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Le nuove norme Ue per l’industria a emissioni net zero e le materie prime non piacciono agli ambientalisti

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La Commissione europea ha adottato i regolamenti a sostegno dell’industria a emissioni net zero (NZIA - Net Zero Industry Act) e per l’accesso sicuro e sostenibile alle materie prime critiche (CRMA - Critical Raw Materials Act) che, insieme alla revisione della normativa sull’assetto del mercato dell’energia elettrica, costituiscono il pilastro legislativo del Piano industriale del Green Deal adottato dalla Commissione Ue a febbraio per rafforzare la competitività dell’industria europea a emissioni net zero e sostenere la rapida transizione verso la neutralità climatica.
Secondo il presidente nazionale di Legambiente Stefano Ciafani, «I due regolamenti a sostegno dell’industria a zero emissioni nette vanno nella giusta direzione, ma con alcune preoccupanti contraddizioni da superare nel corso del loro iter legislativo in Consiglio e Parlamento per poter centrare gli ambiziosi obiettivi climatici che l’Europa ha di fronte ed evitare rischi di deregulation ambientale nell’accelerazione delle procedure autorizzative. Purtroppo, tra le tecnologie strategiche da sostenere con progetti prioritari si include anche la cattura e lo stoccaggio di CO2 (CCS) con l’improbabile obiettivo di poter stoccare sul territorio europeo 50 milioni di tonnellate l’anno entro il 2030. Per di più, tra le altre tecnologie a zero emissioni nette, si prevede la possibilità di sostenere lo sviluppo di mini-reattori nucleari (Small Modular Reactors - SMR), una tecnologia che non potrà certamente rimpiazzare gli impianti nucleari obsoleti costretti a chiudere nei prossimi anni, visto che non riesce a risolvere il problema della gestione delle scorie producendo rifiuti radioattivi addirittura fino a 30 volte in più rispetto agli impianti convenzionali. Si tratta di scelte pericolose che rischiano di rallentare anziché accelerare la transizione energetica verso la neutralità climatica. Non è saggio destinare limitate e preziose risorse finanziarie pubbliche anche a costose tecnologie (CCS e SMR) ancora non disponibili su larga scala. Si sottraggono solo importanti risorse finanziarie a rinnovabili ed efficienza energetica allungando così pericolosamente il periodo di utilizzo dei combustibili fossili. Tempo prezioso che non abbiamo a disposizione».
Mauro Albrizio, responsabile ufficio europeo di Legambiente, aggiunge: «Per fronteggiare l’emergenza climatica e contribuire equamente al raggiungimento dell'obiettivo di 1.5° C, l'Europa deve andare oltre l’obiettivo del 57% annunciato alla COP27 e ridurre le sue emissioni di almeno il 65% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990 e poter così raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Una sfida che l’Europa può e deve vincere anche con il contributo cruciale del suo comparto industriale».
Il NZIA - Net Zero Industry Act punta a raggiungere entro il 2030 del 40% della capacità industriale necessaria per centrare gli obiettivi climatici Ue attraverso un quadro normativo che garantisca autorizzazioni semplificate e rapide, promuova finanziariamente progetti strategici europei e sostenga l’espansione di queste tecnologie in tutto il mercato unico. Un quadro normativo integrato dal Regolamento sulle materie prime critiche per garantire un accesso sufficiente a materiali, come le terre rare, che sono essenziali per la produzione di tecnologie chiave per la transizione green e digitale. La Commissione Ue prevede di raggiungere entro il 2030 il 10% di materiali estratti nel territorio Ue, il 40% di materiali processati e raffinati ed il 15% di materiali riciclati.
Ma Friends of the Earth Europe si è detta molto preoccupata per il fatto che «La principale priorità del regolamento di "garantire l'accesso dell'Unione a un approvvigionamento sicuro e sostenibile di materie prime essenziali", trascuri il fatto che la nostra attuale domanda di queste materie prime deve diminuire in modo significativo affinché la transizione green dell'Ue abbia successo in modo equo. In caso contrario, questa immensa domanda significherà solo più danni alle comunità che affrontano l'attività mineraria, al clima e all'ambiente».
Meadhbh Bolger, resource justice campaigner di Friends of the Earth Europe sottolinea che: «Le nostre speranze per queste nuove leggi rivoluzionarie sono infrante: l'Ue sta perdendo l'opportunità di liberarci dalla nostra enorme fame di materie prime. Le leggi finali si concentrano in modo miope sulla sicurezza dell'approvvigionamento, sul finanziamento di nuovi progetti e sul potenziamento dell'esplorazione nell'Ue e nei Paesi terzi, trascurando in gran parte le leggi sulla due diligence e i diritti umani, in particolare delle popolazioni indigene. Non possiamo continuare con il modello economico business-as-usual che richiede sempre di più. L'Ue deve sostenere la riduzione dell'uso delle risorse e i diritti umani nella transizione verde».
Friends of the Earth Europe  evidenzia che «Il regolamento promette di accelerare l'esplorazione in Europa, con gli Stati membri che devono elaborare programmi nazionali per l'esplorazione e dare la priorità a queste aree nelle leggi sulla pianificazione. Prevede inoltre un elenco di progetti strategici sia nell'Ue che nei Paesi terzi. Questi progetti beneficeranno di autorizzazioni rapide e alcuni saranno considerati di "interesse pubblico prevalente", il che potrebbe dare loro priorità, ad esempio, rispetto alle leggi sulla natura dell'Ue e alle leggi locali/regionali. Non vi è alcun obbligo per tutti i progetti di conformarsi alla legge Ue sulla due diligence, di effettuare valutazioni di impatto ambientale o di ottenere il consenso della comunità. Una certa quantità di materie prime sarà inevitabilmente necessaria nelle tecnologie della transizione verde, tuttavia il regolamento deve delineare chiaramente i modi per limitare la domanda di materie prime in tutta l'economia attraverso misure di riduzione e di sufficienza, come la ristrutturazione degli edifici per risparmiare energia, dando priorità al trasporto pubblico ripetto alle auto private e riducendo gli utilizzi non necessari come l'esplorazione dello spazio e gli armamenti. Ci sono alcune misure positive delineate sul riciclaggio, il riutilizzo e il re-mining dei rifiuti che aiuteranno in questo, ma non è sufficiente».
Il Wwf European Policy OfficeIl sostiene gli sforzi per promuovere la produzione europea di tecnologie pulite al fine di accelerare la transizione verso la neutralità climatica, ma denuncia che «La Commissione europea si sta perdendo grandi pezzi del puzzle: una transizione verde non avverrà senza un solido quadro di governance, un approccio integrato attraverso la decarbonizzazione e l'innovazione, né senza misure dal lato della domanda sulla sufficienza e la circolarità per ridurre la domanda di materie prime».
Anche il Wwf EU  evidenzia che «Sebbene sia auspicabile un'autorizzazione rapida ed efficiente, dovrebbe comunque essere ottenuta attraverso un'adeguata pianificazione e adeguate valutazioni dell'impatto ambientale. Entrambe le proposte minano le disposizioni chiave sulla protezione della natura e la partecipazione pubblica, ad esempio presumendo che i progetti a priorità netta zero e le operazioni minerarie siano di "interesse pubblico prevalente". Presentato per la prima volta nell'ambito delle proposte di RePowerEU per l'autorizzazione delle energie rinnovabili, questo approccio di deregolamentazione è la strada sbagliata da percorrere e potrebbe generare opposizione pubblica. Il Wwf ha avvertito di questo effetto valanga  e ritiene che la crisi climatica debba essere risolta in armonia con la natura, attraverso investimenti in migliori processi di pianificazione».
Anche il Wf denuncia che «La Commissione europea propone un elenco di settori che potrebbero richiedere lo status di progetti di industria net-zero al fine di ottenere procedure di autorizzazione più rapide. Eppure la Commissione Europea non fa distinzioni tra attività che sono dannose per l'ambiente e/o non dimostrate su larga scala (ad esempio la Carbon Capture and Storage - CCS, l'energia nucleare e l'idrogeno non rinnovabile) e quelle che sono pulite e necessitano di un rapido scaling up, come il solare fotovoltaico, l'energia eolica e le pompe di calore.  Inoltre, la Commissione europea non riconosce l'efficienza dei materiali e dell'energia come una parte importante dell'equazione».
Per Camille Maury, senior policy officer decarbonisation of industry del Wwf Europe, «Nella sua NZIA, la Commissione europea sta mescolando le mele con le arance. Le vere tecnologie verdi come la produzione di pannelli solari, turbine eoliche e idrogeno rinnovabile per settori mirati non possono essere messe sullo stesso piano della CCS. Questo rischia di danneggiare il successo complessivo della NZIA dell'Ue bloccandoci nella dipendenza dai combustibili fossili ancora più a lungo. E ancora una volta vediamo la Commissione prendere il martello della deregolamentazione quando dovrebbe usare strumenti di precisione. L'abolizione delle norme sulla protezione della natura e la partecipazione della società civile e delle comunità locali al processo di pianificazione è fuorviante e potrebbe facilmente ritorcersi contro la Commissione Ue. Dobbiamo affrontare insieme le crisi del clima e della biodiversità, non scambiare l'una con l'altra».
Il Wwf riconosce la necessità dell'Ue di avere materie prime critiche per garantire il massiccio dispiegamento di energie rinnovabili per fermare il cambiamento climatico fuori controllo ed evitare la dipendenza dell'Ue da paesi terzi, come per il petrolio e il gas. «Tuttavia, la proposta della Commissione manca di diversi elementi critici come l'incertezza sui potenziali impatti delle leggi sulla protezione della natura e dei progetti minerari».
Secondo Tobias Kind-Rieper, global lead mining & metals del Wwf, «La proposta della Commissione contiene alcuni sviluppi positivi, come nuove regole sull'impronta ambientale per i progetti minerari e l'importanza della circolarità per le materie prime critiche. Ma la disposizione prevalente di interesse pubblico e altre esenzioni dalle leggi ambientali potrebbero causare danni gravi e inutili alla nostra biodiversità e alla natura, in particolare alle aree protette all'interno dell'Ue. Inoltre, avere un obiettivo di almeno il 40% delle materie prime lavorate e raffinate all'interno dell'Ue non è realistico e costituirebbe anche un ostacolo ai negoziati sulle materie prime con i Paesi partner».
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L’Australia vuole i sottomarini nucleari AUKUS, ma nessuno vuole le loro scorie radioattive

sottomarini nucleari AUKUS

I Paesi che compongono l'alleanza trilaterale AUKUS - Australia, Stati Uniti e Regno Unito – si sono incontrati a San Diego, in California, dove hanno approvato la vendita di sottomarini a propulsione nuclere statunitensi all’Australia. Inoltre, il primo ministro laburista australiano, Anthony Albanese, ha confermato che il suo Paese costruirà una propria flotta di sottomarini nucleari, che saranno operativi all'inizio degli anni 2040. Un accordo che vale miliardi di dollari e che vedrà l'Australia diventare la settima nazione con sottomarini a propulsione nucleare nel suo arsenale militare. L’accordo nucleare AUKUS è stato presentato come risposta alle preoccupazioni occidentali sull'espansione militare della Cina nella regione indo-pacifica. Pechino ha criticato l'accordo sui sottomarini nucleari accusando Usa, Australie

Il nuovo Piano regionale dell’economia circolare propone scenari, in attesa degli impianti

piano regionale economia circolare toscana 1

Il vecchio Piano regionale su rifiuti e bonifiche (Prb), approvato in Toscana nel 2014, è arrivato da anni a conclusione senza aver raggiunto nessuno dei principali obiettivi che si era dato. Avrebbe dovuto essere aggiornato nel 2018, con orizzonte 2023, ma in realtà ci sono stati cinque anni di vuoto. La nuova proposta di Piano dell’economia circolare e delle bonifiche (Prec) è stata presentata dalla Giunta toscana solo ieri.
Il documento, approvato pochi giorni fa con la Proposta di deliberazione al C.R. n.23 del 13-03-2023, non è comunque quello definitivo: dovrà passare adesso all’esame del Consiglio regionale per le fasi di adozione e approvazione. Si tratta di un puntuale lavoro di ricognizione che si snoda lungo centinaia di pagine, offrendo possibili soluzioni ai problemi che gravano sulla gestione rifiuti toscana, ma senza confermarne alcuna: dove, quali e quanti impianti localizzare non è dato sapere al momento.
«Il nuovo Piano dell’economia circolare – spiega il presidente Eugenio Giani – apre una prospettiva di modernizzazione  e innovazione nel processo di trasformazione e assorbimento dei rifiuti, con nuovi possibili impianti, che consentiranno una sempre maggiore autosufficienza nello smaltimento e nella conversione dei rifiuti in materiali recuperati ed energia».
Sulla stessa linea l’assessora regionale all’Ambiente, Monia Monni: «Il nuovo Piano dell’economia circolare è un punto di partenza. È una strategia complessiva e una visione della Toscana del futuro che può sostanziarsi unicamente attraverso il protagonismo dei territori. È una chiamata, se volete. Perché se intendiamo davvero percorrere compiutamente la strada verso l’economia circolare, possiamo farlo solo assieme».
Ad oggi
Di fatto, il Piano si limita a indicare degli scenari, sia per i rifiuti urbani sia per gli speciali. Ai sensi di legge guarda all’orizzonte temporale dei prossimi sei anni, spingendosi comunque a sbirciare fino al 2035 quando per i rifiuti urbani – in base alle più recenti direttive Ue in materia – il riciclo effettivo dovrà arrivare minimo al 65% e lo smaltimento in discarica massimo al 10%. Di fatto, si dà per scontato che da qui al 2028 potrà cambiare molto poco nell’assetto impiantistico regionale.
«Poiché gli interventi funzionali alla virtuosa “chiusura del ciclo gestionale” potranno concretizzarsi, almeno per le componenti impiantistiche riferite al trattamento dei rifiuti urbani e dei rifiuti decadenti dal loro trattamento, solo dall’anno 2028, è evidente – si legge nel documento – come il periodo temporale di vigenza del presente Piano sia per lo più da definirsi “transitorio” verso il nuovo assetto impiantistico; tutto il Piano è pertanto impostato evidenziando la progressiva evoluzione del sistema gestionale attraverso: la contrazione della produzione di rifiuti, l’incremento del recupero e del riciclaggio, la progressiva minimizzazione dello smaltimento in discarica sino a tendere all’anno 2027 ad una percentuale di smaltimento intorno al 20%».
Più nel dettaglio, il Piano sviluppa due ipotesi per i rifiuti urbani: uno scenario inerziale (senza l’attivazione di azioni di Piano) e uno programmatico con «prestazioni di “eccellenza” per quanto concerne i servizi di raccolta e l’attivazione di impiantistica innovativa». Sui rifiuti speciali, che sono circa un quintuplo degli urbani, si limita a fornire «indirizzi per l’evoluzione nella direzione di massimizzare il recupero sia di materia che di energia anche attraverso l’utilizzo dell’impiantistica innovativa, contraendo conseguentemente i fabbisogni di smaltimento».
Per quanto riguarda ad esempio la produzione complessiva di rifiuti urbani, nello scenario inerziale si prevede una contrazione al 2028 del 2,1% e al 2035 del 3,6%, rispetto alla produzione 2019; nello scenario programmatico una contrazione al 2028 del 4,9% e al 2035 del 10,5%, rispetto alla produzione 2019.
La raccolta differenziata crescerebbe nella media degli ultimi anni nello scenario inerziale (+12% e -27% di indifferenziata al 2035), mentre in quello programmatico arriverebbe all’82% al 2035 (+22%, -60%); per il riciclo effettivo, cui guarda l’Ue, si parla invece del 61,6% al 2028.
Numeri che resterebbero però campati in aria, se non si realizzassero le proposte impiantistiche necessarie a dargli corpo. Su questo fronte le ipotesi in campo sono sempre le 39 manifestazioni di interesse presentate nell’ambito dell'Avviso pubblico bandito dalla Regione a fine 2021.
«Le potenzialità “teoriche” di trattamento che si genererebbero con l’attivazione di tutti gli impianti proposti attraverso le manifestazioni di interesse sono pari ad oltre 3 milioni di tonnellate di rifiuti», osserva il Piano. In questo caso il sistema gestionale regionale si troverebbe «nella condizione di pieno soddisfacimento dei fabbisogni di trattamento a recupero dei rifiuti urbani e derivati, in totale autosufficienza», e non solo per gli urbani: lo sviluppo della nuova impiantistica si configura «come un’occasione per conseguire gli obiettivi normativi per la gestione dei rifiuti urbani ma anche un’opportunità per migliorare la gestione dei rifiuti speciali prodotti negli importanti distretti produttivi regionali, rendendo gli stessi più “ambientalmente sostenibili” e più competitivi sul mercato […] La “nuova impiantistica di mercato per economia circolare” sarà inoltre fondamentale per l’integrazione gestionale tra rifiuti urbani e rifiuti speciali, con l’obiettivo di incrementare le sinergie tra i diversi settori industriali e minimizzare quanto più possibile gli smaltimenti in discarica».
Senza impianti alternativi, invece, continueranno ovviamente a crescere le discariche e/o l’export di rifiuti. Più concretamente, lo scenario programmatico prevede al 2028 un fabbisogno di smaltimenti in discarica per 7,8 mln di metri cubi (3,9 mln mc urbani e 3,9 mln mc speciali), mentre quello inerziale 10,3 mln mc (6,3 mln mc urbani e 4 mln mc speciali). Una differenza non da poco. Ma se non arriveranno decisioni precise di politica industriale, per inerzia la Toscana andrà dritto verso lo scenario meno sostenibile.
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Mobilità elettrica, operative le prime cinque stazioni di ricarica installate a Rosignano

coloninna ricarica elettrica scapigliato

Nonostante il rinvio subito in Europa al via libera definitivo per lo stop alla vendita di auto e furgoni con emissioni di CO2 dal 2035, arrivato anche a causa delle resistenze del Governo Meloni, a Rosignano Marittimo proseguono gli investimenti per favorire la mobilità elettrica di residenti e turisti.
Si sono concluse positivamente le operazioni di allaccio delle prime cinque stazioni di ricarica installate da Scapigliato sul territorio comunale di Rosignano, annunciate nel dicembre 2022.
A partire da oggi sono infatti operative le colonnine poste a Castiglioncello (via Gorizia), Vada (piazza Garibaldi) e Rosignano Solvay (piazza Monte alla Rena, via della Repubblica e via dell’Energia in località Le Morelline, nei pressi dell’attuale sede dello sportello “Scapigliato Energia”).
L’iniziativa nasce grazie alla convenzione siglata col Comune di Rosignano Marittimo e nell’ambito del progetto “Scapigliato Energia”, con cui la Società intende massimizzare sul territorio locale i benefici legati alla produzione di energia rinnovabile a partire dal biogas di discarica.
Le stazioni di ricarica, ognuna delle quali dotata di 2 prese standard Tipo2 da 22kW, possono essere utilizzate da tutti, con particolari benefici per i clienti “Scapigliato Energia” che possono avvalersi in corso d’anno di 2.000 kWh di ricarica gratuita: un quantitativo sufficiente a percorrere circa 13mila chilometri.
La ricarica dei veicoli elettrici alle colonnine di Scapigliato può essere effettuata con più modalità: tramite tessera Rfid, da richiedersi gratuitamente online sul sito www.scapigliato.it alla pagina “Colonnine di ricarica per veicoli elettrici”; con l’app Eco E-Mobility scaricabile su smartphone da Appstore o Google play store, che consente la ricarica anche presso tutte le colonnine sul territorio nazionale interoperabili con E.co–Neogy; tramite carta di credito, seguendo le istruzioni del codice Qr presente in ogni stazione di ricarica.
Per maggiori informazioni è possibile consultare il sito web di Scapigliato all’indirizzo www.scapigliato.it (percorso Iniziative per il territorio/Scapigliato Energia/Colonnine di ricarica per veicoli elettrici), oppure rivolgersi allo sportello “Scapigliato Energia” (tel. 0586-03.23.23 / e-mail info.energia@scapigliato.it), aperto al pubblico dal lunedì al sabato, con orario 9.00 – 12.30, e il martedì e il giovedì anche dalle 15.00 alle 18.00, in località Le Morelline Due, a Rosignano Solvay.
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Il governo britannico regala 300 milioni di sterline alle compagnie aeree inquinanti

300 milioni di sterline alle compagnie aeree inquinanti

Nell'ambito dell'Emissions Trading Scheme del Regno Unito (ETS UK), che avrebbe lo scopo di ridurre le emissioni di gas serra costringendo i grandi inquinatori ad acquistare un permesso per ogni tonnellata di carbonio che emettono e a rimpinguare così le casse pubbliche, il governo conservatore britannico ha concesso più di 300 milioni di sterline di "permessi di inquinamento" gratuiti a compagnie aeree come British Airways, RyanAir e EasyJet.
OpenDemocracy sottolinea che così, un programma progettato per affrontare il cambiamento climatico ottiene l’effetto contrario e rivela che «L'anno scorso il settore dell'aviazione del Regno Unito ha ricevuto gratuitamente più di 4 milioni di "permessi di inquinamento". I 4,1 milioni di tonnellate di CO2 che rappresentano equivalgono alle emissioni di oltre 400.000 passeggeri che volano in classe economica da Londra a Sydney e ritorno. I permessi gratuiti hanno consentito alle compagnie aeree di risparmiare l'equivalente di 336 milioni di sterline in base al prezzo medio annuo del carbonio, il 39% in più rispetto all'anno precedente, il 2021».
I grandi vincitori delle dispense ETS UK sono state le compagnie aeree EasyJet, RyanAir e British Airways, che hanno ricevuto rispettivamente quote gratuite di emissioni del valore rispettivamente di 84 milioni di sterline, 73 milioni di sterline e 58 milioni di sterline. OpenDemocracy ricorda che «Tutte le compagnie hanno subito pesanti perdite durante la pandemia, ma da allora sono tornate redditizie: il mese scorso, International Airlines Group (IAG), proprietario di British Airways, ha annunciato profitti per 1,3 miliardi di sterline, mentre RyanAir ha appena goduto del suo "trimestre di dicembre più redditizio mai registrato" e easyJet sta  riportando “vendite record”».
Precedentemente openDemocracy aveva rivelato come le compagnie petrolifere e del gas, comprese  Shell e BP, durante il 2022 hanno ricevuto allo stesso modo più di 1 miliardo di sterline di permessi di inquinamento gratuiti.
Caroline Lucas, deputata dl  Green Party ha detto a openDemocracy che «Il governo sta lasciando che le compagnie aeree la facciano franca e costringe il pubblico a pagare il conto. I ministri devono porre immediatamente fine a questi permessi di inquinamento gratuiti e far pagare alle imprese ad alto contenuto di carbonio i danni che stanno causando al clima».
Il Department for Net Zero and Energy Security sta ora analizzando i risultati di una consultazione sull'eliminazione graduale dei permessi gratuiti per il settore dell'aviazione, ma gli eventuali cambiamenti politici non entreranno in vigore almeno fino al 2026. Intanto il governo conservatore britannico ha già stanziato 12,2 milioni di permessi gratuiti per i prossimi tre anni, che al prezzo del carbonio del 2022 arranno altri 965 milioni di sterline.
Un portavoce del governo ha detto a openDemocracy che il Regno Unito sta regalando permessi gratuiti perché «Si è impegnato ad affrontare il cambiamento climatico ma anche a proteggere la nostra industria dal carbon leakage». Un portavoce del governo ha dichiarato a openDemocracy: «l Regno Unito è impegnato ad affrontare il cambiamento climatico proteggendo al contempo la nostra industria dal carbon leakage. Questo è il motivo per cui una parte delle quote viene assegnata gratuitamente alle imprese nell'ambito del sistema di scambio di quote di emissione del Regno Unito». Inoltre, la consegna di permessi gratuiti ai giganti delle compagnie aeree «Ssosterrebbe l'industria nella transizione versoil net zero nel contesto degli alti prezzi energetici globali, incentivando al contempo la decarbonizzazione a lungo termine».
Ma, secondo  il rapporto finale dell’Economic research on the impacts of carbon pricing on the UK aviation sector” commissionato dallo stesso governo ad Air e Frontier Economics, il rischio di carbon leakage – quando le imprese si trasferiscono in Paesi che non hanno il carbon pricing – è minimo.
Lo studio di Air e Frontier Economics realizzato per conto del Department for Transport (DfT) e del Department for Business, Energy, and Industrial Strategy (BEIS) ha anche rilevato che «Porre fine ai permessi gratuiti porterebbe a una diminuzione dei profitti delle compagnie aeree e migliorerebbe la concorrenza sul mercato».
Daniele de Rao, esperto di aviazione di Carbon Market Watch, ha fatto notare che «Nonostante diversi studi dimostrino che il rischio di carbon leakage nel settore dell'aviazione è insignificante, le compagnie aeree stanno ancora ricevendo un'enorme quantità di assegnazioni gratuite. Il Regno Unito dovrebbe applicare il principio “chi inquina paga” nel proprio ETS e, seguendo l'esempio dell'Unione Europea, dovrebbe porre fine il prima possibile all'erogazione di permessi di inquinamento gratuiti alle compagnie aeree».
Matt Finch, policy manager britannico di Transport & Environment, ha aggiunto: «La nazione è all’erta per l'inquinamento delle acque reflue, ma allo stesso tempo il nostro governo sta pagando alle compagnie aeree milioni di sterline all'anno per inquinare. Sono queste le azioni di un leader climatico? No. Le quote gratuite dovrebbero essere gradualmente eliminate dall'ETS, il più rapidamente possibile».
I restanti 120 milioni di sterline in permessi gratuiti sono stati spartiti tra il resto del settore aereo del Regno Unito e anche i super-ricchi proprietari di jet privati ​​hanno ricevuto sussidi. Ineos Aviation, la compagnia di proprietà del miliardario petroliere Jim Ratcliffe, ha ricevuto permessi gratuiti per un valore di circa 2.000 sterline.
Il governo britannico ribatte che «Il nostro ETS nel Regno Unito è più ambizioso del sistema dell'Ue che sostituisce». Ma openDemocracy replica: «L'Ue ha votato per eliminare gradualmente le assegnazioni di permessi gratuiti a partire dal 2026. Inoltre, ridistribuisce i ricavi derivanti dalla vendita di permessi a progetti ambientali, mentre nel Regno Unito i proventi vengono trattenuti dal Tesoro».
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Tecnologie verdi: mercato in crescita e aumenta il gap tecnologico dei Paesi in via di sviluppo

Tecnologie verdi

Le tecnologie verdi - quelle utilizzate per produrre beni e servizi con una minore impronta di carbonio - sono in crescita e offrono crescenti opportunità economiche ma, a meno che i governi nazionali e la comunità internazionale non intraprendano un'azione decisiva, queste opportunità potrebbero essere perse da molti Paesi in via di sviluppo.
E’ l’allarme lanciato dal Technology and Innovation Report 2023 dell'United Nations Conference on Trade and Development (UNCTAD) che avverte che «Le disuguaglianze economiche rischiano di aumentare man mano che i Paesi sviluppati raccolgono la maggior parte dei benefici delle tecnologie verdi come l'intelligenza artificiale, l'Internet delle cose e i veicoli elettrici».
Presentando il nuovo rapporto, la segretaria generale dell'UNCTAD, Rebeca Grynspan, ha ricordato che «Siamo all'inizio di una rivoluzione tecnologica basata sulle tecnologie verdi. Questa nuova ondata di cambiamento tecnologico avrà un impatto formidabile sull'economia globale. I Paesi in via di sviluppo devono ottenere una parte maggiore del valore creato in questa rivoluzione tecnologica per far crescere le loro economie. Perdere questa ondata tecnologica a causa di un'insufficiente attenzione politica o della mancanza di investimenti mirati nella costruzione di capacità avrebbe implicazioni negative di lunga durata».
L'UNCTAD stima che le 17 tecnologie di frontiera trattate nel rapporto potrebbero creare un mercato di oltre 9,5 trilioni di dollari entro il 2030, circa 3 volte la dimensione attuale dell'economia indiana. Ma finora le economie sviluppate stanno cogliendo la maggior parte delle opportunità, lasciando ancora più indietro le economie in via di sviluppo. Il rapporto evidenzia che «Le esportazioni totali di tecnologie verdi dai Paesi sviluppati sono passate da circa 60 miliardi di dollari nel 2018 a oltre 156 miliardi di dollari nel 2021. Nello stesso periodo, le esportazioni dai Paesi in via di sviluppo sono aumentate da 57 miliardi di dollari a solo circa 75 miliardi di dollari. In tre anni, la quota di esportazioni globali dei Paesi in via di sviluppo è scesa da oltre il 48% a meno del 33%».
Secondo l’UNCTAD, «Le tecnologie di frontiera verdi, come i veicoli elettrici, l'energia solare ed eolica e l'idrogeno verde, nel 2030 dovrebbero raggiungere un valore di mercato di 2,1 trilioni di dollari, 4 volte superiore al loro valore attuale. I ricavi del mercato dei veicoli elettrici potrebbero aumentare di 5 volte per raggiungere 824 miliardi di dollari entro il 2030, rispetto al valore attuale di 163 miliardi di dollari».
L'analisi UNCTAD di mostra che «I Paesi in via di sviluppo devono agire rapidamente per beneficiare di questa opportunità e passare a una traiettoria di sviluppo che porti a economie più diversificate, produttive e competitive. Le precedenti rivoluzioni tecnologiche hanno dimostrato che i primi utenti possono andare avanti più rapidamente e creare vantaggi duraturi».
Il rapporto include anche il “frontier technology readiness index" che mostra che pochissimi Paesi in via di sviluppo hanno le capacità necessarie per trarre vantaggio dalle tecnologie di frontiera che includono blockchain, droni, editing genetico, nanotecnologia ed energia solare. L'index classifica 166 Paesi in base a indicatori ICT, competenze, ricerca e sviluppo, capacità industriale e finanza ed è dominato dalle economie ad alto reddito, nei primi 10 posti del Frontier technologies readiness index 2023 ci sono: Stati Uniti, Svezia, Singapore, Svizzera, Paesi Bassi, Corea del sud, Germania, Finlandia, Hong Kong (Cina), Belgio. L’Italia è 25esima nel, nel 2021 era 24esima.
Anche se i paesi in via di sviluppo siano i meno preparati a utilizzare le tecnologie di frontiera, diverse economie asiatiche  hanno apportato importanti cambiamenti politici che hanno consentito loro di ottenere risultati migliori del previsto in base al loro PIL pro capite: l'India resta il Paese asiatico con la migliore performance, classificandosi a 67 posizioni meglio del previsto, seguita dalle Filippine (54 posizioni meglio) e dal Vietnam (44 meglio).
L'indice mostra che i paesi dell'America Latina, dei Caraibi e dell'Africa subsahariana sono i meno pronti a sfruttare le tecnologie di frontiera e rischiano di perdere le attuali opportunità tecnologiche. A chiudere la classifica sono 8 Paesi africani e 2 asiatici: ultimo è il Sud Sudan al 166esimo posto, preceduto da Guinea Bissau, Afghanistan, Sudan, Repubblica democratica del Congo, Sierra Leone, Gambia, Yemen, Burundi e Guinea. Si tratta quasi sempre di Paesi dove abbondano le risorse naturali e minerarie che sostengono le tecnologie versi, ma anche dove scarseggiano i pannelli solari e abbondano i Kalashnikov.
Shamika N. Sirimanne, direttrice della divisione tecnologia e logistica dell'UNCTAD, ha sottolineato che «Per trarre vantaggio dalla rivoluzione della tecnologia verde, nei Paesi in via di sviluppo sono necessarie politiche industriali, innovative ed energetiche proattive mirate alle tecnologie verdi. I paesi in via di sviluppo hanno bisogno di agency and urgency per trovare le giuste risposte politiche. Mentre i Paesi in via di sviluppo rispondono alle odierne urgenti crisi interconnesse, devono anche intraprendere azioni strategiche a lungo termine per costruire innovazione e capacità tecnologiche per stimolare una crescita economica sostenibile e aumentare la loro resilienza alle crisi future».
Per questo l’'UNCTAD invita i governi dei paesi in via di sviluppo ad «Allineare le politiche ambientali, scientifiche, tecnologiche, innovative e industriali» e li esorta a «Dare priorità agli investimenti in settori più verdi e più complessi, a fornire incentivi per spostare la domanda dei consumatori verso beni più green  a stimolare gli investimenti in ricerca e sviluppo». Inoltre, «I paesi in via di sviluppo dovrebbero  rafforzare urgentemente le competenze tecniche e aumentare gli investimenti nelle infrastrutture TIC, colmando i divari di connettività tra piccole e grandi imprese e tra regioni urbane e rurali».
Un compito che va probabilmente oltre le forze di molti Paesi in via di sviluppo (per non parlare di quelli meno sviluppati) che non possono trarre vantaggio dalle tecnologie verdi da soli. Il rapporto UNCTAD ribadisce che «Gran parte del successo delle loro politiche interne dipenderà dalla cooperazione globale attraverso il commercio internazionale, che richiederebbe riforme delle regole commerciali esistenti per garantire la coerenza con l'Accordo di Parigi per affrontare il cambiamento climatico. Le regole del commercio internazionale dovrebbero consentire ai Paesi in via di sviluppo di proteggere le industrie verdi emergenti attraverso tariffe, sussidi e appalti pubblici, in modo che non solo soddisfino la domanda locale, ma raggiungano anche le economie di scala che rendono le esportazioni più competitive.
E’ fondamentale anche il sostegno internazionale per trasferire le tecnologie verdi ai Paesi in via di sviluppo. Il rapporto propone «L'applicazione dei principi che sono stati invocati contro la pandemia di COVID-19, quando ad alcuni Paesi è stato consentito di produrre e fornire vaccini senza il consenso del titolare del brevetto. Questo ffrirebbe ai produttori dei Paesi in via di sviluppo un accesso più rapido alle principali tecnologie verdi. Il commercio internazionale e le relative norme sulla proprietà intellettuale dovrebbero fornire maggiore flessibilità ai Paesi in via di sviluppo per mettere in atto politiche industriali e di innovazione per alimentare le loro industrie nascenti in modo che possano emergere nuovi settori della tecnologia verde».
Il rapporto si conclude chiedendo «Un programma internazionale di acquisto garantito di prodotti green commerciabili, la ricerca coordinata sulle tecnologie verdi a livello multinazionale, un maggiore sostegno ai centri regionali di eccellenza per le tecnologie verdi e l'innovazione e un fondo multilaterale per stimolare le innovazioni green e rafforzare la cooperazione tra Paesi».
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La Commissione Ue avvia la caccia alle materie prime critiche e strategiche

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Con il suo Net-zero industry act, presentato oggi, la Commissione Ue punta a produrre sul territorio europeo almeno il 40% delle tecnologie verdi che usa annualmente: per questo però serve (anche) un approvvigionamento adeguato di materie prime, motivo per cui da Bruxelles è arrivata una nuova proposta legislativa denominata Critical raw materials act.
Le cosiddette “materie prime critiche” sono così definite in ragione del rischio circa la loro effettiva disponibilità e per la loro rilevanza sulle attività economiche, non solo green; dal loro impiego passa infatti il 32% del Pil italiano, come recentemente documentato dall’Enea.
Dall’antimonio al vanadio, sono 34 le materie prime definite come critiche nella proposta europea, cui per la prima volta si affianca anche una più compatta lista di 16 materie prime ribattezzate strategiche in virtù della loro rilevanza per le filiere industriali essenziali come quelle di energie rinnovabili, economia digitale, operazioni spaziali e comparto della difesa.
L’intera iniziativa parte da una consapevolezza di fondo: «L'Ue non sarà mai autosufficiente nell'approvvigionamento di tali materie prime e continuerà a dipendere dalle importazioni per la maggior parte del suo consumo». Per evitare di ricadere in una trappola geopolitica simile a quella dei combustibili fossili, che hanno legato a doppio filo l’economia europea con fornitori poco affidabili e per niente sostenibili – basti guardare alla Russia – occorre dunque diversificare le forniture, riciclare e aprire nuove miniere su suolo europeo.
Ad oggi invece l’Ue spesso si approvvigiona di materie prime critiche per oltre il 90% da un unico fornitore, in genere la Cina. Ad esempio arriva dal Paese asiatico il 97% del magnesio consumato in Europa o il 100% delle terre rare usate per i magneti permanenti; il 63% del cobalto globale è estratto in Congo e raffinato per il 60% in Cina, mentre arriva dal Sudafrica il 71% del platino e dalla Turchia il 98% del borato. Livelli comprensibilmente ritenuti non sostenibili.
Per questo la proposta legislativa prevede che non più del 65% di qualsivoglia materia prima strategica possa arrivare da un Paese terzo rispetto all’Ue; in compenso, entro il 2030 dovrà essere interno all’Unione europea almeno il 10% dell’estrazione mineraria, il 15% del riciclo e il 40% della trasformazione di tali materie prime.
«Questa legge – spiega la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen – ci avvicinerà alle nostre ambizioni climatiche. Migliorerà in modo significativo la raffinazione, la lavorazione e il riciclaggio delle materie prime critiche qui in Europa.  E stiamo rafforzando la nostra cooperazione con partner commerciali affidabili a livello globale, per ridurre le attuali dipendenze dell'Ue solo da uno o pochi Paesi».
Per raggiungere questi obiettivi, oltre a sviluppare partenariati commerciali strategici, Bruxelles propone di ridurre gli oneri amministrativi e semplificare le procedure autorizzativi dei progetti industriali che nasceranno su suolo europeo: quelli che verranno individuati come strategici dovranno concludersi entro 24 mesi (nel caso di nuove miniere) o 12 mesi (per raffinazione e riciclo), mentre tutti gli Stati membri saranno chiamati a sviluppare programmi nazionali per l’esplorazione delle proprie risorse minerarie.
Al contempo, gli Stati membri dovranno adottare e attuare anche misure nazionali per migliorare la raccolta dei rifiuti ricchi di materie prime critiche e garantirne il riciclo, ma anche esaminare il potenziale di recupero dai rifiuti di estrazione delle attuali o passate attività minerarie. Il tutto mantenendo elevati standard di tutela ambientale e sociale.
«Il miglioramento della sicurezza e dell'accessibilità delle forniture di materie prime critiche deve andare di pari passo – sottolineano dalla Commissione – con maggiori sforzi per mitigare eventuali impatti negativi, sia all'interno dell'Ue che nei Paesi terzi, per quanto riguarda i diritti dei lavoratori, diritti umani e tutela dell'ambiente».
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Net-zero industry act, l’Ue punta a produrre in casa il 40% delle tecnologie verdi

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Nell’ambito del piano industriale per il Green deal, la Commissione Ue ha proposto oggi il Net-zero industry act: l’obiettivo è produrre su suolo europeo, entro il 2030, almeno il 40% del fabbisogno annuo di tecnologie utili alla neutralità climatica.
È il tentativo con cui l’Ue prova a rispondere sia al predominio della Cina in quest’ambito – ad oggi la Cina rappresenta il 90% degli investimenti globali in impianti di produzione di tecnologie net-zero –, sia all’Inflaction reduction act statunitense, con cui l’amministrazione Biden ha stanziato 370 mld di dollari per finanziare la produzione di tecnologie verdi.
«Abbiamo bisogno di un contesto normativo che ci consenta di accelerare rapidamente la transizione verso l'energia pulita – spiega la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen – Il Net-zero industry act farà proprio questo. Creerà le migliori condizioni per quei settori che sono cruciali per noi per raggiungere le emissioni nette zero entro il 2050».
Più nel dettaglio, la proposta di legge sostiene in particolare otto tecnologie definendole come strategiche: solare fotovoltaico e termico; eolico onshore e fonti rinnovabili offshore; batterie e accumulatori; pompe di calore e geotermia; elettrolizzatori e celle a combustibile; biogas e biometano; cattura e stoccaggio del carbonio (Ccs), su cui punta anche l’Ipcc nonostante le perplessità degli ambientalisti e di alcuni scienziati; tecnologie per le reti elettriche. Tra quelle non strategiche, ma comunque supportate dalla proposta di legge, rientrano anche le “tecnologie avanzate per produrre energia nucleare”.
In concreto, tra le principali misure inserite nella proposta legislativa figura in primis la riduzione degli oneri amministrativi per il rilascio delle autorizzazioni impiantistiche: gli Stati membri sono chiamati a istituire sportelli che fungano da punti di contatto unici con l’amministrazione pubblica per i promotori dei progetti industriali, e vincoli temporali stringenti (12 mesi per gli impianti con produzioni entro 1 GW e 18 mesi per taglie superiori, che diventano rispettivamente 9 e 12 mesi se si parla di tecnologie strategiche).
Ma non basta incrementare la capacità produttiva, occorre anche avere una forza lavoro adeguatamente formata per lavorare negli impianti: per questo la proposta prevede la creazione di Net-zero industry academies per favorire la creazione di un’occupazione di qualità nell’ambito della green economy.
In ogni caso, quella di oggi rappresenta solo una prima proposta da parte della Commissione Ue: adesso l'iter legislativo prevede l'esame da parte del Parlamento e del Consiglio Ue prima di arrivare alla pubblicazione in Gazzetta ufficiale e dunque all'entrata in vigore.
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Geotermia: impatti, accettabilità sociale e il ruolo della comunicazione

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La transizione energetica, e con essa lo sviluppo del mercato geotermico, non riguarda solo l'adozione, il potenziamento e l'integrazione di varie tecnologie energetiche: implica anche un modo diverso di incorporare le questioni energetiche nella e per la società nel suo complesso.
Molte tecnologie di energia rinnovabile sono state oggetto di preoccupazione e lo sviluppo industriale è talvolta rallentato dall'opposizione sociale, un problema che si avverte anche nel settore geotermico. Negli ultimi anni si stanno susseguendo studi per analizzare le ragioni e gli effetti di questa opposizione. In molte conclusioni viene invocata la trasparenza, intesa non solo come comunicazione ampia e corretta dei dati e delle informazioni. La trasparenza, infatti, viene abbinata sempre più frequentemente al coinvolgimento del pubblico, cioè la partecipazione dei cittadini che sono direttamente e localmente interessati dal progetto.
Per lo sviluppo di un progetto sono quindi necessarie nuove forme di dibattito e processi democratici, sia per il perseguimento dei profitti (interesse degli azionisti), sia per la creazione di valore per la società tutta (interesse degli interlocutori).
Quello italiano è certamente un caso molto interessante ed importante in Europa e nel mondo. Se consideriamo la produzione di elettricità e calore da geotermia, l’alto profilo delle industrie italiane del settore e l'abbondanza di articoli scientifici delle istituzioni italiane in geotermia, è evidente quanto l'Italia sia ricca di risorse e competenze in tecnologie geotermiche. Tale ricchezza non sembra riflettersi sulla società, e le tecnologie geotermiche in Italia rimangono molto meno familiari al grande pubblico rispetto ad altre tecnologie rinnovabili (Eurobarometro, 2011; Pellizzone et al. 2015, 2017).
Poiché ogni sito richiede un progetto geotermico su misura, e i tempi e modalità di installazione sono spesso più elevati ed ignoti rispetto ad altre tecnologie energetiche, la mancanza di consapevolezza si combina spesso con una percezione di tecnologia altamente specializzata e complessa, perdendo di vista i numerosi vantaggi offerti dal geotermico.
Tra opposizioni o indifferenza, che si riflette nella mancanza di una regolamentazione adeguata, di incentivi utili e di un'effettiva partecipazione dell'energia geotermica nei piani energetici, la produzione geotermica italiana sta progredendo molto lentamente, sia per l'elettricità che per il calore.
Quando nel 2010 è stato affidato al Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) il compito di aprire la strada alla diffusione sul mercato delle tecnologie geotermiche nel sud Italia, i due progetti realizzati (Vigor e l'Atlante geotermico) si sono concentrati sulla diffusione della conoscenza dell'energia geotermica. Sono ora disponibili molti documenti e prodotti, tra cui due casi studio sul coinvolgimento dei cittadini nel pianificare lo sviluppo dell'energia geotermica nell'Italia centrale e meridionale (Pellizzone et al. 2015, 2017, Manzella et al. 2018a).
Se confrontati con le esperienze di studi sociali in altri Paesi, quali quelli raccolti in Manzella et al. (2018b) o forniti in letteratura, è evidente che siamo solo all'inizio di un nuovo modo di pianificare i progetti geotermici in Italia e all'estero. Dopo esserci concentrati per decenni sugli aspetti tecnici, logistici ed economici delle risorse e delle applicazioni geotermiche, oggi gli studi sociali stanno producendo un nuovo contributo alla definizione delle politiche future, fornendo linee guida concrete sull'impegno dei cittadini nei processi di innovazione culturalmente sostenibile. La sfida, ora, è capire come includere questi nuovi dati nella vita pratica della pianificazione geotermica a livello locale, nazionale ed europeo.
In un recente progetto europeo intitolato Geoenvi sono stati esaminati tre strumenti utili per favorire relazioni costruttive con il pubblico: la condivisione delle informazioni, la creazione di benefici locali e la partecipazione pubblica. Il policy brief preparato per il progetto offre numerose raccomandazioni ai politici e agli sviluppatori di progetti su come integrare l’accettabilità sociale nei progetti fin dal principio. La principale conclusione individua la necessità di un quadro di riferimento più solido che miri a promuovere l’accettabilità sociale dei progetti geotermici e a un cambio di paradigma per gli operatori, mettendo il pubblico in una posizione centrale.
di Adele Manzella, primo ricercatore Igg-Cnr di Pisa, per greenreport.it
Il testo dell’articolo rappresenta un abstract dell’intervento tenuto da Manzella nel corso del workshop Innovazione e sostenibilità per la geotermia del futuro
Riferimenti bibliografici
Eurobarometer (2011): Special Eurobarometer 372: climatechange. European Commission, Brussels. Available at: http://ec.europa.eu/public_opinion/archives/ebs/ebs_372_en.pdf
Manzella, A., Bonciani, R., Allansdottir, A., Botteghi, S., Donato, A., Giamberini, M.S., Lenzi, A., Paci, M., Pellizzone, A., Scrocca, D. (2018a) Environmental and social aspects of geothermal energy in Italy, Geothermics, 72, 232-248.
Manzella, A., Pellizzone, A., Allansdottir, A. (Eds). (2018b) Geothermal energy and Society. Lecture Notes in Energy, 67, pp. 288, Springer International Publishing.
Pellizzone, A., Allansdottir, A., De Franco, R., Manzella, A., Muttoni, G. (2015): Exploring public engagement with geothermal energy in southern Italy: a case study,Energy Policy, 85, 1-11.
Pellizzone, A., Allansdottir, A., De Franco, R., Manzella, A., Muttoni, G. (2017): Geothermal energy and the public: A case study on deliberative citizens’ engagement in central Italy,Energy Policy,101, 561-570.
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Rinnovabili, il ministro Pichetto punta fino a 14 GW l’anno di nuovi impianti

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Intervenendo ieri alla presentazione del Piano di sviluppo 2023 avanzato da Terna, la società che gestisce la rete elettrica nazionale, il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto ha offerto roboanti prospettive per lo sviluppo delle fonti rinnovabili.
«L’Italia ha il dovere di andare verso un modello di ‘hub elettrico’. La programmazione nazionale sarà rivista con il Piano nazionale integrato clima-energia, per arrivare più avanti ad autorizzare dai 12 fino a 14 gigawatt l’anno di capacità rinnovabile, dall’attuale impegno di circa 7. Gli indicatori ci dicono che è un obiettivo raggiungibile».
Il problema è che i «circa 7» GW non sono quelli effettivamente entrati in esercizio nell’ultimo anno. Nell’ultimo anno la Commissione Via-Vas e quella Pnrr-Pniec, entrambe organismi chiave per le autorizzazioni di competenza statale, hanno rilasciato pareri favorevoli a progetti di impianti rinnovabili per 7,1 GW, ma di fatto è entrata in esercizio meno della metà della potenza: 3 GW. Come mai?
Per rispondere non è possibile guardare solo a uno step del percorso autorizzativo, ma è necessario esaminarne per intero la complessità.
Oltre alla Commissioni già citate, per passare la Valutazione d’impatto ambientale (Via) nazionale «l’altro parere pesante è quello rilasciato dal ministero della Cultura, fino ad oggi il vero ostacolo nel percorso – si ricorda infatti che nel 2022 sono state rilasciate Via con il parere positivo di entrambi gli enti solo in 10 casi (6 fotovoltaici, 4 eolici). Dunque, questi 7 GW, per trasformarsi in Via positive, avranno bisogno anche di un parere positivo da parte del Mic – questo salvo prove di forza da parte del Mase, che potrebbe – come già accaduto in passato, con ben 35 progetti solo nel 2022 – chiedere al consiglio dei Ministri di dirimere il dissenso: se nel caso del Governo Draghi ha quasi sempre prevalso la posizione delle Commissioni (dunque del Mase e, in ultima istanza, degli operatori), c’è molta curiosità su quale sarà l’orientamento del Governo Meloni», spiega nel merito Tommaso Barbetti, (Elemens) nell’ambito dell’iniziativa Regions2030.
Non solo: anche dopo l’eventuale ottenimento della Via, la partita per i produttori non sarà chiusa: «Ci si dovrà spostare in Regione, per l’ottenimento dell’Autorizzazione unica – aggiunge Barbetti – La storia dimostra che i progetti con Via positiva generalmente riescono a ottenere anche l’Autorizzazione unica, sebbene talora siano costretti a confrontarsi con le medesime osservazioni già ricevute in sede di Commissione. Ora però il flusso sembra essersi rallentato, se si pensa che dei 48 progetti che hanno ottenuto la Via dopo l’estate 2021, appena 3 hanno ottenuto l’autorizzazione: come a dire che in un processo che pare essere stato centralizzato, le Regioni non ci stanno a fare da tappezzeria».
Non a caso i progetti rinnovabili in attesa di valutazione, lungo lo Stivale, sono arrivati ormai a 340 GW; assai di più di quelli che sarebbero necessari all’Italia a traguardare gli obiettivi europei da qui al 2030, pari a circa 85 GW.
«Ora- commenta Pichetto nel merito – abbiamo domande per 300 gigawatt e c’è ancora tutto un percorso da portare avanti sul decreto per l’individuazione delle aree idonee, rispetto alle quali stiamo cercando di accelerare per un accordo con il sistema delle Regioni».
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