakeholders e Istituzioni. Intendiamo proseguire in questa direzione di dialogo, in modo costante e incisivo». E, dopo le reiterate richieste di allungare i calendari venatori, sparare a specie protette, rigettare le normative europee, consentire la caccia nei Parchi Nazionale e nelle ZSC/ZPS, dopo che l’Italia risulta tra i peggiori pasesi del mondo per bracconaggio/abbattimento dell’avifauna migratoria.., è abbastanza spericolato che lo studio – sulla base di una senzazione di cittadini dei quali si ammette la scarsa conoscenza della materia -  nomini i cacciatori «“Sentinella del territorio” (o più tecnicamente “citizen as sensor”), in quanto soggetti volontari coinvolti nei programmi di monitoraggio delle risorse naturali per migliorarne la gestione e contribuire alla ricerca. Così come viene evidenziato il contributo che il mondo venatorio è in grado di rendere alla collettività attraverso programmi di gestione faunistica, tutela ambientale e sorveglianza sanitaria esercitata da cacciatori volontari». E qui il “successo” del ruolo svolto dalla caccia consumistica è evidente con la proliferazione dei cinghiali ibridati, la diffusione della peste suina, e l’immissione di specie alloctone e/o ibridate per la pronta caccia che hanno provocato l’estinzione locale di specie autoctone. E, viste  le proposte fatte fin qui dal mondo venatorio su calendari, aree protette, caccia ai grandi carnivori viene davvero da pensare che ci sia bisogno di ascoltare chi ritiene necessario di «Sostenere una “caccia etica”, che non solo rispetti i regolamenti ma, soprattutto, favorisca il contenimento e il controllo delle attività illegali, promuovendo e consolidando un ruolo attivo del cacciatore nella tutela di ambiente e habitat. Altro ambito di miglioramento è rappresentato dalla sensibilizzazione del sistema venatorio nel suo complesso sulle azioni di contenimento degli impatti ambientali e su un maggiore sviluppo di un modello di caccia che sia in equilibrio con la biodiversità. A livello organizzativo e gestionale, infine, il settore venatorio italiano può mirare a una dimensione adattiva che permetta di modulare prelievi di selvaggina sulla base di un principio di sostenibilità, potenziando il monitoraggio e la programmazione dei piani di caccia e di controllo. Ciò concorrerebbe a consolidare la compatibilità tra attività venatoria e conservazione della fauna e dell’ambiente». Ma la caccia etica – con buona pace dello studio Nimisma - Federcaccia - non è certamente quello di cui i cacciatori discutono con politici come Fontana. L'articolo Il valore economico della caccia italiana sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Le popolazioni di cigni che vivono nelle aree protette crescono 30 volte più velocemente

popolazioni di cigni che vivono nelle aree protette
I cigni selvatici (Cygnus cygnus) passano gli inverni nel Regno Unito e le estati in Islanda e, secondo lo studio “Demographic rates reveal the benefits of protected areas in a long-lived migratory bird”, pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences da un team di ricercatori britannici, islandesi e statunitensi «All'interno delle riserve naturali Le popolazioni di cigni selvatici crescono 30 volte più velocemente». Il nuovo studio ha esaminato 30 anni di dati sui cigni in 22 siti del Regno Unito, 3 dei quali sono riserve naturali gestite dal Wildfowl and Wetlands Trust (WWT) e ne è emerso che «I tassi di sopravvivenza erano significativamente più alti nelle riserve naturali e la crescita della popolazione era così forte che molti cigni si sono trasferiti in siti non protetti». Sulla base di questi risultati, il team di ricerca, guidato dalle università di Exeter e Helsinki, prevede che «Entro il 2030, le riserve naturali potrebbero contribuire a raddoppiare il numero di cigni selvatici che svernano nel Regno Unito». In realtà, i cigni che vivono nelle riserve naturali hanno una probabilità annuale di riproduzione inferiore, ma i ricercatori sottolineano che «Questi uccelli hanno più opportunità di riprodursi nel corso della vita e produrranno in media più prole». I risultati dello studio evidenziano «Il grande effetto che le riserve naturali possono avere sulla conservazione, anche quando le aree protette sono relativamente piccole e vengono utilizzate solo durante brevi periodi del ciclo di vita di una specie». Il principale autore dello studio, Andrea Soriano-Redondo, del Centre for ecology and conservation dell’università di Exeter e dell’Helsingin yliopisto , sottolinea che «Le aree protette sono lo strumento principale utilizzato per arginare il declino della biodiversità, e c'è un crescente consenso sul fatto che il 30% della superficie del pianeta dovrebbe essere protetto entro il 2030. Tuttavia, l'efficacia delle aree protette non è sempre chiara, soprattutto quando le specie si spostano per tutta la durata della loro vita tra aree protette e non protette. I nostri risultati forniscono una forte evidenza che le riserve naturali sono estremamente utili per i cigni selvatici e potrebbero far aumentare notevolmente il loro numero nel Regno Unito». Il dataset ultratrentennale utilizzato per realizzare lo studio, includeva osservazioni di oltre 10.000 cigni selvatici, il team di ricerca ha costruito un modello di popolazione che prevede che i numeri invernali potrebbero raddoppiare entro il 2030. Un altro autore dello studio, Richard Inger, un collega di Soriano-Redondo, aggiunge che «Il tasso di crescita annuale della popolazione all'interno delle riserve naturali è stato del 6%, rispetto allo 0,2% al di fuori delle riserve. Questo aumento della popolazione non è limitato alle riserve naturali: ha creato una maggiore densità di popolazione, che ha portato alcuni cigni a trasferirsi in aree non protette. I giovani cigni erano più propensi a farlo, il che significa che i benefici delle riserve naturali si estendono anche ad altre aree». L’autore senior dello studio, Stuart Bearhop dell'università di Exeter, conferma che «Nel complesso, il nostro studio dimostra gli enormi vantaggi della protezione localizzata per le specie animali altamente mobili. Dimostra anche che misure mirate durante i periodi chiave del ciclo di vita possono avere effetti sproporzionati sulla conservazione». Le riserve naturali del WWT comprese nello studio attuano una serie di misure per aiutare i cigni a svernare, tra le quali recinzioni anti-volpi, cibo supplementare, siti di riposo gestiti e divieti di caccia e David Pickett, center & reserve manager del WWT Caerlaverock Wetland Centre, conclude: «Questa ricerca mostra come i rifugi sicuri per la fauna selvatica delle zone umide, come quelli del WWT Caerlaverock, Welney e Martin Mere, possono aiutare una specie a sopravvivere e avere successo quando il loro siti tradizionali sono sotto minaccia. Molti uccelli selvatici fanno affidamento sui nostri siti per cibo e riparo e ci impegniamo a creare e ripristinare sempre più di questi habitat sani delle zone umide dei quali il Regno Unito ne ha persi così tanti nella nostra storia recente». L'articolo Le popolazioni di cigni che vivono nelle aree protette crescono 30 volte più velocemente sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Le sorprendenti somiglianze tra gli strumenti di pietra dei primi umani e delle scimmie

somiglianze tra gli strumenti di pietra dei primi umani e delle scimmie
Lo studio “Wild macaques challenge the origin of intentional tool production”, pubblicato su Science Advances da un team di ricercatori del Max-Planck-Institut für evolutionäre Anthropologie e della Chulalongkorn University di Bangkok e Saraburi, ha scoperto in Thailandia artefatti prodotti da scimmie che assomigliano a strumenti di pietra, che storicamente sono stati identificati come realizzati intenzionalmente dai primi ominidi. I ricercatori tedeschi sottolineano che «Fino ad ora, si pensava che gli strumenti di pietra affilati rappresentassero l'inizio della produzione intenzionale di strumenti di pietra, una delle caratteristiche distintive e uniche dell'evoluzione degli ominidi. Questo nuovo studio sfida le convinzioni di lunga data sulle origini della produzione intenzionale di strumenti nel nostro stesso lignaggio». La ricerca si basa su nuove analisi degli strumenti di pietra usati dai macachi cinomolghi o dalla coda lunga (Macaca fascicularis) nel Phang Nga National Park in Thailandia.  I ricercatori spiegano che «Queste scimmie usano strumenti di pietra per aprire noci dal guscio duro. In questo processo, le scimmie spesso rompono i loro martelli e le loro incudini. L’assemblaggio di pietre rotte che ne risulta è consistente e diffuso in tutto il territorio. Inoltre, molti di questi manufatti presentano tutte le stesse caratteristiche comunemente utilizzate per identificare strumenti di pietra realizzati intenzionalmente in alcuni dei primi siti archeologici dell'Africa orientale». Il principale autore dello studio, Tomos Proffitt del Max-Planck-Institut für evolutionäre Anthropologie, evidenzia che «La capacità di creare intenzionalmente scaglie di pietra affilate è vista come un punto cruciale nell'evoluzione degli ominidi, e capire come e quando ciò sia avvenuto è una domanda enorme che viene tipicamente indagata attraverso lo studio di manufatti e fossili del passato. Il nostro studio dimostra che la produzione di utensili in pietra non è esclusiva degli esseri umani e dei nostri antenati. Il fatto che questi macachi utilizzino strumenti di pietra per lavorare le noci non è sorprendente, poiché usano anche strumenti per accedere a vari molluschi. Ciò che è interessante è che, così facendo, producono accidentalmente una loro documentazione archeologica sostanziale che è in parte indistinguibile da alcuni manufatti degli ominidi». Confrontando i frammenti di pietra prodotti accidentalmente dai macachi con quelli di alcuni dei primi siti archeologici umani, i ricercatori sono stati in grado di dimostrare che «Molti dei manufatti prodotti dalle scimmie rientrano nella gamma di quelli comunemente associati ai primi ominidi». Il co-autore principale dello studio, Jonathan Reeves, sottolinea: «Il fatto che questi artefatti possano essere prodotti attraverso la rottura di noci ha implicazioni per la gamma di comportamenti che associamo a scaglie taglienti nella documentazione archeologica...» Gli strumenti di pietra dei macachi recentemente scoperti forniscono nuove intuizioni su come i nostri antenati abbiano cominciato a utilizzare la prima tecnologia e che la sua origine potrebbe essere stata collegata a comportamento simile a quello della rottura delle noci che potrebbe essere molto più antico dell'attuale primo dato archeologico conosciuto. Lydia Luncz, autrice senior dello studio e capo del Forschungsgruppe Technologische Primaten del Max-Planck-Institut für evolutionäre Anthropologie, conclude: «Spaccare noci usando martelli e incudini di pietra, in modo simile a quello che fanno oggi alcuni primati, è stato suggerito da alcuni come un possibile precursore della produzione intenzionale di utensili in pietra. Questo studio, insieme a quelli precedenti pubblicati dal nostro team, apre le porte alla possibilità di identificare una tale firma archeologica in futuro». L'articolo Le sorprendenti somiglianze tra gli strumenti di pietra dei primi umani e delle scimmie sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Il riscaldamento globale rende più frequenti e intensi siccità ed eventi umidi estremi (VIDEO)

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Gli scienziati avevano previsto che siccità e inondazioni sarebbero diventate più frequenti e gravi man mano che il nostro pianeta si riscalda e il clima cambia, ma rilevarlo su scala regionale e continentale si è rivelato difficile. Ora, il nuovo Lo studio “Changing intensity of hydroclimatic extreme events revealed by GRACE and GRACE-FO”, pubblicato su Nature Water da Mattew Rodell del NASA Goddard Space Flight Centee e Bailing Li dell’università del Maryland, conferma che «Le grandi siccità e le precipitazioni piovose - periodi di precipitazioni eccessive e stoccaggio di acqua sulla terraferma - si sono effettivamente verificate più spesso». Rodell  e Li hanno esaminato 20 anni di dati dai satelliti NASA e tedeschi GRACE e GRACE-FO per identificare eventi estremi di umidità e siccità, scoprendo che «Inondazioni e siccità rappresentano ogni anno oltre il 20% delle perdite economiche causate da eventi meteorologici estremi negli Stati Uniti. Gli impatti economici sono simili in tutto il mondo, anche se il bilancio umano tende ad essere più devastante nei quartieri poveri e nei paesi in via di sviluppo». I due scienziati hanno anche scoperto che «L'intensità mondiale di questi eventi estremi di umidità e siccità - una metrica che combina estensione, durata e gravità - è strettamente legata al riscaldamento globale». Dal 2015 al 2021 (7 dei 9 anni più caldi mai registrati) la frequenza di eventi estremi di pioggia e di seccità è stata di 4 all'anno, rispetto alle 3 nei 13 anni precedenti. «Questo ha senso - dicono gli autori dello studio - perché l'aria più calda fa evaporare più umidità dalla superficie terrestre durante gli eventi secchi; l'aria calda può anche trattenere più umidità per alimentare forti nevicate e precipitazioni». Rodell evidenzia che «L'idea del cambiamento climatico può essere qualcosa di astratto. Un paio di gradi in più non sembra molto, ma gli impatti del ciclo dell'acqua sono tangibili. Il riscaldamento globale causerà siccità e periodi umidi più intensi, che colpiranno le persone, l'economia e l'agricoltura in tutto il mondo. Il monitoraggio degli estremi idrologici è importante per prepararsi agli eventi futuri, mitigarne gli impatti e adattarsi». Rodell e Li hanno studiato 1.056 eventi estremi di umidità e siccità, dal 2002 al 2021, osservati dai satelliti Gravity Recovery and Climate Experiment (GRACE) e GRACE-Follow-On (GRACE-FO) che  utilizzano misurazioni precise del campo gravitazionale terrestre per rilevare anomalie di stoccaggio dell'acqua, in particolare, come la quantità di acqua immagazzinata in suoli, falde acquifere, laghi, fiumi, manto nevoso e ghiaccio rispetto alla norma. Rodell. Spiega: «E’ come guardare il livello dell'acqua nella vasca da bagno. Puoi vedere quanto sale e scende senza conoscere la quantità totale di acqua nella vasca. Dato che GRACE e GRACE-FO forniscono ogni mese una nuova mappa delle anomalie di stoccaggio dell'acqua in tutto il mondo, forniscono una visione completa della gravità degli eventi idrologici e di come si evolvono nel tempo». Nel loro studio, Rodell e Li hanno applicato una metrica di "intensità" che tiene conto della gravità, della durata e dell'estensione spaziale della siccità e degli eventi umidi estremi e hanno  scoperto che «L’intensità totale globale degli eventi estremi è aumentata dal 2002 al 2021, rispecchiando l'aumento delle temperature della Terra nello stesso periodo». L'evento di gran lunga più intenso identificato nello studio è stato un evento pluviale iniziato nel 2019 in Africa centrale e tuttora in corso e che ha causato l' innalzamento del livello del lago Vittoria di oltre un metro. La siccità del 2015-2016 in Brasile è stata l'evento di siccità più intenso degli ultimi 20 anni e ha portato allo svuotamento dei bacini idrici e al razionamento dell'acqua in alcune città brasiliane. Li fa notare che «Entrambi gli eventi sono stati associati alla variabilità climatica, ma la siccità brasiliana si è verificata nell'anno più caldo mai registrato (2016), riflettendo l'impatto del riscaldamento globale. Anche le recenti siccità degli Stati Uniti sudoccidentali e dell'Europa meridionale sono stati alcuni degli eventi più intensi, in parte a causa del riscaldamento antropogenico». Li conclude: «Il riscaldamento globale ha avuto impatti ampi e profondi sullo stoccaggio dell'acqua terrestre, come la riduzione della neve annuale in alta quota e l'esaurimento delle acque sotterranee da parte delle persone quando le acque superficiali sono scarse. Riflettendo questi cambiamenti, i dati GRACE ci forniscono un unico prospettiva di come gli estremi idrologici stanno cambiando in tutto il mondo». L'articolo Il riscaldamento globale rende più frequenti e intensi siccità ed eventi umidi estremi (VIDEO) sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Una tassa internazionale progressiva sulla ricchezza estrema per sanare l’ingiustizia sociale e climatica

Una tassa internazionale progressiva sulla ricchezza estrema
Il “Climate Inequality Report 2023” pubblicato recentemente da Lucas Chancel e Philipp Bothe del World Inequality Lab dell’Ecole d’économie de Paris e Università della California Berkley  e da Tancrède Voituriez del CIRAD, evidenzia che «La crisi climatica ha iniziato a sconvolgere le società umane colpendo gravemente le fondamenta stesse del sostentamento umano e dell'organizzazione sociale. Gli impatti climatici non sono equamente distribuiti in tutto il mondo: in media, i Paesi a basso e medio reddito subiscono impatti maggiori rispetto alle loro controparti più ricche. Allo stesso tempo, la crisi climatica è segnata anche da significative disuguaglianze all'interno dei Paesi. Recenti ricerche rivelano un'alta concentrazione di emissioni globali di gas serra tra una frazione relativamente piccola della popolazione, che vive nei Paesi emergenti e ricchi. Inoltre, la vulnerabilità a numerosi impatti climatici è fortemente legata al reddito e alla ricchezza, non solo tra Paesi ma anche al loro interno». A un mese e mezzo dall’uscita di quel rapporto, in un forum su Le Monde, un centinaio di eurodeputati, economisti (compreso Joseph Stiglitz), ONG e uomini di affari chiedono all'Ocse e all'Onu di promuovere l’istituzione di una tassa internazionale progressiva sulla ricchezza estrema. L’eurodeputata socialista Aurore Lalucq, spiega: «Siamo più di 120 eurodeputati, economisti fiscali, milionari, ONG... e chiediamo una tassazione equa degli ultra-ricchi. Impossibile? Ce lo avevano detto anche per la tassazione delle multinazionali!» Parlando dewgli enormi guadagni fatti dai super-ricchi con lsa crisi Covid-19 e con la crisi energetica e alimantare della guerra in Ucraina, la Lalucq ha evidenziato che «Siamo in un classico caso di "mutualizzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti". Ricordatevi che la Commissione Europea è favorevole a questa tassa e anche il Regno Unito, noto per il suo comunismo, l'ha introdotta. Questa tassa sul sovraprofitti, non è di destra o di sinistra, è sostenuta dalla Commissione Europea... lei stessa il frutto di un compromesso sinistra-destra. Non attuarla è irragionevole» Gabriel Zucman, un economista francese che è attualmente professore associato di politiche pubbliche ed economia alla Goldman School of Public Policy dell’università della California Berkeley, sottolinea: «Immaginatevi che ci sia una politica governativa che salvaguarda la tua ricchezza se sei ricco, nel caso in cui accadano cose brutte (ad esempio, il tuo banchiere si rivela essere un truffatore) Possiamo discutere i meriti di questa politica, ma almeno lì dovrebbe esserci una "tassa" basata sulla ricchezza, giusto?» Il Forum ricorda che «Mentre dal 2020 l'1% più ricco si è impossessato di quasi i due terzi della ricchezza prodotta, la povertà estrema è aumentata e i salari di quasi due miliardi di persone non riescono ancora a tenere il passo con l'inflazione. Concretamente, perché i numeri parlano più delle parole, nel 2018 Elon Musk, allora secondo uomo più ricco del mondo, non ha pagato un centesimo di tasse federali. Jeff Bezos non ha pagato le tasse nemmeno nel 2007 o nel 2011. In Francia,  Paese noto per il suo alto livello di tassazione, le 370 famiglie più ricche sono in realtà tassate solo dal 2% al 3% circa». Come ci siamo arrivati a questa situazione nella quale – come ind segna l’Italia - i ricchissimi che non pagano tasse si lamentano per l’alta tassazione che in realtà è sulle spalle di altri? «Semplicemente perché i più ricchi possono utilizzare elaborati accordi fiscali per ridurre la loro aliquota fiscale al minimo indispensabile – rispondono eurodeputati ed esperti -  cosa che le famiglie comuni non possono fare, ma anche perché i Paesi hanno gradualmente abbandonato la tassazione sulla ricchezza e sul capitale. Una situazione che ricorda quella che prevale tra multinazionali e Piccole e medie imprese».  Le Monde fa notare che «In media, l'aliquota fiscale per le PMI in Europa supera il 20%, quando, ade esempio, ristagna intorno al 9% per le multinazionali digitali». Di fronte a questa ingiustizia ea questa violazione dell'uguaglianza, è stato redatto un accordo globale sulla tassazione minima delle multinazionali sotto l'egida dell'OCSE. Sarà efficace su scala europea grazie a una direttiva adottata definitivamente alla fine del 2022. L’idea è quella di un'imposta dell'1,5% su patrimoni di almeno 50 milioni di euro, ma l livello esatto «Dovrebbe essere deciso collettivamente e democraticamente». I partecipanti al Forum concludono: «Quel che siamo riusciti a ottenere per le multinazionali, ora dobbiamo farlo per i più ricchi. La nostra proposta è semplice: introdurre un'imposta progressiva sulla ricchezza degli ultra-ricchi su scala internazionale per ridurre le disuguaglianze e contribuire a finanziare gli investimenti necessari per la transizione ecologica e sociale» L'articolo Una tassa internazionale progressiva sulla ricchezza estrema per sanare l’ingiustizia sociale e climatica sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.