Un fallimento mondiale

Cerco sempre di ridurre al minimo ogni articolo sul calcio. In primo luogo perché il nostro non è un giornale sportivo. Siamo nati in piena emergenza covid, siamo in piena guerra. E non avendo il complesso della pesantezza – cioè l’ansia autoricattatoria di dover apparire leggeri per soddisfare il desiderio di frivolezza che non vuole guardare la realtà delle cose – troveremmo assurdo parlare di calcio, con questi chiari di luna. In sintesi, chi vuole parlare di cose frivole, forse è meglio che cambi giornale. Noi siamo incazzati. Non abbiamo voglia di fare i leggeri, per compiacere chi non ha capito che stiamo vivendo il momento più difficile della storia dell’umanità, e vuole illudersi che con una dose di pop le cose cambino.
E ci prendiamo enormemente sul serio, alla faccia delle prediche dell’orrendo Jep Gambardella, personaggio di quell’osceno film che è La Grande Bellezza, interpretato da un pessimo attore come Servillo, premiato con un Oscar solo perché asseconda il “cupio dissolvi” identitario, così caro alla propaganda globalista.
Se parlo di calcio, è solo per coglierne agganci con realtà ben più serie. Ne ho parlato alla morte di Maradona, per descrivere il rincoglionimento dei miei concittadini. Ne ho parlato quando ci fu la storia della Superlega, per descrivere l’agonia di un movimento che ormai sta morendo, che si tiene in piedi unicamente perché la famiglia che possiede la squadra più storica e vincente del campionato, è la più potente d’Italia. E ne parlo oggi perché nel fallimento della Nazionale, non tanto dal punto di vista tecnico quanto dal punto di vista socio-antropologico, si radunano sia il rincoglionimento dei tifosi che il quadro generale di un calcio ormai moribondo.

Partiamo dal punto di fondo. Che chiarisco solo per spiegare come il giornalismo oggi sia così scorretto e in malafede, da nascondere la realtà, anche quando si tratta di un banale pallne. Il fallimento della Nazionale ha pochi agganci con quello che sta accadendo. Infatti tutti parlano di Nazionale come se il problema fosse quello. Intendiamoci, sicuramente non è la Nazionale più forte della storia e neanche quella che vinse i Mondiali nel 2006. Ma non è neanche una Nazionale non in grado di qualificarsi per un Mondiale. La Macedonia è una squadra ridicola, che faticherebbe a salvarsi in serie B. Gli unici suoi due giocatori forti, Pandev ed Elmas, uno si è ritirato e l’altro era squalificato. Il resto è pochissima roba. E se non siamo riusciti a fare un cazzo di gol per poi giocarcela col Portogallo, questo ha a che fare con un problema squisitamente tecnico: non abbiamo attaccanti. Immobile e Belotti sono giocatori modesti, capaci di fare bene solo quando hanno un’intera squadra che gioca per loro. E in più manca un giocatore in grado di fare l’ultimo passaggio.
Tutto il resto, dall’immancabile “è tutto sbagliato, è tutto da rifare” della buonanima di Bartali, buono per assecondare la cultura da bar con cui si approcciano tematiche serie, fino ai sofismi sulle responsabilità del movimento calcistico italiano che non c’entra nulla con la Nazionale, sono appunto chiacchiere e tabaccher’ ‘e lignamm, che, come è noto, il Banco di Napoli non piglia in pegno. Sofismi stomachevoli a cui ho dato un cenno solo perché si agganciano a considerazioni che vanno ben oltre.

mondiale

Primo. Il calcio italiano, come tanti altri settori un tempo di successo, è un morto che cammina. I conti di quasi tutte le società sono disastrati. Si salvano giusto quelli del Napoli. E se non posso vantare la fortuna di aver vissuto con la nitidezza di un adulto l’epoca d’oro di Maradona, quantomeno posso consolarmi sapendo che abbiamo in Aurelio De Laurentiis il presidente più serio non solo della storia del Napoli ma del calcio italiano. Un uomo a cui dovrebbero dare una medaglia e a cui le istituzioni avrebbero dovuto fare ponti d’oro e che invece, non a caso, i tifosi del Napoli e le istituzioni locali odiano e trattano da ladro e profittatore. Perché non è un tossico paramalavitoso che compra l’affetto dei suoi compagni con le regalie, non tira i calci di punizione e non si ingrazia le tifoserie con discorsi da capopopolo, ben seduto su un cospicuo conto in banca, casomai abbracciato con qualche capoclan. In sostanza, il calcio italiano è nelle mani di delinquenti, di profittatori, di squali. Che fin quando volavano dal cielo banconote dalla finanza americana, in un’epoca geopolitica in cui c’era la convenienza ad evitare che l’Italia finisse nell’orbita sovietica, potevano anche atteggiarsi a grandi presidenti e grandi imprenditori, comprando i più forti calciatori del momento. Finita la cuccagna, sono emersi tutti i limiti di un calcio nelle mani di famiglie interessate unicamente a se stesse, senza alcun interesse ad investire nella tenuta di un sistema che si basa sulla capacità di fare identità, di regalare sogni.
E questo introduce la seconda questione, quella dei sogni e dunque dell’ambiente. Il calcio non piace più come una volta. Non vedo più ragazzini nei parchi sognare di emulare qualcuno, sono sfioriti gli entusiasmi, è sfiorita l’appartenenza identitaria. E questo ha varie ragioni, prima tra tutte la pretesa che il calciatore debba trasformarsi in un propagandista politico, ovviamente politicamente corretto, come abbiamo detto, oltre al fatto che una mal gestita globalizzazione ha gonfiato oltre ogni misura gli stipendi dei calciatori, che così sono diventati vere e proprie aziende. Che in quanto tali, comunicano in maniera politicamente corretta per non scontentare nessuno. Che cambiano bandiera al miglior offerente, come è anche comprensibile che sia. Ma che di fatto producono un disaffezionamento generale. Le squadre sono TUTTE zeppe di gente non agganciata alla realtà territoriale. L’unico napoletano che il Napoli aveva, se n’è andato a Toronto. E non era neanche napoletano ma di Frattamaggiore. Per il resto, siamo zeppi di stranieri che non hanno alcun reale attaccamento alla maglia, che non hanno la consapevolezza di rappresentare un popolo. Oggi un’intervista in tram come quella tra Beppe Viola e Gianni Rivera di quarant’anni fa, sarebbe letteralmente improponibile: Viola dovrebbe passare attraverso l’agente, attraverso l’agente dell’agente, e attraverso l’agente dell’agente dell’agente del calciatore, che ovviamente dovrebbe stare attento alla minima virgola fuori posto, per non irritare il presidente dell’associazione delle zanzare, casomai durante l’intervista gli scappasse detto che in estate ama incenerirle col racchettone elettrico. Ed essendo i calciatori tutti quanti aziende, naturalmente tutti comunicano in maniera politicamente corretta, indovinando tutti i congiuntivi, magari anche laureandosi. Il problema è che manca il pensiero. Da un Gigi Riva, da un Gianni Rivera, da un Bruno Conti, magari si possono ascoltare discorsi sgrammaticati, ma di fondo c’è un pensiero, giusto o sbagliato. Ormai la comunicazione è tutta telecomandata, ben attenta a non irritare nessuno.

In sostanza, il calcio è diventato un ambiente asettico. Che non produce più emozioni, più identità, più genuinità. Tutte queste cose producono una disaffezione generale, svuotano gli stadi, contribuiscono a mandare in malora i conti delle società. E senza conti in ordine, non si può fare programmazione, non si può investire in progetti vincenti. Senza passione, non ci sono giovani che si appassionano al calcio e che magari diventano i futuri campioni che riempiranno d’orgoglio la propria nazione. Oggi i giovani calciatori sono interessati unicamente a copulare con le veline. E a proposito di veline, il calcio è invaso da uno zoccolume senza precedenti di belle fighe, tra le compagne dei calciatori (tutte perfettine, magari rifatte, ce ne fosse una di bellezza normale, autentica) e aspiranti giornaliste che raggiungono la notorietà su Facebook facendo notare le proprie forme. E che non capiscono nulla di calcio ma sanno solo spogliarsi per stimolare abbondanti produzioni di testosterone, casomai mentre la mia amica Valeria Iuliano, che calcisticamente con le sue competenze si metterebbe nel sacco il 99% non solo del giornalismo femminile (e fin qui ci vuole poco) ma anche di quello maschile, rimane a fare l’influencer su Facebook, letteralmente ignorata, perché “non la dà” ai capibastoni del giornalismo.
Quando giocavo a calcio da bambino, non sognavo di arrivare in alto per intrattenermi in amplessi con la belloccia del momento, che ne so, Monica Vanali, la Parietti o la Ventura. E anzi, mi sto rendendo conto che di bellocce ce n’erano poche. Perché a quei tempi, per seguire il calcio, non c’era bisogno di eccitarci di fronte a qualche bella ragazza. Giocavo perché mi identificavo in qualche campionissimo del tempo o per il piacere adrenalinico di vincere una partita o di eseguire un gesto tecnico che facesse aprire la bocca agli astanti. Tramontato Maradona, andavo pazzo per Stoichkov, per dire, un matto totale. Per Batistuta. E avevo allenatori inflessibili, che non mi perdonavano nulla. Mio padre non si sarebbe mai sognato di dire al mister “faccia giocare mio figlio”. Non si sarebbe mai azzardato a darmi consigli tecnici. Mi diceva solo di impegnarmi e di fare il mio dovere, senza protestare col mister quando non mi convocava. E quando apparve chiaro che il calcio giocato non sarebbe stata la mia strada, non ne ha fatto un dramma. Viceversa, oggi è pieno di gente che pensa che il figlio sia il nuovo Cristiano Ronaldo. Attratti anche dai guadagni folli, ben lontani da quelli di una volta quando i calciatori venivano tutti da famiglie contrassegnate da una serena povertà, il cui approdo al calcio consentiva al massimo di salvare la propria generazione.

Bisogna avere il coraggio di dire una cosa molto semplice. Il calcio oggi non piace più. E per gli stessi motivi per cui non piacciono più tante altre cose molto più serie. Una globalizzazione incontrollata che ha costretto il movimento calcistico a dover competere con realtà che hanno ben altre regole e la perdita della propria sostanza che è stata sostituita dall’apparenza. Un po’ come accade nella musica dove vanno avanti i gay e gli immigrati. In sostanza, chi ha una storia che si presta alla propaganda modaiola del momento. Poi che il musicista sappia suonare e cantare, o il calciatore sappia mettere la palla in rete, tutti se ne fottono. L’importante è inginocchiarsi. Davanti a Black Lives Matter, davanti a Burioni, davanti alla bandiera dell’Ucraina.
Il calcio è solo uno dei tanti specchi di una nazione così abituata ad inginocchiarsi, che ormai è in ginocchio. Un’Italia fasulla, con conti fasulli, non può che avere un calcio fasullo. Dunque scadente.
Magari il problema fosse soltanto la Nazionale. Ma soprattutto, magari il problema fosse solo il calcio.

FRANCO MARINO
Fonte: Il Detonatore.it

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