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Passare all’idrogeno potrebbe prolungare il problema del metano

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Secondo lo studio “Risk of the hydrogen economy for atmospheric methane”, pubblicato su  Nature Communications  da Matteo Bertagni,  Stephen Pacala e Amilcare Porporato  della Princeton University e da  Fabien Paulot  della National Oceanic and Atmospheric Administration Usa, «Il potenziale dell'idrogeno come combustibile pulito potrebbe essere limitato da una reazione chimica nella bassa atmosfera». Questo perché il gas idrogeno reagisce facilmente nell'atmosfera con la stessa molecola che è la principale responsabile della scomposizione del metano, un potente gas serra. I ricercatori evidenziano che «Se le emissioni di idrogeno superano una certa soglia, quella reazione condivisa porterà probabilmente all'accumulo di metano nell'atmosfera, con conseguenze climatiche decennali».
Bertagni, ricercatore post-dottorato all’High Meadows Environmental Institute che lavora alla Carbon Mitigation Initiative, sottolinea che «L'idrogeno è teoricamente il carburante del futuro. In pratica, tuttavia, pone molte preoccupazioni ambientali e tecnologiche che devono ancora essere affrontate».
Nello studio, i ricercatori hanno modellato l'effetto delle emissioni di idrogeno sul metano atmosferico e hanno scoperto che «Al di sopra di una certa soglia, anche quando si sostituisce l'uso di combustibili fossili, un'economia dell'idrogeno con perdite potrebbe causare danni ambientali a breve termine aumentando la quantità di metano nell'atmosfera. Il rischio di danni è aggravato per i metodi di produzione di idrogeno che utilizzano il metano come input, evidenziando la necessità critica di gestire e ridurre al minimo le emissioni derivanti dalla produzione di idrogeno».
Porporato, che insegna Civil and Environmental Engineering  a Princeton e all’'High Meadows Environmental Institute, ricercatore principale della Carbon Mitigation Initiative ed è anche docente al'Andlinger Center for Energy and the Environment, aggiunge: «Abbiamo molto da imparare sulle conseguenze dell'uso dell'idrogeno, quindi anche se il passaggio all'idrogeno, un combustibile apparentemente pulito, non crea nuove sfide ambientali».
In una recensione dello studio, Colton Poore, dell’Andlinger Center for Energy and the Environment di Princeton, spiega che «Il problema si riduce a una piccola molecola difficile da misurare nota come radicale ossidrile (OH). Spesso soprannominato "il detergente della troposfera", l'OH svolge un ruolo fondamentale nell'eliminazione dei gas serra come il metano e l'ozono dall'atmosfera. Il radicale idrossile reagisce anche con l'idrogeno gassoso nell'atmosfera. E poiché ogni giorno viene generata una quantità limitata di OH, qualsiasi picco nelle emissioni di idrogeno significa che verrebbe utilizzato più OH per abbattere l'idrogeno, lasciando meno OH disponibile per abbattere il metano. Di conseguenza, il metano rimarrebbe più a lungo nell'atmosfera, estendendo i suoi effetti sul riscaldamento».
Bertagni fa notare che «Gli effetti di un picco di idrogeno che potrebbe verificarsi con l'espansione degli incentivi governativi per la produzione di idrogeno potrebbero avere conseguenze climatiche decennali per il pianeta. Se si emette  un po' di idrogeno nell'atmosfera ora, porterà a un progressivo accumulo di metano negli anni successivi. Anche se l'idrogeno ha solo una durata di vita di circa due anni nell'atmosfera, tra 30 anni da quell'idrogeno avremo ancora il feedback del metano».
Nello studio, i ricercatori hanno identificato il punto critico in cui le emissioni di idrogeno porterebbero a un aumento del metano atmosferico e quindi minerebbero alcuni dei benefici a breve termine dell'idrogeno come combustibile pulito. Identificando tale soglia, i ricercatori hanno stabilito obiettivi per la gestione delle emissioni di idrogeno: «E’ essenziale che siamo proattivi nello stabilire soglie per le emissioni di idrogeno, in modo che possano essere utilizzate per informare la progettazione e l'implementazione della futura infrastruttura per l'idrogeno», ha sottolineato Porporato.
Per l'idrogeno verde, che viene prodotto scindendo l'acqua in idrogeno e ossigeno utilizzando elettricità da fonti rinnovabili, Bertagni dice che «La soglia critica per le emissioni di idrogeno si aggira intorno al 9%. Questo significa che se più del 9% dell'idrogeno verde prodotto si disperdesse nell'atmosfera, sia nel punto di produzione, durante il trasporto o in qualsiasi altro punto lungo la catena del valore, nei prossimi decenni il metano atmosferico aumenterebbe, annullando alcuni dei benefici climatici dell'abbandono dei combustibili fossili».
E per l'idrogeno blu, prodotto tramite il reforming del metano con successiva cattura e stoccaggio del carbonio, la soglia per le emissioni è ancora più bassa: «Poiché il metano stesso è l'input principale per il processo di riformazione del metano, i produttori di idrogeno blu devono prendere in considerazione la perdita diretta di metano oltre alla perdita di idrogeno», avverto i ricercatori che hanno scoperto anche che «Con un tasso di perdita di metano pari allo 0,5%, le perdite di idrogeno dovrebbero essere mantenute al di sotto del 4,5% circa per evitare l'aumento delle concentrazioni atmosferiche di metano».
Per Bertagni, «La gestione dei tassi di perdita di idrogeno e metano sarà fondamentale. Se si ha  solo una piccola quantità di perdite di metano e un po' di perdite di idrogeno, allora l'idrogeno blu che si produce potrebbe non essere molto migliore rispetto all'utilizzo di combustibili fossili, almeno per i prossimi 20 o 30 anni».
I ricercatori hanno sottolineato l'importanza della scala temporale sulla quale  viene considerato l'effetto dell'idrogeno sul metano atmosferico. Bertagni conclude: «A lungo termine (nel corso di un secolo, ad esempio), il passaggio a un'economia dell'idrogeno produrrebbe ancora probabilmente benefici netti per il clima, anche se i livelli di perdite di metano e idrogeno fossero sufficientemente elevati da provocare un riscaldamento a breve termine. Alla fine, ha affermato, le concentrazioni atmosferiche di gas raggiungeranno un nuovo equilibrio e il passaggio a un'economia dell'idrogeno dimostrerà i suoi benefici per il clima. Ma prima che ciò accada, le potenziali conseguenze a breve termine delle emissioni di idrogeno potrebbero portare a danni ambientali e socioeconomici irreparabili. Pertanto, se le istituzioni sperano di raggiungere gli obiettivi climatici di metà secolo, le perdite di idrogeno e metano nell'atmosfera devono essere tenute sotto controllo mentre le infrastrutture per l'idrogeno iniziano a svilupparsi. E poiché l'idrogeno è una piccola molecola notoriamente difficile da controllare e misurare, la gestione delle emissioni richiederà probabilmente ai ricercatori di sviluppare metodi migliori per monitorare le perdite di idrogeno lungo la catena del valore. Se aziende e governi sono seriamente intenzionati a investire denaro per sviluppare l'idrogeno come risorsa, devono assicurarsi di farlo in modo corretto ed efficiente. In definitiva, l'economia dell'idrogeno deve essere costruita in modo da non contrastare gli sforzi di altri settori per mitigare le emissioni di carbonio».
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Da rifiuti zero a impianti zero? Uno stallo che l’area livornese non può permettersi

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A due giorni dall’addio dato dal Comune di Livorno alla rete dei rifiuti zero, a valle delle posizioni pretestuose assunte sulla gestione del termovalorizzatore cittadino, la polemica si sposta in provincia, sul Polo impiantistico di Scapigliato a Rosignano Marittimo.
Qui il Comune, dove nell’ultimo anno la raccolta differenziata è cresciuta dal 48% al 70% grazie alla diffusione del porta a porta – l’obiettivo si sposta ora al 75%, afferma il sindaco – è anche proprietario di maggioranza (83,5%) di Scapigliato, una società interamente pubblica (il rimanente 16,5% è in mano ad Alia, la cui compagine sociale fa capo ai Comuni dell’Ato centro) che gestisce l’omonimo Polo impiantistico, dove si gioca una delle partite più importanti per l’economia circolare provinciale e regionale.
A Scapigliato ha sede la discarica per rifiuti non pericolosi più grande della Toscana, un presidio ambientale che dal 2019 ha intrapreso un virtuoso percorso di diversificazione impiantistica diminuire progressivamente gli smaltimenti ed incrementare il recupero di materia ed energia, condividendo col territorio locale i benefici legati ad un’economia più circolare.
Da quando è stato presentato il progetto – denominato “Fabbrica del futuro”, di cui abbiamo dato puntualmente conto su queste pagine – i conferimenti in discarica sono diminuiti del 27%; il biogas di discarica (una fonte rinnovabile dovuta alla degradazione dei rifiuti organici) viene captato e restituito alle famiglie locali sotto forma di elettricità scontata del 25-100% in base alla distanza dall’impianto; sono stati donati 43mila olivi (alla fine del progetto saranno 250mila) per compensare totalmente le emissioni di CO2eq rilasciate dall’impianto sin dal 1982; è stato varato un piano industriale da 78 mln di euro per preparare il Polo allo stop dei conferimenti in discarica (l’Aia in vigore lo prevede al 2030) lasciando spazio a nuovi impianti (tra cui spicca un biodigestore anaerobico per recuperare biometano e compost dalla raccolta differenziata organica) e migliorando gli altri esistenti (a partire dal Tmb).
Un percorso di sviluppo sostenibile che si è conquistato sabato scorso la ribalta nazionale del programma Rai 2 Italian green. Una buona notizia? Non per il “Coordinamento provinciale rifiuti zero Livorno”, che ha scagliato oggi una dura invettiva parlando di «toni trionfalistici a dir poco imbarazzanti», di «classico greenwashing» e ricordando inchieste come la Dangerous trash (iniziata nel 2017, il processo è partito solo un anno fa ed è ben lungi dal concludersi).
Senza entrare nel merito della riconversione industriale in corso, il Coordinamento ha preferito buttarla in politica: «L'amministratore delegato (di Scapligliato, ndr) è l'attuale segretario provinciale del Pd, il partito che governa sia il Comune di Rosignano, proprietario all'83% della discarica, sia i principali comuni proprietari di Alia, il socio di minoranza della discarica. Riteniamo preoccupante e scandaloso che un segretario di partito sia anche al vertice della discarica più grande della Toscana. Non ci vengano poi a raccontare che sono a favore degli inceneritori perché sono contrari alle discariche! I nuovi leader del Pd a livello nazionale e regionale, Schlein e Fossi, dovrebbero intervenire».
Non è chiaro se l’accusa principale guardi alla proprietà totalmente pubblica dell’impianto (meglio totalmente privata?), o al fatto che chi fa (anche) politica possa gestire impianti di pubblica utilità, ma tant’è. Lo spunto di riflessione per Schlein e Fossi, semmai, potrebbe essere un altro: la Toscana, che aspetta il nuovo Piano regionale rifiuti dal 2018, ha un disperato bisogno di nuovi impianti per gestire gli scarti che imprese e cittadini generano ogni giorno.
A livello regionale si parla di un deficit pari a 597mila t/a solo per i rifiuti secchi, arrivando a oltre 1 mln t/a estendendo il quadro anche a rifiuti organici e fanghi di depurazione, per rispettare gli obiettivi Ue al 2035. Ma quando si affaccia l’ipotesi di mettere a terra qualsivoglia impianto industriale di gestione rifiuti, insieme alla disinformazione fioccano le sindromi Nimby & Nimto che impediscono anche solo un confronto razionale nel merito.
Un esempio recente arriva dal Distretto circolare proposto per Empoli e basato sulla tecnologia di riciclo chimico, alternativa alla termovalorizzazione e dai più elevati profili di sostenibilità – al progetto in essere a Roma sono stati destinati fondi Ue per 194 mln di euro –, tanto da conquistarsi anche l’appoggio di Legambiente Toscana. Non quello dei comitati rifiuti zero, che hanno avversato il progetto empolese e che si stanno mettendo di traverso anche all’ipotesi avanzata proprio per Rosignano (dove un progetto neanche c’è, come confermato pochi giorni fa dal sindaco).
Una contrarietà, beninteso, più che legittima. Il problema semmai è che pare basata su fallacie logiche, senza dunque offrire alternative percorribili alla gestione dei rifiuti che pur continuiamo a generare.
«La nostra posizione – spiegava un mese fa ad Empoli il presidente Zero waste Europe, Rossano Ercolini – nasce dall’analisi dei numeri forniti dall’Agenzia recupero risorse regionale, riferiti al 2021, i quali mostrano in maniera eloquente come i rifiuti residui della zona Ato centro della Toscana siano stati circa 150mila tonnellate, che sarebbero potute essere trattate da specifici impianti a freddo, con i quali intercettare un ulteriore 50% di rifiuti riciclabili, lasciando così solo 75mila tonnellate detossificate, in linea con la politica di rifiuti zero, da poter stoccare nelle discariche che sarebbero più dei depositi. Con il trattamento termico, che ha per altro dei costi dieci volte superiori, rimane invece il 25% come rifiuto pericoloso».
Tale posizione, purtroppo, non collima con la realtà sin dalle premesse. I dati dell’Agenzia citati (pubblicamente disponibili qui) mostrano che i rifiuti urbani residui (rur) nell’Ato centro ammontano a 281.845 ton l’anno, cui si aggiungono – come dettagliato dall’assessora regionale all’Ambiente – circa 120mila ton di scarti della raccolta differenziata. I dati Ispra raccolti a livello nazionale informano invece che gli “impianti a freddo”, più propriamente detti di trattamento meccanico-biologico (come il Tmb in dotazione a Scapigliato), in media avviano a riciclo lo 0,9% dei rifiuti in ingresso mentre il 43,8% va in discarica e il 25% è termovalorizzato.
Sorvolando sul resto, preme sottolineare un cortocircuito. «La politica di rifiuti zero» appena dettagliata sembra ritenere più sostenibili le discariche per rifiuti non pericolosi (come quella presente a Scapigliato, oggetto delle accuse dei comitati rifiuti zero) rispetto al «trattamento termico» (ovvero la termovalorizzazione), nonostante la gerarchia europea per la corretta gestione dei rifiuti sia molto chiara nell’affermare l’opposto: dopo le politiche di prevenzione e riuso, nell’ordine occorrono impianti di selezione e avvio a riciclo dei rifiuti; filiere industriali dove avviene il riciclo vero e proprio; impianti per il recupero energetico delle frazioni non riciclabili; impianti di smaltimento controllato per le frazioni non recuperabili.
Per dare davvero corpo all’economia circolare, la sfida culturale è quella di comprendere che servono tutti questi impianti, ognuno per gestire il relativo livello di competenza. Non ci sono scorciatoie alla complessità dello sviluppo sostenibile. L’unica alternativa che rimane, altrimenti, è quella del cosiddetto “turismo dei rifiuti” per andare in cerca di impianti dove questi sono disponibili: in Italia per i soli rifiuti urbani ci sono già 120mila viaggi di camion l’anno, che percorrono 68 mln di km a spese del clima (40mila ton di CO2) e del portafogli (75 mln di euro in più sulla Tari pagata dai cittadini).
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Altro che hub del gas, Terna: «Italia hub elettrico europeo e mediterraneo»

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Mentre il Governo Meloni magnifica le potenzialità italiane in termini di hub del gas (fossile) con la contrarietà di tutto il mondo ambientalista, Terna – la società guidata da Stefano Donnarumma che gestisce la rete elettrica nazionale – mostra che un futuro diverso è possibile quanto auspicabile: che hub sia, ma per l’energia elettrica da fonti rinnovabili.
Nel suo nuovo Piano di sviluppo decennale, Terna punta non a caso al rafforzamento e allo sviluppo delle interconnessioni con l’estero, prevedendo un investimento complessivo di circa 2 miliardi di euro, per iniziare a fare dell’Italia «un hub elettrico europeo e mediterraneo».
Fondamentale in questi’ottica sarà il progetto di interconnessione tra Italia e Tunisia, intervento di rilevanza strategica che garantirà l’ottimizzazione delle risorse energetiche tra l’Europa e il Nord Africa. A dicembre 2022 il ministero dell’Ambiente ha avviato il procedimento autorizzativo del ponte energetico sottomarino da 600 MW per il quale è previsto un investimento, da parte di Terna e di Steg, l’operatore elettrico tunisino, di circa 850 milioni di euro complessivi.
Nel Piano di sviluppo di Terna è confermato anche il progetto Sa.Co.I.3, il collegamento tra i sistemi elettrici della Sardegna, della Corsica e della penisola italiana, per un investimento complessivo di 950 milioni di euro.
Inoltre, nel secondo semestre del 2023 Terna avvierà la consultazione pubblica per il nuovo cavo sottomarino con la Grecia, 200 km di lunghezza e 500 MW, che raddoppierà la capacità di scambio tra i due Paesi. Per l’opera Terna investirà 750 milioni di euro.
«Queste interconnessioni – concludono da Terna – insieme agli elettrodotti tra Italia-Francia, Italia-Svizzera e Italia-Austria, consentiranno al nostro Paese, in virtù della sua posizione geografica strategica, di rafforzare il suo ruolo di hub energetico dell’Europa e dell’area mediterranea, diventando protagonista a livello internazionale».
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Terna, investimenti da 21 mld di euro sulla rete elettrica per sviluppare le rinnovabili

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A neanche ventiquattro ore dalla proposta avanzata dalla Commissione Ue per la riforma del mercato elettrico, Terna – la società che gestisce la rete elettrica nazionale – ha presentato oggi il proprio Piano di sviluppo 2023, con investimenti da 21 mld di euro nei prossimi dieci anni (che arrivano a oltre 30 mld di euro considerando l’intera vita delle opere previste).
«Gli investimenti inseriti nel Piano di sviluppo 2023 sono i più alti mai previsti da Terna – dichiara l’ad, Stefano Donnarumma – Mai come oggi, in un contesto particolarmente sfidante, è necessario uno sforzo di programmazione di lungo periodo, un coordinamento fra le istituzioni che consenta all’Italia di cogliere tutte le opportunità che la transizione porta con sé. Le fonti rinnovabili rappresentano il nostro petrolio: abilitarne la diffusione e l’integrazione fa parte della nostra missione di registi del sistema elettrico e sarà determinante per la sicurezza energetica del nostro Paese».
Un petrolio che però ancora l’Italia non riesce a sfruttare appieno. Secondo i dati Terna aggiornati a gennaio, ci sono circa 340 GW di proposte impiantistiche rinnovabili in attesa di via libera: cento volte tanto gli impianti effettivamente entrati in esercizio nell’ultimo anno (3 GW), a causa delle ampie difficoltà ancora esistenti lungo l’iter autorizzativo.
Non tutti questi 340 GW potranno entrare in produzione, ma per rispettare gli obiettivi Ue al 2030 dovranno essere almeno 70 GW (secondo lo scenario Fit for 55 preso come riferimento da Terna) o meglio 85 GW (secondo la più recente proposta europea RePowerEu).
Secondo le proiezioni elaborate da Terna insieme a Snam, tali impianti saranno localizzati soprattutto al centrosud (dove è maggiore la presenza di fonti rinnovabili come eolico e fotovoltaico), mentre la domanda elettrica continuerà ad arrivare soprattutto dal nord.
Per questo la principale novità introdotta nel Piano di sviluppo 2023 è la rete Hypergrid, che sfrutterà le tecnologie della trasmissione dell’energia in corrente continua (Hvdc).
Nel merito, Terna ha pianificato cinque nuove dorsali elettriche per 11 mld di euro – la Milano-Montalto, la Central link tra Umbria e Toscana, la Dorsale sarda, la Dorsale Ionica-Tirrenica tra Sicilia e Lazio, la Dorsale adriatica Foggia-Villanova-Fano-Forlì –, funzionali all’integrazione di capacità rinnovabile.
Si tratta di un’imponente operazione di ammodernamento di elettrodotti già esistenti sulle dorsali Tirrenica e Adriatica della penisola e verso le isole, che prevede nuovi collegamenti sottomarini a 500 kV; complessivamente, con le Hypergrid sarà possibile raddoppiare la capacità di scambio tra zone di mercato, passando dagli attuali 16 GW a oltre 30 GW.
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L’Arabia Saudita minaccia l’embargo petrolifero in caso di prezzo massimo alle esportazioni di petrolio

LArabia Saudita minaccia lembargo petrolifero

Rispondendo a una domanda di Energy Intelligence sulla reintroduzione del disegno di legge Nopec da parte del Congresso Usa e sul tetto massimo del prezzo del petrolio russo imposto dal G7 e sulle potenziali implicazioni per il mercato petrolifero, il ministro dell'energia saudita, il principe Abdulaziz bin Salman, ha detto che «La legislazione Nopec e l'estensione del tetto massimo sono molto diverse, ma i loro potenziali impatti sul mercato petrolifero sono simili. Tali politiche aggiungono nuovi livelli di rischio e incertezza in un momento in cui sono più necessarie chiarezza e stabilità. Devo ribadire il punto di vista che ho reso noto ad agosto e settembre su come tali politiche aggraverebbero inevitabilmente l'instabilità e la volatilità del mercato e avrebbero un impatto negativo sull'industria petrolifera. Al contrario, Opec+ ha compiuto ogni sforzo ed è riuscita a portare stabilità e trasparenza significative al mercato petrolifero, soprattutto rispetto a tutti gli altri mercati delle materie prime. Il disegno di legge Nopec non riconosce l'importanza di detenere capacità inutilizzata e le conseguenze del mancato mantenimento di capacità inutilizzata sulla stabilità del mercato. Il Nopec minerebbe anche gli investimenti nella capacità petrolifera e causerebbe un calo dell'offerta globale molto inferiore alla domanda futura. Gli impatti si faranno sentire in tutto il mondo sia sui produttori che sui consumatori, così come sull'industria petrolifera».
Dopo l’accordo con l’Iran mediato dalla Cina, l’Arabia saudita ha cambiato idea anche sulle sanzioni e bin Salman avverte che, «Lo stesso vale per i massimali di prezzo, siano essi imposti a un Paese o a un gruppo di Paesi, al petrolio o a qualsiasi altra merce. Ciò porterà a contro-risposte singole o collettive con conseguenze intollerabili sotto forma di massiccia volatilità e instabilità. Quindi, se venisse imposto un prezzo massimo alle esportazioni di petrolio saudita, non venderemo petrolio a nessun Paese che impone un prezzo massimo alla nostra offerta e ridurremo la produzione di petrolio, e non sarei sorpreso se altri facessero lo stesso».
Non a caso l’intervista di bin Salman a  Energy Intelligence è stata rilanciata con grande rilievo dai media russi e iraniani.
Lo scenario è quello di una nuova crisi petrolifera in stile austerity anni ’70 e il ministro dell’energia saudita manda a dire a statunitensi ed europei che «La capacità inutilizzata e le scorte di emergenza globali sono la rete di sicurezza definitiva per il mercato petrolifero di fronte a potenziali shock. Ho ripetutamente avvertito che la crescita della domanda globale supererà l'attuale capacità di riserva globale, mentre le riserve di emergenza sono ai minimi storici. Ecco perché è fondamentale che vengano messe in atto politiche per sostenere gli investimenti necessari per aumentare la capacità inutilizzata in modo tempestivo e che le scorte di emergenza globali siano mantenute a un livello adeguato e confortevole. In Arabia Saudita, abbiamo avviato in modo proattivo l'espansione della nostra capacità a 13,3 milioni di barili al giorno entro il 2027. L'espansione è già in corso nella fase di ingegneria e il primo incremento dovrebbe entrare in funzione nel 2025».
Intanto prosegue il riavvicinamento tra l’Iran e le monarchie petrolifere assolute sunnite del Golfo: domani il segretario del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale della Repubblica islamica dell’Iran, Ali Shamkhani, sarà negli Emirati Arabi Uniti per ricambiare la visita in Iran dello sceicco Tahnoun bin Zayed Al Nahyan, consigliere per la sicurezza nazionale degli Emirati. Pars Today spiega che dd accompagnare Shamkhani ci saranno  alti funzionari economici, bancari e della sicurezza che discuteranno le questioni di intresse comune, regionali e internazionali.
Commentando l'accordo tra Iran e Arabia Saudita per riprendere le relazioni diplomatiche Il portavoce del governo iraniano, Ali Bahadori Jahromi, ha detto che «La soluzione alle questioni regionali e globali non viene dall'Occidente. Questo evento e il rilancio delle relazioni tra i due Paesi hanno dimostrato che la soluzione delle questioni regionali e globali non passa per la rotta occidentale. La politica estera del 13esimo governo iraniano è stata quella di sviluppare relazioni di vicinato e dare priorità alla politica di diplomazia regionale, e questo recente evento è stato nella stessa direzione, e anche i Paesi della regione hanno accolto con favore il rilancio delle relazioni tra Iran e Arabia Saudita».
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Dal Pnrr 550 milioni per sostenere l’innovazione delle startup

550 milioni per sostenere linnovazione delle startup

Il ministero delle imprese e del made in Italy ha annunciato che «Startup e piccole e medie imprese possono presentare progetti riguardanti la transizione ecologica e digitale, finanziati con risorse europee ricomprese nel PNRR per un ammontare di 550 milioni. L’obiettivo è stimolare la crescita del Paese tramite investimenti di capitale di rischio (venture capital diretti e indiretti)».
I finanziamenti provengono dal Green Transition Fund (GTF), dotato di 250 milioni di euro, e dal Digital Transition Fund (DTF), dotato di 300 milioni, gestiti da CDP Venture Capital SGR per conto del ministero delle imprese e del Made in Italy, e sono compresi negli interventi PNRR “Supporto di startup e venture capital attivi nella transizione ecologica” e “Finanziamento di startup”.
GTF e  DTF) sono due fondi che promuovono l'innovazione in Italia attraverso investimenti di capitale di rischio, investono, direttamente o indirettamente, in imprese attive negli ambiti della transizione ecologica o digitale con l’obiettivo di sostenere i processi di transizione con l’impegno di risorse PNRR e attivando capitali privati con competenze specifiche, in tutte le fasi di sviluppo di un’impresa.
Il ministero sottolinea che «I progetti riguardanti la transizione verde potranno prevedere l’utilizzo di energia rinnovabile, mobilità sostenibile, efficienza energetica, economia circolare, mentre quelli legati alla transizione digitale dovranno interessare gli ambiti come l’Intelligenza Artificiale, l’Industria 4.0, la cybersicurezza, fintech e blockchain L’ente gestore selezionerà le proposte di investimento conformemente a quanto previsto dalla politica di investimento dei Fondi e in linea con le best practice di mercato. Il 40% delle risorse saranno riservate agli investimenti (diretti e indiretti) da realizzare nelle regioni del Mezzogiorno».
 
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Da Estra al via la nuova edizione di E-qube, pere sostenere start-up su energia e digitale

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Si alza oggi il sipario sulla quarta edizione di "E-qube startup&idea challenge", l’iniziativa messa in campo dalla multiutility Estra in collaborazione con Nana bianca e StratupItalia per individuare e lanciare sul mercato i migliori progetti in ambito digital&energy.
Le startup verranno selezionate in base ad un’azione di scouting e accelerazione continua, che porterà all’identificazione quadrimestrale delle priorità commerciali di Estra e ad una selezione di 2-3 startup target per la specifica priorità individuata, all’interno di un’unica call annuale.
La long list da cui selezionare i progetti sarà composta da 20 unità, e il supporto economico a beneficio dei progetti selezionati sarà pari a 10mila euro ciascuno, per un massimo di tre startup; è inoltre prevista la possibilità, da parte di Estra e di Nana bianca, di entrare nel capitale delle startup selezionate.
Ogni startup avrà a disposizione un certo numero di appuntamenti formativi su tematiche rispondenti ai bisogni specifici di progetto, oltre ad essere seguita da un mentore con la partecipazione a workshop e sessioni mensili di business review.
«E-qube è un’idea vincente – commenta l’ad di Estra, Alessandro Piazzi – che conferma la forte attenzione del nostro gruppo nei confronti dei valori dell’innovazione e dello sviluppo imprenditoriale, attraverso la selezione di start-up e di idee capaci di contribuire allo sviluppo sociale ed economico. La sfida nasce con la volontà di trovare e supportare proposte che abbiano forza, prospettive e grande consistenza in settori ad alto potenziale di sviluppo e che abbiano una forte connessione con le priorità commerciali di Estra».
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Batterie al litio, al via il progetto Enel X e Midac per riciclare almeno 10mila ton l’anno

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Enel X e Midac, azienda manifatturiera italiana che da un decennio produce batterie al litio, hanno avviato le attività di ricerca e sviluppo per realizzare in Italia il primo grande impianto di riciclo delle batterie al litio per veicoli elettrici, sistemi industriali e sistemi stazionari: l’obiettivo è quello di arrivare ad una capacità di almeno 10mila tonnellate all’anno.
L’iniziativa rientra nell’ambito del progetto europeo Ipcei sulle batterie, pensato per gestirne il fine vita in un’ottica circolare: entro soli sette anni, si stima infatti un volume complessivo di batterie al litio da riciclare di circa 200mila tonnellate.
«Partiremo dal riciclo per arrivare alle celle, i nostri impianti sorgeranno in Italia per rafforzare la presenza italiana nel comparto delle batterie e creare posti di lavoro e sviluppo in tutto il territorio nazionale», dichiara il presidente di Midac, Filippo Girardi.
Alimentare la transizione ecologica richiede una grande sfida in termini di approvvigionamento delle materie prime: basti osservare che la Commissione europea stima che al 2050 la domanda annua di litio da parte della Ue potrebbe aumentare di 56 volte rispetto ai livelli attuali, in primis (ma non solo) per coprire la domanda di mobilità elettrica.
Oltre a nuove miniere e a nuovi accordi commerciali, per soddisfare questa domanda è necessario massimizzare le potenzialità del riciclo, che entro il 2040 potrebbero fornire oltre la metà del litio necessario all’Europa.
«Questo progetto – argomenta Francesco Venturini, responsabile di Enel X – permetterà di creare nuovi mercati e nuove opportunità di crescita per le aziende, coniugando efficienza, sostenibilità e innovazione e facilitando l’Europa nel raggiungimento di un obiettivo di cruciale importanza, come una maggiore indipendenza di approvvigionamento delle materie prime».
In particolare, Enel X si occuperà di studiare e sviluppare le migliori tecnologie per lo smontaggio automatico delle batterie al litio ed il loro processo di riciclo; Mdac curerà lo sviluppo dell’intero processo di riciclo al litio, inizialmente in una dimensione in scala pilota, e successivamente realizzerà un impianto industriale con una capacità di almeno 10.000 tonnellate all’anno.
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Clima, dall’Europarlamento nuovi obiettivi vincolanti per il taglio delle emissioni nazionali

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Frutto di un accordo maturato con i Governi degli Stati membri, l’Europarlamento ha approvato oggi – con 486 voti favorevoli, 132 contrari e 10 astensioni – la revisione del cosiddetto “regolamento sulla condivisione degli sforzi”, che stabilisce i livelli vincolanti di riduzioni annuali per le emissioni di gas serra per il trasporto su strada, il riscaldamento degli edifici, l'agricoltura, i piccoli impianti industriali e la gestione dei rifiuti per ciascuno Stato membro dell'Ue: insieme, questi settori valgono circa il 60% di tutte le emissioni climalteranti europee.
Il testo deve ora essere formalmente approvato anche dal Consiglio, per essere poi pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell'Ue ed entrare così in vigore 20 giorni dopo.
«Con questa legge – dichiara la relatrice del provvedimento, l’europarlamentare Jessica Polfjärd –  compiamo un importante passo avanti nella realizzazione degli obiettivi climatici dell'Ue. Le nuove regole per la riduzione delle emissioni nazionali garantiscono un contributo da parte di tutti gli Stati membri e l'eliminazione delle lacune esistenti».
La nuova normativa Ue innalza l'obiettivo di riduzione dei gas serra a livello europeo, da raggiungere entro il 2030, dal 30 al 40% rispetto ai livelli del 2005. Per la prima volta, tutti i Paesi dell'Ue dovranno ridurre le emissioni di gas serra con obiettivi che variano dal 10 al 50% – con obiettivi di riduzione basati su Pil pro capite ed efficacia dei – costi e, ogni anno, dovranno inoltre garantire di non superare la propria quota annuale di emissioni di gas serra.
La legge mira a conciliare l'esigenza di flessibilità da parte dei Paesi dell'Ue per raggiungere i propri obiettivi e la necessità di una transizione giusta e socialmente equa: per questo motivo, viene limitata la flessibilità prevista dalla normativa precedente, riducendo la quantità di emissioni che gli Stati membri potranno risparmiare da anni precedenti, prendere in prestito da anni futuri e scambiare con altri Stati membri.
Per responsabilizzare gli Stati membri, la Commissione, su richiesta del Parlamento, renderà pubbliche le informazioni sulle azioni a livello nazionale in un formato facilmente accessibile.
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Dall’Europarlamento via libera alla nuova direttiva sull’efficienza energetica degli edifici

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Con 343 voti favorevoli, 216 contrari e 78 astensioni, la plenaria dell’Europarlamento ha approvato oggi la proposta di revisione della direttiva sulla prestazione energetica nell'edilizia (Epbd), che un mese fa aveva già ottenuto il via libera della commissione Itre.
Dopo il voto di oggi, la palla passerà ai negoziati finali tra Parlamento, Consiglio e Commissione Ue – il cosiddetto trilogo – prima di tornare in plenaria per l’approvazione nella formulazione definitiva.
«L'impennata dei prezzi dell'energia ha riportato l'attenzione sull'efficienza energetica e sulle misure di risparmio energetico – spiega il relatore della misura, l’europarlamentare Ciarán Cuffe – Migliorare le prestazioni degli edifici europei abbasserà le bollette e la nostra dipendenza dalle importazioni di energia. Vogliamo che la direttiva riduca la povertà energetica e le emissioni, e garantisca migliori ambienti interni per la salute delle persone. Si tratta di una strategia di crescita per l'Europa, che creerà centinaia di migliaia di posti di lavoro locali e di buona qualità nell'edilizia, nelle ristrutturazioni e nelle energie rinnovabili, migliorando il benessere di milioni di persone che vivono in Europa».
Il settore edilizio è responsabile infatti del 40% del consumo totale dell’energia e del 36% delle emissioni a effetto serra nell’Ue, ma già prima della guerra in Ucraina (dati 2020) circa 36 milioni di europei non potevano mantenere le loro case al caldo a causa di redditi bassi, spese energetiche elevate e scarsa efficienza degli impianti e degli edifici.
Per contrastare in un sol colpo povertà energetica e crisi climatica, la nuova proposta di direttiva propone di raggiungere la neutralità climatica degli edifici entro il 2050, introducendo importanti tappe intermedie a partire già dal 2026.
Per allora tutti i nuovi edifici pubblici dovranno essere a emissioni nette zero, un risultato che dovranno traguardare anche gli edifici privati entro il 2028. Soprattutto, case ed edifici residenziali dovranno raggiungere, come minimo, la classe di prestazione energetica E entro il 2030, e D entro il 2033 (per gli edifici non residenziali e pubblici i target dovranno essere raggiunti con 3 anni di anticipo, rispettivamente).
Per prendere in considerazione le differenti situazioni di partenza in cui si trovano i parchi immobiliari nazionali, nella classificazione di efficienza energetica, che va dalla lettera A alla G, la classe G dovrà corrispondere al 15% degli edifici con le prestazioni energetiche peggiori in ogni Stato membro.
Inoltre «gli interventi di miglioramento delle prestazioni energetiche (ad esempio sotto forma di lavori di isolamento o rinnovo dell'impianto di riscaldamento) dovranno essere effettuati al momento dell'ingresso di un nuovo inquilino, oppure al momento della vendita o della ristrutturazione dell'edificio».
Questi gli obiettivi generali: saranno i singoli Paesi Ue a stabilire le misure necessarie per raggiungerli, all’interno dei Piani nazionali di ristrutturazione che dovranno essere redatti, in modo da tener conto delle specificità nazionali. Un fronte sul quale il Governo italiano sembra però voler gettare la spugna senza neanche provarci.
«La direttiva sulle case green approvata in Parlamento europeo è insoddisfacente per l’Italia. Anche nel trilogo, come fatto fino a oggi, continueremo a batterci a difesa dell’interesse nazionale – dichiara il ministro dell’Ambiente, Pichetto Fratin – Non mettiamo in discussione gli obiettivi ambientali di decarbonizzazione e di riqualificazione del patrimonio edilizio, ma gli obiettivi temporali, specie per gli edifici residenziali esistenti, sono ad oggi non raggiungibili per il nostro Paese».
Secondo questa lettura gli obiettivi di efficienza energetica, ritenuti raggiungibili dalla maggioranza degli eurodeputati di tutti i Paesi europei, non sarebbero raggiungibili per quella che è ancora la seconda potenza industriale del Vecchio continente. È davvero così? Per rispondere, oltre al potenziale ancora inespresso in termini di efficientamento, basti osservare i trascorsi degli ultimi anni.
Secondo le stime prodotte dall’Associazione nazionale costruttori edili (Ance) gli obiettivi al 2033 si traducono per l’Italia in circa 200mila interventi di ristrutturazione su singoli edifici l’anno, per un costo di circa 40-60 mld di euro annui. Nel 2022, con ecobonus e superbonus in vigore, gli interventi sono stati 260mila. Tornando invece al regime pre-superbonus e pre-cessione del credito/sconto in fattura – ovvero la scelta politica operata recentemente proprio dal Governo Meloni – il ritmo cala di molto: la decarbonizzazione completa del parco edilizio verrebbe raggiunta tra 3.800 anni anziché nel 2050.
Non a caso gli eurodeputati hanno approvato una proposta in cui «i piani nazionali di ristrutturazione prevedano regimi di sostegno per facilitare l'accesso alle sovvenzioni e ai finanziamenti. Gli Stati membri dovranno allestire punti di informazione e programmi di ristrutturazione neutri dal punto di vista dei costi». È dunque evidente che anche l’Italia sarà presto chiamata, in caso di approvazione della nuova direttiva, a rivedere per l’ennesima volta gli incentivi a sostegno delle ristrutturazioni edilizie.
«Il via libera arrivato oggi dall’Eurocamera alla direttiva case green – commenta nel merito Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente – rappresenta un’ottima notizia. L’Italia non perda questa importante occasione, affronti con interventi concreti, politiche ambiziose e una revisione dei sistemi incentivanti, la sfida indicata dall’Europa a partire dalla definizione di un piano nazionale di riqualificazione edilizia evitando, però, di commettere gravi errori come quello fatto recentemente prevedendo lo stop alla cessione del credito e allo sconto in fattura».
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