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Mobilità elettrica, operative le prime cinque stazioni di ricarica installate a Rosignano

coloninna ricarica elettrica scapigliato

Nonostante il rinvio subito in Europa al via libera definitivo per lo stop alla vendita di auto e furgoni con emissioni di CO2 dal 2035, arrivato anche a causa delle resistenze del Governo Meloni, a Rosignano Marittimo proseguono gli investimenti per favorire la mobilità elettrica di residenti e turisti.
Si sono concluse positivamente le operazioni di allaccio delle prime cinque stazioni di ricarica installate da Scapigliato sul territorio comunale di Rosignano, annunciate nel dicembre 2022.
A partire da oggi sono infatti operative le colonnine poste a Castiglioncello (via Gorizia), Vada (piazza Garibaldi) e Rosignano Solvay (piazza Monte alla Rena, via della Repubblica e via dell’Energia in località Le Morelline, nei pressi dell’attuale sede dello sportello “Scapigliato Energia”).
L’iniziativa nasce grazie alla convenzione siglata col Comune di Rosignano Marittimo e nell’ambito del progetto “Scapigliato Energia”, con cui la Società intende massimizzare sul territorio locale i benefici legati alla produzione di energia rinnovabile a partire dal biogas di discarica.
Le stazioni di ricarica, ognuna delle quali dotata di 2 prese standard Tipo2 da 22kW, possono essere utilizzate da tutti, con particolari benefici per i clienti “Scapigliato Energia” che possono avvalersi in corso d’anno di 2.000 kWh di ricarica gratuita: un quantitativo sufficiente a percorrere circa 13mila chilometri.
La ricarica dei veicoli elettrici alle colonnine di Scapigliato può essere effettuata con più modalità: tramite tessera Rfid, da richiedersi gratuitamente online sul sito www.scapigliato.it alla pagina “Colonnine di ricarica per veicoli elettrici”; con l’app Eco E-Mobility scaricabile su smartphone da Appstore o Google play store, che consente la ricarica anche presso tutte le colonnine sul territorio nazionale interoperabili con E.co–Neogy; tramite carta di credito, seguendo le istruzioni del codice Qr presente in ogni stazione di ricarica.
Per maggiori informazioni è possibile consultare il sito web di Scapigliato all’indirizzo www.scapigliato.it (percorso Iniziative per il territorio/Scapigliato Energia/Colonnine di ricarica per veicoli elettrici), oppure rivolgersi allo sportello “Scapigliato Energia” (tel. 0586-03.23.23 / e-mail info.energia@scapigliato.it), aperto al pubblico dal lunedì al sabato, con orario 9.00 – 12.30, e il martedì e il giovedì anche dalle 15.00 alle 18.00, in località Le Morelline Due, a Rosignano Solvay.
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Il governo britannico regala 300 milioni di sterline alle compagnie aeree inquinanti

300 milioni di sterline alle compagnie aeree inquinanti

Nell'ambito dell'Emissions Trading Scheme del Regno Unito (ETS UK), che avrebbe lo scopo di ridurre le emissioni di gas serra costringendo i grandi inquinatori ad acquistare un permesso per ogni tonnellata di carbonio che emettono e a rimpinguare così le casse pubbliche, il governo conservatore britannico ha concesso più di 300 milioni di sterline di "permessi di inquinamento" gratuiti a compagnie aeree come British Airways, RyanAir e EasyJet.
OpenDemocracy sottolinea che così, un programma progettato per affrontare il cambiamento climatico ottiene l’effetto contrario e rivela che «L'anno scorso il settore dell'aviazione del Regno Unito ha ricevuto gratuitamente più di 4 milioni di "permessi di inquinamento". I 4,1 milioni di tonnellate di CO2 che rappresentano equivalgono alle emissioni di oltre 400.000 passeggeri che volano in classe economica da Londra a Sydney e ritorno. I permessi gratuiti hanno consentito alle compagnie aeree di risparmiare l'equivalente di 336 milioni di sterline in base al prezzo medio annuo del carbonio, il 39% in più rispetto all'anno precedente, il 2021».
I grandi vincitori delle dispense ETS UK sono state le compagnie aeree EasyJet, RyanAir e British Airways, che hanno ricevuto rispettivamente quote gratuite di emissioni del valore rispettivamente di 84 milioni di sterline, 73 milioni di sterline e 58 milioni di sterline. OpenDemocracy ricorda che «Tutte le compagnie hanno subito pesanti perdite durante la pandemia, ma da allora sono tornate redditizie: il mese scorso, International Airlines Group (IAG), proprietario di British Airways, ha annunciato profitti per 1,3 miliardi di sterline, mentre RyanAir ha appena goduto del suo "trimestre di dicembre più redditizio mai registrato" e easyJet sta  riportando “vendite record”».
Precedentemente openDemocracy aveva rivelato come le compagnie petrolifere e del gas, comprese  Shell e BP, durante il 2022 hanno ricevuto allo stesso modo più di 1 miliardo di sterline di permessi di inquinamento gratuiti.
Caroline Lucas, deputata dl  Green Party ha detto a openDemocracy che «Il governo sta lasciando che le compagnie aeree la facciano franca e costringe il pubblico a pagare il conto. I ministri devono porre immediatamente fine a questi permessi di inquinamento gratuiti e far pagare alle imprese ad alto contenuto di carbonio i danni che stanno causando al clima».
Il Department for Net Zero and Energy Security sta ora analizzando i risultati di una consultazione sull'eliminazione graduale dei permessi gratuiti per il settore dell'aviazione, ma gli eventuali cambiamenti politici non entreranno in vigore almeno fino al 2026. Intanto il governo conservatore britannico ha già stanziato 12,2 milioni di permessi gratuiti per i prossimi tre anni, che al prezzo del carbonio del 2022 arranno altri 965 milioni di sterline.
Un portavoce del governo ha detto a openDemocracy che il Regno Unito sta regalando permessi gratuiti perché «Si è impegnato ad affrontare il cambiamento climatico ma anche a proteggere la nostra industria dal carbon leakage». Un portavoce del governo ha dichiarato a openDemocracy: «l Regno Unito è impegnato ad affrontare il cambiamento climatico proteggendo al contempo la nostra industria dal carbon leakage. Questo è il motivo per cui una parte delle quote viene assegnata gratuitamente alle imprese nell'ambito del sistema di scambio di quote di emissione del Regno Unito». Inoltre, la consegna di permessi gratuiti ai giganti delle compagnie aeree «Ssosterrebbe l'industria nella transizione versoil net zero nel contesto degli alti prezzi energetici globali, incentivando al contempo la decarbonizzazione a lungo termine».
Ma, secondo  il rapporto finale dell’Economic research on the impacts of carbon pricing on the UK aviation sector” commissionato dallo stesso governo ad Air e Frontier Economics, il rischio di carbon leakage – quando le imprese si trasferiscono in Paesi che non hanno il carbon pricing – è minimo.
Lo studio di Air e Frontier Economics realizzato per conto del Department for Transport (DfT) e del Department for Business, Energy, and Industrial Strategy (BEIS) ha anche rilevato che «Porre fine ai permessi gratuiti porterebbe a una diminuzione dei profitti delle compagnie aeree e migliorerebbe la concorrenza sul mercato».
Daniele de Rao, esperto di aviazione di Carbon Market Watch, ha fatto notare che «Nonostante diversi studi dimostrino che il rischio di carbon leakage nel settore dell'aviazione è insignificante, le compagnie aeree stanno ancora ricevendo un'enorme quantità di assegnazioni gratuite. Il Regno Unito dovrebbe applicare il principio “chi inquina paga” nel proprio ETS e, seguendo l'esempio dell'Unione Europea, dovrebbe porre fine il prima possibile all'erogazione di permessi di inquinamento gratuiti alle compagnie aeree».
Matt Finch, policy manager britannico di Transport & Environment, ha aggiunto: «La nazione è all’erta per l'inquinamento delle acque reflue, ma allo stesso tempo il nostro governo sta pagando alle compagnie aeree milioni di sterline all'anno per inquinare. Sono queste le azioni di un leader climatico? No. Le quote gratuite dovrebbero essere gradualmente eliminate dall'ETS, il più rapidamente possibile».
I restanti 120 milioni di sterline in permessi gratuiti sono stati spartiti tra il resto del settore aereo del Regno Unito e anche i super-ricchi proprietari di jet privati ​​hanno ricevuto sussidi. Ineos Aviation, la compagnia di proprietà del miliardario petroliere Jim Ratcliffe, ha ricevuto permessi gratuiti per un valore di circa 2.000 sterline.
Il governo britannico ribatte che «Il nostro ETS nel Regno Unito è più ambizioso del sistema dell'Ue che sostituisce». Ma openDemocracy replica: «L'Ue ha votato per eliminare gradualmente le assegnazioni di permessi gratuiti a partire dal 2026. Inoltre, ridistribuisce i ricavi derivanti dalla vendita di permessi a progetti ambientali, mentre nel Regno Unito i proventi vengono trattenuti dal Tesoro».
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Tecnologie verdi: mercato in crescita e aumenta il gap tecnologico dei Paesi in via di sviluppo

Tecnologie verdi

Le tecnologie verdi - quelle utilizzate per produrre beni e servizi con una minore impronta di carbonio - sono in crescita e offrono crescenti opportunità economiche ma, a meno che i governi nazionali e la comunità internazionale non intraprendano un'azione decisiva, queste opportunità potrebbero essere perse da molti Paesi in via di sviluppo.
E’ l’allarme lanciato dal Technology and Innovation Report 2023 dell'United Nations Conference on Trade and Development (UNCTAD) che avverte che «Le disuguaglianze economiche rischiano di aumentare man mano che i Paesi sviluppati raccolgono la maggior parte dei benefici delle tecnologie verdi come l'intelligenza artificiale, l'Internet delle cose e i veicoli elettrici».
Presentando il nuovo rapporto, la segretaria generale dell'UNCTAD, Rebeca Grynspan, ha ricordato che «Siamo all'inizio di una rivoluzione tecnologica basata sulle tecnologie verdi. Questa nuova ondata di cambiamento tecnologico avrà un impatto formidabile sull'economia globale. I Paesi in via di sviluppo devono ottenere una parte maggiore del valore creato in questa rivoluzione tecnologica per far crescere le loro economie. Perdere questa ondata tecnologica a causa di un'insufficiente attenzione politica o della mancanza di investimenti mirati nella costruzione di capacità avrebbe implicazioni negative di lunga durata».
L'UNCTAD stima che le 17 tecnologie di frontiera trattate nel rapporto potrebbero creare un mercato di oltre 9,5 trilioni di dollari entro il 2030, circa 3 volte la dimensione attuale dell'economia indiana. Ma finora le economie sviluppate stanno cogliendo la maggior parte delle opportunità, lasciando ancora più indietro le economie in via di sviluppo. Il rapporto evidenzia che «Le esportazioni totali di tecnologie verdi dai Paesi sviluppati sono passate da circa 60 miliardi di dollari nel 2018 a oltre 156 miliardi di dollari nel 2021. Nello stesso periodo, le esportazioni dai Paesi in via di sviluppo sono aumentate da 57 miliardi di dollari a solo circa 75 miliardi di dollari. In tre anni, la quota di esportazioni globali dei Paesi in via di sviluppo è scesa da oltre il 48% a meno del 33%».
Secondo l’UNCTAD, «Le tecnologie di frontiera verdi, come i veicoli elettrici, l'energia solare ed eolica e l'idrogeno verde, nel 2030 dovrebbero raggiungere un valore di mercato di 2,1 trilioni di dollari, 4 volte superiore al loro valore attuale. I ricavi del mercato dei veicoli elettrici potrebbero aumentare di 5 volte per raggiungere 824 miliardi di dollari entro il 2030, rispetto al valore attuale di 163 miliardi di dollari».
L'analisi UNCTAD di mostra che «I Paesi in via di sviluppo devono agire rapidamente per beneficiare di questa opportunità e passare a una traiettoria di sviluppo che porti a economie più diversificate, produttive e competitive. Le precedenti rivoluzioni tecnologiche hanno dimostrato che i primi utenti possono andare avanti più rapidamente e creare vantaggi duraturi».
Il rapporto include anche il “frontier technology readiness index" che mostra che pochissimi Paesi in via di sviluppo hanno le capacità necessarie per trarre vantaggio dalle tecnologie di frontiera che includono blockchain, droni, editing genetico, nanotecnologia ed energia solare. L'index classifica 166 Paesi in base a indicatori ICT, competenze, ricerca e sviluppo, capacità industriale e finanza ed è dominato dalle economie ad alto reddito, nei primi 10 posti del Frontier technologies readiness index 2023 ci sono: Stati Uniti, Svezia, Singapore, Svizzera, Paesi Bassi, Corea del sud, Germania, Finlandia, Hong Kong (Cina), Belgio. L’Italia è 25esima nel, nel 2021 era 24esima.
Anche se i paesi in via di sviluppo siano i meno preparati a utilizzare le tecnologie di frontiera, diverse economie asiatiche  hanno apportato importanti cambiamenti politici che hanno consentito loro di ottenere risultati migliori del previsto in base al loro PIL pro capite: l'India resta il Paese asiatico con la migliore performance, classificandosi a 67 posizioni meglio del previsto, seguita dalle Filippine (54 posizioni meglio) e dal Vietnam (44 meglio).
L'indice mostra che i paesi dell'America Latina, dei Caraibi e dell'Africa subsahariana sono i meno pronti a sfruttare le tecnologie di frontiera e rischiano di perdere le attuali opportunità tecnologiche. A chiudere la classifica sono 8 Paesi africani e 2 asiatici: ultimo è il Sud Sudan al 166esimo posto, preceduto da Guinea Bissau, Afghanistan, Sudan, Repubblica democratica del Congo, Sierra Leone, Gambia, Yemen, Burundi e Guinea. Si tratta quasi sempre di Paesi dove abbondano le risorse naturali e minerarie che sostengono le tecnologie versi, ma anche dove scarseggiano i pannelli solari e abbondano i Kalashnikov.
Shamika N. Sirimanne, direttrice della divisione tecnologia e logistica dell'UNCTAD, ha sottolineato che «Per trarre vantaggio dalla rivoluzione della tecnologia verde, nei Paesi in via di sviluppo sono necessarie politiche industriali, innovative ed energetiche proattive mirate alle tecnologie verdi. I paesi in via di sviluppo hanno bisogno di agency and urgency per trovare le giuste risposte politiche. Mentre i Paesi in via di sviluppo rispondono alle odierne urgenti crisi interconnesse, devono anche intraprendere azioni strategiche a lungo termine per costruire innovazione e capacità tecnologiche per stimolare una crescita economica sostenibile e aumentare la loro resilienza alle crisi future».
Per questo l’'UNCTAD invita i governi dei paesi in via di sviluppo ad «Allineare le politiche ambientali, scientifiche, tecnologiche, innovative e industriali» e li esorta a «Dare priorità agli investimenti in settori più verdi e più complessi, a fornire incentivi per spostare la domanda dei consumatori verso beni più green  a stimolare gli investimenti in ricerca e sviluppo». Inoltre, «I paesi in via di sviluppo dovrebbero  rafforzare urgentemente le competenze tecniche e aumentare gli investimenti nelle infrastrutture TIC, colmando i divari di connettività tra piccole e grandi imprese e tra regioni urbane e rurali».
Un compito che va probabilmente oltre le forze di molti Paesi in via di sviluppo (per non parlare di quelli meno sviluppati) che non possono trarre vantaggio dalle tecnologie verdi da soli. Il rapporto UNCTAD ribadisce che «Gran parte del successo delle loro politiche interne dipenderà dalla cooperazione globale attraverso il commercio internazionale, che richiederebbe riforme delle regole commerciali esistenti per garantire la coerenza con l'Accordo di Parigi per affrontare il cambiamento climatico. Le regole del commercio internazionale dovrebbero consentire ai Paesi in via di sviluppo di proteggere le industrie verdi emergenti attraverso tariffe, sussidi e appalti pubblici, in modo che non solo soddisfino la domanda locale, ma raggiungano anche le economie di scala che rendono le esportazioni più competitive.
E’ fondamentale anche il sostegno internazionale per trasferire le tecnologie verdi ai Paesi in via di sviluppo. Il rapporto propone «L'applicazione dei principi che sono stati invocati contro la pandemia di COVID-19, quando ad alcuni Paesi è stato consentito di produrre e fornire vaccini senza il consenso del titolare del brevetto. Questo ffrirebbe ai produttori dei Paesi in via di sviluppo un accesso più rapido alle principali tecnologie verdi. Il commercio internazionale e le relative norme sulla proprietà intellettuale dovrebbero fornire maggiore flessibilità ai Paesi in via di sviluppo per mettere in atto politiche industriali e di innovazione per alimentare le loro industrie nascenti in modo che possano emergere nuovi settori della tecnologia verde».
Il rapporto si conclude chiedendo «Un programma internazionale di acquisto garantito di prodotti green commerciabili, la ricerca coordinata sulle tecnologie verdi a livello multinazionale, un maggiore sostegno ai centri regionali di eccellenza per le tecnologie verdi e l'innovazione e un fondo multilaterale per stimolare le innovazioni green e rafforzare la cooperazione tra Paesi».
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La Commissione Ue avvia la caccia alle materie prime critiche e strategiche

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Con il suo Net-zero industry act, presentato oggi, la Commissione Ue punta a produrre sul territorio europeo almeno il 40% delle tecnologie verdi che usa annualmente: per questo però serve (anche) un approvvigionamento adeguato di materie prime, motivo per cui da Bruxelles è arrivata una nuova proposta legislativa denominata Critical raw materials act.
Le cosiddette “materie prime critiche” sono così definite in ragione del rischio circa la loro effettiva disponibilità e per la loro rilevanza sulle attività economiche, non solo green; dal loro impiego passa infatti il 32% del Pil italiano, come recentemente documentato dall’Enea.
Dall’antimonio al vanadio, sono 34 le materie prime definite come critiche nella proposta europea, cui per la prima volta si affianca anche una più compatta lista di 16 materie prime ribattezzate strategiche in virtù della loro rilevanza per le filiere industriali essenziali come quelle di energie rinnovabili, economia digitale, operazioni spaziali e comparto della difesa.
L’intera iniziativa parte da una consapevolezza di fondo: «L'Ue non sarà mai autosufficiente nell'approvvigionamento di tali materie prime e continuerà a dipendere dalle importazioni per la maggior parte del suo consumo». Per evitare di ricadere in una trappola geopolitica simile a quella dei combustibili fossili, che hanno legato a doppio filo l’economia europea con fornitori poco affidabili e per niente sostenibili – basti guardare alla Russia – occorre dunque diversificare le forniture, riciclare e aprire nuove miniere su suolo europeo.
Ad oggi invece l’Ue spesso si approvvigiona di materie prime critiche per oltre il 90% da un unico fornitore, in genere la Cina. Ad esempio arriva dal Paese asiatico il 97% del magnesio consumato in Europa o il 100% delle terre rare usate per i magneti permanenti; il 63% del cobalto globale è estratto in Congo e raffinato per il 60% in Cina, mentre arriva dal Sudafrica il 71% del platino e dalla Turchia il 98% del borato. Livelli comprensibilmente ritenuti non sostenibili.
Per questo la proposta legislativa prevede che non più del 65% di qualsivoglia materia prima strategica possa arrivare da un Paese terzo rispetto all’Ue; in compenso, entro il 2030 dovrà essere interno all’Unione europea almeno il 10% dell’estrazione mineraria, il 15% del riciclo e il 40% della trasformazione di tali materie prime.
«Questa legge – spiega la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen – ci avvicinerà alle nostre ambizioni climatiche. Migliorerà in modo significativo la raffinazione, la lavorazione e il riciclaggio delle materie prime critiche qui in Europa.  E stiamo rafforzando la nostra cooperazione con partner commerciali affidabili a livello globale, per ridurre le attuali dipendenze dell'Ue solo da uno o pochi Paesi».
Per raggiungere questi obiettivi, oltre a sviluppare partenariati commerciali strategici, Bruxelles propone di ridurre gli oneri amministrativi e semplificare le procedure autorizzativi dei progetti industriali che nasceranno su suolo europeo: quelli che verranno individuati come strategici dovranno concludersi entro 24 mesi (nel caso di nuove miniere) o 12 mesi (per raffinazione e riciclo), mentre tutti gli Stati membri saranno chiamati a sviluppare programmi nazionali per l’esplorazione delle proprie risorse minerarie.
Al contempo, gli Stati membri dovranno adottare e attuare anche misure nazionali per migliorare la raccolta dei rifiuti ricchi di materie prime critiche e garantirne il riciclo, ma anche esaminare il potenziale di recupero dai rifiuti di estrazione delle attuali o passate attività minerarie. Il tutto mantenendo elevati standard di tutela ambientale e sociale.
«Il miglioramento della sicurezza e dell'accessibilità delle forniture di materie prime critiche deve andare di pari passo – sottolineano dalla Commissione – con maggiori sforzi per mitigare eventuali impatti negativi, sia all'interno dell'Ue che nei Paesi terzi, per quanto riguarda i diritti dei lavoratori, diritti umani e tutela dell'ambiente».
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Net-zero industry act, l’Ue punta a produrre in casa il 40% delle tecnologie verdi

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Nell’ambito del piano industriale per il Green deal, la Commissione Ue ha proposto oggi il Net-zero industry act: l’obiettivo è produrre su suolo europeo, entro il 2030, almeno il 40% del fabbisogno annuo di tecnologie utili alla neutralità climatica.
È il tentativo con cui l’Ue prova a rispondere sia al predominio della Cina in quest’ambito – ad oggi la Cina rappresenta il 90% degli investimenti globali in impianti di produzione di tecnologie net-zero –, sia all’Inflaction reduction act statunitense, con cui l’amministrazione Biden ha stanziato 370 mld di dollari per finanziare la produzione di tecnologie verdi.
«Abbiamo bisogno di un contesto normativo che ci consenta di accelerare rapidamente la transizione verso l'energia pulita – spiega la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen – Il Net-zero industry act farà proprio questo. Creerà le migliori condizioni per quei settori che sono cruciali per noi per raggiungere le emissioni nette zero entro il 2050».
Più nel dettaglio, la proposta di legge sostiene in particolare otto tecnologie definendole come strategiche: solare fotovoltaico e termico; eolico onshore e fonti rinnovabili offshore; batterie e accumulatori; pompe di calore e geotermia; elettrolizzatori e celle a combustibile; biogas e biometano; cattura e stoccaggio del carbonio (Ccs), su cui punta anche l’Ipcc nonostante le perplessità degli ambientalisti e di alcuni scienziati; tecnologie per le reti elettriche. Tra quelle non strategiche, ma comunque supportate dalla proposta di legge, rientrano anche le “tecnologie avanzate per produrre energia nucleare”.
In concreto, tra le principali misure inserite nella proposta legislativa figura in primis la riduzione degli oneri amministrativi per il rilascio delle autorizzazioni impiantistiche: gli Stati membri sono chiamati a istituire sportelli che fungano da punti di contatto unici con l’amministrazione pubblica per i promotori dei progetti industriali, e vincoli temporali stringenti (12 mesi per gli impianti con produzioni entro 1 GW e 18 mesi per taglie superiori, che diventano rispettivamente 9 e 12 mesi se si parla di tecnologie strategiche).
Ma non basta incrementare la capacità produttiva, occorre anche avere una forza lavoro adeguatamente formata per lavorare negli impianti: per questo la proposta prevede la creazione di Net-zero industry academies per favorire la creazione di un’occupazione di qualità nell’ambito della green economy.
In ogni caso, quella di oggi rappresenta solo una prima proposta da parte della Commissione Ue: adesso l'iter legislativo prevede l'esame da parte del Parlamento e del Consiglio Ue prima di arrivare alla pubblicazione in Gazzetta ufficiale e dunque all'entrata in vigore.
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Geotermia: impatti, accettabilità sociale e il ruolo della comunicazione

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La transizione energetica, e con essa lo sviluppo del mercato geotermico, non riguarda solo l'adozione, il potenziamento e l'integrazione di varie tecnologie energetiche: implica anche un modo diverso di incorporare le questioni energetiche nella e per la società nel suo complesso.
Molte tecnologie di energia rinnovabile sono state oggetto di preoccupazione e lo sviluppo industriale è talvolta rallentato dall'opposizione sociale, un problema che si avverte anche nel settore geotermico. Negli ultimi anni si stanno susseguendo studi per analizzare le ragioni e gli effetti di questa opposizione. In molte conclusioni viene invocata la trasparenza, intesa non solo come comunicazione ampia e corretta dei dati e delle informazioni. La trasparenza, infatti, viene abbinata sempre più frequentemente al coinvolgimento del pubblico, cioè la partecipazione dei cittadini che sono direttamente e localmente interessati dal progetto.
Per lo sviluppo di un progetto sono quindi necessarie nuove forme di dibattito e processi democratici, sia per il perseguimento dei profitti (interesse degli azionisti), sia per la creazione di valore per la società tutta (interesse degli interlocutori).
Quello italiano è certamente un caso molto interessante ed importante in Europa e nel mondo. Se consideriamo la produzione di elettricità e calore da geotermia, l’alto profilo delle industrie italiane del settore e l'abbondanza di articoli scientifici delle istituzioni italiane in geotermia, è evidente quanto l'Italia sia ricca di risorse e competenze in tecnologie geotermiche. Tale ricchezza non sembra riflettersi sulla società, e le tecnologie geotermiche in Italia rimangono molto meno familiari al grande pubblico rispetto ad altre tecnologie rinnovabili (Eurobarometro, 2011; Pellizzone et al. 2015, 2017).
Poiché ogni sito richiede un progetto geotermico su misura, e i tempi e modalità di installazione sono spesso più elevati ed ignoti rispetto ad altre tecnologie energetiche, la mancanza di consapevolezza si combina spesso con una percezione di tecnologia altamente specializzata e complessa, perdendo di vista i numerosi vantaggi offerti dal geotermico.
Tra opposizioni o indifferenza, che si riflette nella mancanza di una regolamentazione adeguata, di incentivi utili e di un'effettiva partecipazione dell'energia geotermica nei piani energetici, la produzione geotermica italiana sta progredendo molto lentamente, sia per l'elettricità che per il calore.
Quando nel 2010 è stato affidato al Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) il compito di aprire la strada alla diffusione sul mercato delle tecnologie geotermiche nel sud Italia, i due progetti realizzati (Vigor e l'Atlante geotermico) si sono concentrati sulla diffusione della conoscenza dell'energia geotermica. Sono ora disponibili molti documenti e prodotti, tra cui due casi studio sul coinvolgimento dei cittadini nel pianificare lo sviluppo dell'energia geotermica nell'Italia centrale e meridionale (Pellizzone et al. 2015, 2017, Manzella et al. 2018a).
Se confrontati con le esperienze di studi sociali in altri Paesi, quali quelli raccolti in Manzella et al. (2018b) o forniti in letteratura, è evidente che siamo solo all'inizio di un nuovo modo di pianificare i progetti geotermici in Italia e all'estero. Dopo esserci concentrati per decenni sugli aspetti tecnici, logistici ed economici delle risorse e delle applicazioni geotermiche, oggi gli studi sociali stanno producendo un nuovo contributo alla definizione delle politiche future, fornendo linee guida concrete sull'impegno dei cittadini nei processi di innovazione culturalmente sostenibile. La sfida, ora, è capire come includere questi nuovi dati nella vita pratica della pianificazione geotermica a livello locale, nazionale ed europeo.
In un recente progetto europeo intitolato Geoenvi sono stati esaminati tre strumenti utili per favorire relazioni costruttive con il pubblico: la condivisione delle informazioni, la creazione di benefici locali e la partecipazione pubblica. Il policy brief preparato per il progetto offre numerose raccomandazioni ai politici e agli sviluppatori di progetti su come integrare l’accettabilità sociale nei progetti fin dal principio. La principale conclusione individua la necessità di un quadro di riferimento più solido che miri a promuovere l’accettabilità sociale dei progetti geotermici e a un cambio di paradigma per gli operatori, mettendo il pubblico in una posizione centrale.
di Adele Manzella, primo ricercatore Igg-Cnr di Pisa, per greenreport.it
Il testo dell’articolo rappresenta un abstract dell’intervento tenuto da Manzella nel corso del workshop Innovazione e sostenibilità per la geotermia del futuro
Riferimenti bibliografici
Eurobarometer (2011): Special Eurobarometer 372: climatechange. European Commission, Brussels. Available at: http://ec.europa.eu/public_opinion/archives/ebs/ebs_372_en.pdf
Manzella, A., Bonciani, R., Allansdottir, A., Botteghi, S., Donato, A., Giamberini, M.S., Lenzi, A., Paci, M., Pellizzone, A., Scrocca, D. (2018a) Environmental and social aspects of geothermal energy in Italy, Geothermics, 72, 232-248.
Manzella, A., Pellizzone, A., Allansdottir, A. (Eds). (2018b) Geothermal energy and Society. Lecture Notes in Energy, 67, pp. 288, Springer International Publishing.
Pellizzone, A., Allansdottir, A., De Franco, R., Manzella, A., Muttoni, G. (2015): Exploring public engagement with geothermal energy in southern Italy: a case study,Energy Policy, 85, 1-11.
Pellizzone, A., Allansdottir, A., De Franco, R., Manzella, A., Muttoni, G. (2017): Geothermal energy and the public: A case study on deliberative citizens’ engagement in central Italy,Energy Policy,101, 561-570.
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Rinnovabili, il ministro Pichetto punta fino a 14 GW l’anno di nuovi impianti

gilberto pichetto fratin ministro ambiente rinnovabili

Intervenendo ieri alla presentazione del Piano di sviluppo 2023 avanzato da Terna, la società che gestisce la rete elettrica nazionale, il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto ha offerto roboanti prospettive per lo sviluppo delle fonti rinnovabili.
«L’Italia ha il dovere di andare verso un modello di ‘hub elettrico’. La programmazione nazionale sarà rivista con il Piano nazionale integrato clima-energia, per arrivare più avanti ad autorizzare dai 12 fino a 14 gigawatt l’anno di capacità rinnovabile, dall’attuale impegno di circa 7. Gli indicatori ci dicono che è un obiettivo raggiungibile».
Il problema è che i «circa 7» GW non sono quelli effettivamente entrati in esercizio nell’ultimo anno. Nell’ultimo anno la Commissione Via-Vas e quella Pnrr-Pniec, entrambe organismi chiave per le autorizzazioni di competenza statale, hanno rilasciato pareri favorevoli a progetti di impianti rinnovabili per 7,1 GW, ma di fatto è entrata in esercizio meno della metà della potenza: 3 GW. Come mai?
Per rispondere non è possibile guardare solo a uno step del percorso autorizzativo, ma è necessario esaminarne per intero la complessità.
Oltre alla Commissioni già citate, per passare la Valutazione d’impatto ambientale (Via) nazionale «l’altro parere pesante è quello rilasciato dal ministero della Cultura, fino ad oggi il vero ostacolo nel percorso – si ricorda infatti che nel 2022 sono state rilasciate Via con il parere positivo di entrambi gli enti solo in 10 casi (6 fotovoltaici, 4 eolici). Dunque, questi 7 GW, per trasformarsi in Via positive, avranno bisogno anche di un parere positivo da parte del Mic – questo salvo prove di forza da parte del Mase, che potrebbe – come già accaduto in passato, con ben 35 progetti solo nel 2022 – chiedere al consiglio dei Ministri di dirimere il dissenso: se nel caso del Governo Draghi ha quasi sempre prevalso la posizione delle Commissioni (dunque del Mase e, in ultima istanza, degli operatori), c’è molta curiosità su quale sarà l’orientamento del Governo Meloni», spiega nel merito Tommaso Barbetti, (Elemens) nell’ambito dell’iniziativa Regions2030.
Non solo: anche dopo l’eventuale ottenimento della Via, la partita per i produttori non sarà chiusa: «Ci si dovrà spostare in Regione, per l’ottenimento dell’Autorizzazione unica – aggiunge Barbetti – La storia dimostra che i progetti con Via positiva generalmente riescono a ottenere anche l’Autorizzazione unica, sebbene talora siano costretti a confrontarsi con le medesime osservazioni già ricevute in sede di Commissione. Ora però il flusso sembra essersi rallentato, se si pensa che dei 48 progetti che hanno ottenuto la Via dopo l’estate 2021, appena 3 hanno ottenuto l’autorizzazione: come a dire che in un processo che pare essere stato centralizzato, le Regioni non ci stanno a fare da tappezzeria».
Non a caso i progetti rinnovabili in attesa di valutazione, lungo lo Stivale, sono arrivati ormai a 340 GW; assai di più di quelli che sarebbero necessari all’Italia a traguardare gli obiettivi europei da qui al 2030, pari a circa 85 GW.
«Ora- commenta Pichetto nel merito – abbiamo domande per 300 gigawatt e c’è ancora tutto un percorso da portare avanti sul decreto per l’individuazione delle aree idonee, rispetto alle quali stiamo cercando di accelerare per un accordo con il sistema delle Regioni».
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Il ministro dell’Ambiente italiano punta sullo sviluppo della geotermia, in Kenya

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A valle della visita istituzione del presidente Sergio Mattarella in Kenya, dove il contrasto alla crisi climatica in corso è stato tra i principali temi di confronto, il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto informa che l’Italia è al fianco del Paese africano per supportarlo nello sviluppo delle fonti rinnovabili e in particolare della geotermia.
«Proprio in Kenya a fine marzo si svolgerà una missione con l’obiettivo di favorire partnership sul fronte della geotermia: una fonte – sottolinea Pichetto – pulita, rinnovabile, nella quale il Kenya è nazione leader nel continente a causa delle alte temperature registrate nella Rift valley», la culla dell’umanità.
Si terrà infatti in Kenya dal 27 al 30 marzo una missione imprenditoriale nel settore geotermico, che vedrà una delegazione di imprese italiane, compagnie e istituti di ricerca impegnati nel Paese, nel contesto del progetto “Favorire partnership internazionali tra imprese e/o istituzioni operanti nei settori dell'energia e dell'ambiente”, che il ministero sta portando avanti assieme all’Ufficio italiano per la promozione tecnologica e degli investimenti dell’Organizzazione Onu per lo sviluppo industriale (Unido).
In particolare, nell’ambito della missione il 27 marzo si svolgerà a Nairobi l’evento “Italy-Kenya business & investment forum on geothermal”, seguito nei giorni successivi da varie visite a diversi impianti geotermici strategici del Paese.
Parallelamente allo sviluppo del comparto geotermico kenyota, duole evidenziare il completo stallo di quello italiano, dove le tecnologie geotermiche sono nate per la prima volta al mondo. La Toscana ha dato avvio sia all’uso della geotermia in ambito chimico (per l’estrazione del boro, 1818) sia all’impiego di questa fonte rinnovabile per produrre elettricità (1904), un impiego che si è poi diffuso a livello globale mantenendo in Italia un know-how industriale riconosciuto internazionalmente.
Basti osservare che il Kenya, dove la prima centrale geotermica è stata realizzata 77 anni dopo (nel 1981), nell’ultimo anno ha raggiunto l’Italia per potenza installata e il sorpasso è ormai dietro l’angolo.
Come mai? Perché l’ultima centrale geotermoelettrica entrata in esercizio nel nostro Paese risale a 9 anni fa, nonostante le risorse geotermiche teoricamente accessibili entro i 5 km di profondità possano soddisfare il quintuplo dell’intero fabbisogno energetico nazionale.
Uno stallo frutto della mancanza di politica industriale e della subalternità alle sindromi Nimby & Nimto che frenano ovunque lo sviluppo delle fonti rinnovabili. Per provare a riprendere un percorso di sviluppo, l’intera filiera nazionale geotermica si è ritrovata due settimane fa al Cnr di Pisa: un appuntamento cui né il ministero dell’Ambiente né la Regione Toscana, pur invitati, si sono presentati.
Eppure i problemi che affliggono il comparto sono puramente di natura politica. Il decreto Fer 2, che dovrebbe ripristinare gli incentivi alla produzione geotermoelettrica, è atteso da 1.314 giorni nonostante le molteplici promesse di rapida pubblicazione (le ultime indiscrezioni dal ministero lo danno in uscita entro Pasqua); nel mentre le concessioni minerarie alla base delle uniche centrali attive in Italia – ovvero quelle toscane – sono in scadenza alla fine del 2024. La Regione, le amministrazioni locali e i sindacati chiedono una proroga ampia, il ministro Pichetto si è detto disponibile a valutarla, ma i mesi corrono veloci e ancora non ci sono decisioni all’orizzonte. Chissà che ormai non sia il Kenya a poter insegnare all’Italia cosa significa una politica industriale per il settore, anziché il contrario.
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Mattarella: «Il cambiamento climatico è una sfida Comune per Africa ed Europa» (VIDEO)

Mattarella Kenya

Pubblichiamo il testo integrale dell’intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella all’università di Nairobi, in occasione dela sua  visita di Stato nella Repubblica del Kenya
 
Eccellentissimi Ministri,
Eccellentissimi Cancelliere e Vice Cancelliere dell’Università di Nairobi,
Signore e Signori,
mi rivolgo a voi, care studentesse e cari studenti,
buongiorno a tutti in questa splendida giornata di pioggia.
Sono davvero molto lieto di potermi indirizzare a Voi oggi in questa prestigiosa Università, che sin dalla sua fondazione ha formato e continua a formare generazioni di giovani kenyoti e di tutto il continente.
Avverto un sentimento di profonda considerazione nel momento in cui mi rivolgo a Voi nell’Università in cui ha insegnato Wangari Maathai, la prima donna africana a ricevere il Premio Nobel per il suo instancabile impegno a favore della promozione dello sviluppo sostenibile, della democrazia e della pace.
Il suo esempio è stato fonte di ispirazione per un gran numero di donne e di uomini in tutto il mondo.
È anche grazie alle sue azioni se oggi il dibattito attorno al cambiamento climatico non è più appannaggio soltanto di scienziati e di politici, ma è questione che mobilita le coscienze a livello globale.
Per troppo tempo abbiamo infatti affrontato in modo inadeguato la questione della tutela dell’ambiente e del cambiamento climatico.
Eppure non da oggi siamo consapevoli di come le attività umane abbiano un impatto sull’ambiente e sul clima: basti pensare alla deforestazione che ha caratterizzato lo sviluppo di tante aree in Europa.
Una rivista americana, “Popular mechanics”, già nel 1912, oltre cento anni fa, riportava la notizia di come la combustione di miliardi di tonnellate di carbon fossile aggiungesse ogni anno altrettante tonnellate di diossido di carbonio, attribuendo a questo fenomeno nell'atmosfera l’innalzamento delle temperature, i cui effetti, proseguiva l’articolo, sarebbero stati avvertiti nell’arco di alcuni secoli.
Era una premonizione.
Gli effetti del cambiamento climatico si sono addirittura accelerati.
Li avvertiamo in maniera più che significativa.
Le conseguenze dell’innalzamento delle temperature medie sono gravi, ben documentate e si avvertono ovunque nel mondo.
Il drammatico aumento delle ondate di calore, le inondazioni, la siccità, lo scioglimento dei ghiacciai e l’innalzamento del livello dei mari sono alcuni dei sintomi più evidenti.
Come governare questi fenomeni, sfuggendo a una falsa alternativa tra rinuncia allo sviluppo o cristallizzazione dell’esistente?
La risposta è nella espressione sostenibilità. Ambientale, sociale, economica.
In altri termini saper considerare come unitari i destini delle popolazioni del pianeta.
Il cambiamento climatico provoca, come sappiamo, conseguenze nefaste.
Si registra ormai da tempo una drammatica diminuzione della biodiversità, in gran parte legata all’abbattimento delle foreste pluviali equatoriali, con la scomparsa di decine di migliaia di specie viventi ogni anno, una perdita irreparabile di varietà genetica, ecosistemi, di habitat.
Con importanti conseguenze sulla dislocazione della specie umana su un pianeta che vede diminuire progressivamente le aree di insediamento. Si tratti dell’innalzamento delle acque nei mari - che pone a gravissimo rischio la sopravvivenza di numerose isole e delle popolazioni che le abitano - si tratti dell’allargamento progressivo dei fenomeni di desertificazione, si tratti di abbandono di aree marginali.
Il fenomeno dei profughi “climatici”, oltre che di quelli dei conflitti, è drammaticamente davanti a noi.
L’impronta dell’uomo sui cicli biogeochimici – da quello del carbonio a quelli dell’azoto e del fosforo, a quello dell’acqua e dell’ossigeno – tutti elementi fondamentali della vita, è determinante.
Con il crescere della minaccia è aumentata anche la consapevolezza dei gravissimi rischi che l’umanità sta correndo.
In primo luogo grazie all’opera delle Nazioni Unite nel quadro dell’Agenda 2030 e, soprattutto, del Programma per l’Ambiente.
Lo scorso anno abbiamo celebrato la ricorrenza del cinquantesimo anniversario dalla sua istituzione, che proprio qui a Nairobi ha sede, grazie ad una decisione coraggiosa e lungimirante del Primo Presidente del Kenya, Jomo Kenyatta.
Passi avanti sono stati compiuti.
Dalla Conferenza di Montreal del 1987 sulla riduzione del “buco dell’ozono”, al Summit della Terra di Rio de Janeiro del 1992, fino al Protocollo di Kyoto e all’Accordo di Parigi del 2015, tanti momenti hanno consolidato la determinazione collettiva nel prevenire gli scenari più catastrofici legati all’innalzamento delle temperature globali.
Lo scorso anno, qui a Nairobi, nell’ambito dell’Assemblea delle Nazioni Unite per l’Ambiente è stata raggiunta una storica decisione, che porterà alla definizione di un trattato giuridicamente vincolante per contrastare l’inquinamento derivante dalla plastica.
Infine, nei giorni scorsi, alle Nazioni Unite è stato approvato il Trattato che intende proteggere entro il 2030 il 30% delle acque marine.
Sono risultati importanti, che dimostrano come la lotta al cambiamento climatico non sia più trascurata nelle priorità dell’agenda internazionale.
Gran parte del merito di questa nuova sensibilità va attribuito alla società civile e, in particolare, ai tanti giovani come voi che in tutti i continenti – dall’Africa all’Europa, dall’Asia alle Americhe – mantengono alta la pressione sui Governi e sul settore privato, pretendendo azioni immediate e incisive.
È la vostra generazione a essere interpellata, anzitutto.
Perché ne va del vostro futuro.
Soprattutto in Africa se ne vivono le drammatiche conseguenze sulla povertà, la malnutrizione, l'accesso alla salute e le prospettive di crescita.
Il vostro ruolo è e sarà sempre più esigente ed essenziale.
La Repubblica Italiana è fortemente convinta della necessità di sostenere la partecipazione attiva delle giovani generazioni ai negoziati sul clima.
Lo abbiamo fatto in occasione del forum Youth for Climate a Milano durante la preparazione della COP26. E siamo lieti che sia diventato un foro permanente, che speriamo possa contribuire al successo della prossima COP di Dubai.
Dobbiamo, tuttavia, chiederci: tutto questo è sufficiente?
Credo che, in tutta onestà, sia difficile rispondere positivamente a questa domanda.
In segmenti della società e in alcuni Paesi non è presente il senso profondo dell’urgenza e della necessità di interventi incisivi.
Eppure, lo aveva sottolineato il Presidente Ruto alla COP27, in un intervento che ho molto apprezzato per lucidità e coerenza: “di fronte alla catastrofe imminente, i cui segnali premonitori sono già insopportabilmente disastrosi, un’azione dai contorni limitati sarebbe poco saggia; l’inazione infedele e sarebbe fatale”.
Il continente africano è senza dubbio uno fra i più colpiti, pur avendo contribuito molto meno di altri all’attuale degrado della situazione.
La tremenda siccità che ha reso aride vaste regioni del Corno d’Africa e anche del Kenya settentrionale, per l’eccezionale durata del fenomeno, assume oramai i contorni di preoccupante nuova normalità piuttosto che di sporadica emergenza.
Sono a rischio i laghi, i fiumi, tradizionali veicoli e custodi di biodiversità e ambiti di collegamento tra i territori.
Il Mediterraneo – mare in cui insiste l’Italia e regione che custodisce un patrimonio fra i più significativi anche in termini di ricchezza socio-culturale, grazie alla sua caratteristica unica di crocevia di tre continenti – è uno dei luoghi maggiormente in pericolo.
Quella della siccità è peraltro soltanto una fra le crisi climatiche.
Secondo uno degli ultimi rapporti del Panel Internazionale sul Cambiamento Climatico, i ghiacciai sul monte Kenya rischiano di scomparire nel prossimo decennio, mentre quelli sul Monte Kilimanjaro potrebbero non resistere oltre il 2040.
È un destino che queste magnifiche vette africane rischiano di condividere con quelle delle Alpi in Europa, dove già oggi la neve è molto meno frequente.
Non si può fuggire dalla realtà.
La riduzione delle emissioni nei tempi e nelle modalità indicate dalla comunità scientifica costituisce un obbligo ineludibile, che riguarda tutti.
Non ci si può cullare nell’illusione di perseguire prima obiettivi di sviluppo economico per poi affrontare in un secondo momento le problematiche ambientali.
Non avremo un “secondo tempo”.
Se vogliamo lasciare alle future generazioni, a voi che mi state ascoltando oggi, un pianeta dove l’umanità possa vivere e prosperare in pace, dovremo compiere, tutti assieme, progressi decisivi nella transizione verso un’economia decarbonizzata.
I Paesi di più antica industrializzazione hanno contribuito in maniera sicuramente preponderante, con quel modello di sviluppo e crescita, alle emissioni di gas ad effetto serra.
Negli ultimi decenni, nuovi protagonisti hanno conosciuto una travolgente crescita economica, che li ha portati a raggiungere, e a superare, l’impatto di quelli che hanno generato la prima rivoluzione industriale.
Con effetti altrettanto devastanti sull’ambiente.
Gli sforzi dei Paesi industrializzati, che devono essere significativamente accresciuti proporzionalmente alle loro responsabilità, per essere efficaci devono essere accompagnati da un analogo convinto impegno di Paesi - inclusi quelli emergenti -, il cui peso demografico ed economico è diventato prevalente.
Care studentesse, cari studenti,
Lo sviluppo tecnologico e industriale ha permesso all’umanità di modificare in profondità gli equilibri complessivi del pianeta.
Il rapporto tra popolazione e risorse fa sì che l’ambiente che ci circonda non sia più uno scenario immutabile, semplice sfondo alle singole vicende umane.
Il passaggio da meri spettatori a forza attiva e consapevole, capace di plasmare il mondo in cui viviamo ci impone un’assunzione di responsabilità collettiva, da cui non possiamo e non dobbiamo tirarci indietro.
Per sottolineare questa circostanza, alcuni scienziati hanno suggerito di chiamare l’epoca attuale “antropocene”.
Non entro nel dibattito, tuttora in corso, sulla correttezza o meno di questa definizione, ma trovo il termine uno stimolo interessante se consente di riflettere sulla necessità di un cambio di paradigma per affrontare l’emergenza climatica.
Innanzitutto, è evidente come a tal fine la dimensione del singolo Stato sia totalmente inadeguata.
Gli sforzi di unità e indirizzo, realizzati a partire dalla costituzione dell’Onu, con le organizzazioni di integrazione continentale come l’Unione Africana e l’Unione Europea, non saranno mai sufficienti.
Soltanto un’azione collettiva può essere capace di coniugare efficacia e solidarietà per evitare gli scenari catastrofici in atto e quelli che si annunciano.
È il momento dell’unità, della coesione, non di divisioni fra Nord e Sud, fra Est e Ovest del mondo.
Affrontare le sfide che si pongono all’umanità, tutta insieme, significa abbandonare gli scenari di guerra e di conflitto interno che gravano, purtroppo, sui destini di tante popolazioni e progettare congiuntamente il futuro.
La brutale aggressione della Federazione Russa all’Ucraina sta riportando i rapporti internazionali indietro di ottant’anni, come se non vi fosse stato, in questo arco di tempo, un mirabile progresso sul terreno della indipendenza, della libertà e della democrazia, della crescita civile di tante nazioni.
Siamo cresciuti nella interdipendenza tra i nostri destini e gravissime sono le conseguenze degli atti della Federazione Russa sulla sicurezza alimentare, su quella energetica di tanti Paesi, sulla pace, anche nel continente africano, e nel Medio Oriente.
Il contrasto al cambiamento climatico è obiettivo unificante che richiama al dialogo multilaterale, al rispetto degli impegni liberamente assunti in sede internazionale.
La applicazione di piani per la transizione energetica rappresenta di per sè una modalità che può permetterci di addivenire a un sistema economico globale più equo, più sostenibile, più giusto.
È una grande opportunità per dare vita a forme di cooperazione internazionale equilibrate, che affrontino il tema dello sviluppo in modo sostenibile, con il necessario trasferimento tecnologico da parte dei Paesi più avanzati e mettendo a disposizione le risorse finanziarie necessarie a beneficio dei Paesi più vulnerabili.
Il tema della giustizia climatica è fondamentale e l’Unione Europea sostiene l’iniziativa, lanciata in occasione della recente COP 27 a Sharm El Sheikh di istituire un meccanismo per sostenere i Paesi più esposti agli eventi estremi derivanti dal mutamento climatico, tramite la creazione di un Fondo sulle perdite e i danni, che agisca sulla base del principio di solidarietà e non del mero risarcimento.
Particolarmente rilevante è il ruolo delle Istituzioni Finanziarie Internazionali per il sostegno alle iniziative finalizzate a ridurre le emissioni e consentire l’adattamento della società alle nuove condizioni.
Care studentesse, cari studenti,
in uno degli ultimi scritti, dell’Arcivescovo e Premio Nobel Desmond Tutu si legge: “Essere i custodi del creato non rappresenta un titolo vano; impone di agire e con tutta l’urgenza che la situazione richiede”.
La tutela dell’ambiente e il contrasto al cambiamento climatico rappresentano responsabilità ineludibili, che ricadono su tutta l’umanità, nessuno escluso.
Ciò detto, sono fermamente convinto che su questo tema, così come su molti altri, Africa ed Europa possano e debbano assumere congiuntamente un ruolo di guida.
La cooperazione fra Europa e Africa – il cui futuro è in comune - è determinante per promuovere obiettivi ambiziosi.
L’Africa detiene chiavi essenziali per il successo delle strategie di de-carbonizzazione del pianeta.
La produzione di energia pulita e la sua efficace distribuzione sono fondamentali per lo sviluppo dell’Africa, come indicato nella strategia dell’Unione Africana sul clima.
La transizione energetica, con la sua enfasi sulle energie rinnovabili e sull’economia circolare, apre nuovi e promettenti orizzonti di collaborazione per i nostri continenti.
A questo riguardo, con l’istituzione di uno specifico Fondo per il Clima, l’Italia intende proporsi come soggetto di primo piano per interventi di finanza climatica.
Dai grandi progetti per l’utilizzo dell’energia solare ed eolica, all’agricoltura 4.0, fino alla produzione di idrogeno verde, le potenzialità per il partenariato fra Africa e Europa sono numerose e tutte altamente promettenti.
La chiave di un successo, che per essere durevole non potrà che essere comune, sta nel rafforzare la consapevolezza della complementarietà fra Africa ed Europa, complementarietà che un frangente storico così complesso rende ancora più evidente.
Condividiamo la tensione verso un nuovo umanesimo, che ponga al centro, a livello nazionale e internazionale, l’uomo e la sua aspirazione a vivere con dignità in società più eque, inclusive e sostenibili.
Nel percorso di intensificazione dei rapporti, l’Italia e l’Unione Europea contano sulla interlocuzione con quei Paesi, come il Kenya, con cui costruire un partenariato fondato, oltre che sulla convergenza verso comuni interessi, su valori condivisi. Quali il rispetto per la dignità di ogni persona e di ogni comunità, la promozione dei valori democratici, l’attenzione per la crescita e lo sviluppo delle giovani generazioni, la cura dei beni comuni globali, a cominciare - appunto - da quello, preziosissimo, dell’ambiente.
Come affermò la stessa Wangari Maathai in occasione della cerimonia di consegna del Premio Nobel, “non può esserci pace senza sviluppo; e non vi può essere sviluppo senza una gestione sostenibile dell’ambiente in uno spazio pacifico e democratico”.
In queste sue parole ci riconosciamo pienamente.
Grazie.
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Clean Cities 2023: città italiane ancora lontane dagli obiettivi 2030

Claean Citties 2023

«Le città italiane sono ancora lontane dagli obiettivi di mobilità, riduzione delle emissioni e sicurezza fissati al 2030». E’ la sintesi del bilancio finale di Clean Cities, la campagna itinerante di Legambiente che ha messo in luce il ruolo che i capoluoghi italiani possono svolgere per guidare il paese verso una mobilità a zero emissioni.
Per misurare la distanza tra le attuali politiche di mobilità e quelle necessarie per raggiungere gli obiettivi prefissati al 2030, il tour della Clean Cities Campaign, ha toccato Avellino, Bari, Bergamo, Bologna, Catania, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Padova, Palermo, Perugia, Prato, Frosinone, Roma, Torino, Trieste – alle quali si aggiunge la tappa spin off di Taranto -  e ne è venuto fuori che «Tutte le città monitorate superano i futuri limiti di legge per la qualità dell'aria e presentato ritardi rispetto agli indici di sicurezza e all’implementazione di servizi e infrastrutture di mobilità sostenibile».  Ma Legambiente evidenzia che ci sono notevoli differenze territoriali: «Per esempio, Catania, Perugia, Avellino e Roma hanno i tassi di motorizzazione più elevati, mentre solo Milano e Genova si avvicinano al limite Ue di 35 auto ogni 100 abitanti».
Troppe città hanno registrato un numero elevato di feriti e morti in incidenti stradali, superiori alla media nazionale e sono lontane dagli obiettivi di dimezzamento delle vittime della strada al 2030 stabilito dal Piano Nazionale Sicurezza Stradale. Inoltre, spesso presentano una scarsa offerta di trasporto pubblico e mancano di alternative adeguate come i mezzi in sharing. Tendenza ravvisabile, soprattutto ad Avellino, Palermo, Prato, Perugia, Pescara, Catania e Napoli. Per quanto riguarda l'estensione della rete stradale a velocità ridotta (30 km/h), in generale si è molto lontani dagli obiettivi indicativi che Legambiente propone al 2030, pari all'80% delle strade urbane.
Il presidente nazionale di Legambiente Stefano Ciafani ha commentato: «Le città italiane devono compiere un importante cambiamento per diventare più vivibili e meno inquinate, ponendo al centro della loro strategia la mobilità pubblica, condivisa, elettrica, attiva e intermodale. Mentre il governo sembra muoversi in direzione opposta, decisamente anacronistica rispetto agli obiettivi comunitari di riduzione delle emissioni - tra cui il phase-out delle auto alimentate da combustibili fossili - le città hanno la responsabilità e il potere di fare la differenza. Possono diventare veri motori di cambiamento, rispondendo finalmente alle esigenze di tutti i cittadini e posizionando il nostro Paese tra i più avanzati dell'Unione Europea. In particolare, le 9 città pioniere - Bergamo, Bologna, Firenze, Milano, Padova, Parma, Prato, Roma e Torino - incluse nella Missione per la Neutralità Climatica devono definire un percorso chiaro per raggiungere l'obiettivo del net-zero entro 7 anni».
E’ stato anche presentato il sondaggio Ipsos-Legambiente "Tipi mobili nelle città italiane", promosso in collaborazione con Unrae,  che ha analizzato le abitudini di mobilità su scala nazionale con un focus su Roma, Napoli, Firenze, Milano e Torino e dal quale  emerge che «I comportamenti degli italiani riguardo alla mobilità sono molto variegati e segmentati, e ognuno di essi richiede una risposta diversa.  In particolare, una fetta consistente del campione nazionale, il 23%, è rappresentato dagli “aperti al pubblico”, ovvero da coloro che userebbero di più i mezzi pubblici e condivisi a fronte di un potenziamento dei servizi e una diminuzione dei costi. A Milano sono il 25%, a Napoli il 24%, a Torino il 23%, a Firenze 18%, a Roma il 16%.  Il 19% del campione nazionale è, invece, rappresentato dagli "obbligati ma insoddisfatti", che preferiscono camminare o andare in bicicletta perché conviene. Sono disposti a rinunciare del tutto all'auto di proprietà, a fronte di una maggiore sicurezza stradale e un potenziamento dei servizi sharing.  Questo gruppo è cresciuto dopo il lockdown e vive soprattutto nelle grandi città, come Roma (27%) e Torino (25%), seguita da Napoli (22%) e Milano (22%) e Firenze (19%). Tra coloro che si muovono tanto (oltre un’ora al giorno in viaggio) nelle periferie e nei piccoli centri prevalgono gli “Irriducibili individualisti - mai fermi ma incollati al volante” (14% del campione), che, a Milano si dimezzano in favore degli “attenti per scelta - multimobili e multimodali”, ovvero chi usa in modo prevalente bici, metropolitana e i servizi di sharing (il 13% dei milanesi)».
Secondo Andrea Poggio, responsabile mobilità di Legambiente, «I dati emersi dalla campagna e dal sondaggio sono chiari: i cittadini sono disposti a cambiare il loro modo di muoversi, ma il trasporto pubblico in Italia è molto al di sotto della media europea, con soltanto un quarto delle metropolitane, treni veloci, linee tranviarie e autobus elettrici rispetto agli altri paesi. Per rendere le città veramente sostenibili e inclusive, occorre adottare politiche che rendano i quartieri e le città più accessibili in bici e con mezzi elettrici condivisi (con zone a basse emissioni e a pedaggio per le auto private) adottando le nudge policies (o spinte gentili) attraverso incentivi economici, abbonamenti e miglioramenti dei servizi. Queste misure devono andare di pari passo, poiché l'esperienza di tutte le città del mondo dimostra che senza l'una, l'altra non può funzionare».
Per trasformare le città italiane in vere “clean cities”, il Cigno Verde sottolinea che «Bisogna dunque disegnare percorsi prioritari ciclo-pedonali, incrementare i mezzi pubblici, creare zone scolastiche, aumentare i servizi e le infrastrutture di mobilità elettrica e condivisa, progettare zone cittadine a "zero emissioni", anche per la distribuzione delle merci».
E’ stato presentatto anche il progetto MOB realizzato della Fondazione Unipolis in partnership con Legambiente, che ha l’obiettivo dell’engagement dei giovani tra i 16 e i 21 anni. Durante il tour sono state raggiunte ben 50 classi delle scuole secondarie di secondo grado e ingaggiate altrettante squadre, che si sfideranno assieme ad altri 100 team - in rappresentanza di classi, oratori, associazioni sportive e culturali - in un grande torneo nazionale con l’app MUV Game. Dal 20 marzo al 28 maggio si affronteranno e saranno premiate muovendosi a piedi, in bicicletta, in autobus, in car pooling o con mezzi elettrici e saranno poi impegnate nella definizione di interventi per rendere la mobilità della propria città più sostenibile ed efficiente.
La campagna è stata anche l'occasione per i volontari di Legambiente di accendere i riflettori sull'impatto che l'inquinamento atmosferico ha sugli ecosistemi e sulla biodiversità, oltre che sulla salute umana. Flash mob in diverse città italiane grazie al progetto LIFE MODErn (NEC), guidato dall’Arma dei Carabinieri del CUFAA e supportato, tra gli altri, da Legambiente, che ha l'obiettivo di migliorare il sistema di valutazione degli impatti dell'inquinamento atmosferico sugli ecosistemi forestali e di acqua dolce. Gli attivisti sono scesi in strada muniti di una maschera antigas collegata ad una piccola teca contenente una piantina con il messaggio "Respiriamo grazie a loro. Non soffochiamole".
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