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Indagine Bei sul clima: gli italiani più virtuosi di francesi e tedeschi. E chiedono al governo di fare di più

Indagine Bei sul clima
Secondo quanto emerge dalla seconda parte della quinta edizione dell’Indagine annuale della Banca europea per gli investimenti (BEI) sul clima, condotta nell'agosto 2022 e pubblicata oggi, l'81% dei ventenni italiani considera l'impatto climatico delle attività di un potenziale datore di lavoro un fattore rilevante nella scelta di un posto di lavoro, e il 25% addirittura afferma che è una priorità assoluta. L'85% è favorevole all'etichettatura generalizzata dei prodotti alimentari per contribuire a ridurre l’impatto su clima e ambiente. Il 64% sarebbe disposto a pagare di più per alimenti prodotti con criteri di attenzione al clima. Il 64% è favorevole alla creazione di un sistema di bilancio del carbonio per fissare un tetto ai consumi climaticamente più nocivi». La BEI è il braccio finanziario dell’Unione europea e uno dei maggiori finanziatori multilaterali mondiali di progetti in campo climatico, La seconda parte dell’Indagine della BEI sul clima per il 2022-2023 esamina le opinioni dei cittadini sui cambiamenti climatici in un mondo in rapida evoluzione e i risultati di questa edizione si concentrano sui comportamenti individuali e sulle azioni che adottano per contrastare i cambiamenti climatici. L’Indagine evidenzia che «La guerra in Ucraina e le sue conseguenze, tra cui l'aumento dei prezzi dell'energia e l'inflazione, hanno accresciuto in modo significativo le preoccupazioni delle persone riguardo al calo del potere d'acquisto. In Italia, tuttavia, i cambiamenti climatici restano una delle maggiori sfide che il Paese deve affrontare (il 56% degli italiani colloca il degrado climatico o ambientale tra le tre principali sfide nazionali). Oltre tre quarti degli intervistati (80%) affermano di essere convinti che il proprio comportamento possa fare la differenza nell'affrontare l'emergenza climatica, una percentuale di 8 punti percentuali superiore alla media Ue». Molti italiani ritengono  che il governo debba svolgere un ruolo forte quando si tratta di spingere i singoli a modificare il proprio comportamento: «Tre quarti degli italiani (76%) sono favorevoli a misure governative più stringenti che impongano un comportamento diverso delle persone di fronte ai cambiamenti climatici (l'82% degli intervistati sotto i 30 anni sarebbe favorevole a questo tipo di misure)». Con l’entrata di nuovi soggetti nel mercato del lavoro, le considerazioni sulle questioni climatiche tra chi (può) sceglie che lavoro fare lavoro diventano sempre più diffuse. Il rapporto evidenzia che «La maggior parte della popolazione (75%) afferma già che è importante che un potenziale datore consideri la sostenibilità un aspetto prioritario. Per il 25% dei candidati a un posto di lavoro, la sostenibilità è perfino una priorità assoluta. Questa maggioranza è generalizzata e abbraccia tutti i vari orientamenti politici e livelli di reddito». Inoltre, «Quasi due terzi degli italiani intervistati (64%) vedono di buon grado la creazione di un sistema di bilancio del carbonio che destinerebbe un numero fisso di crediti annuali da spendere nei prodotti con una pesante impronta carbonio (beni che non sono di prima necessità, voli aerei, carne, ecc.). Lo stesso parere è condiviso anche dalla maggioranza degli intervistati francesi e tedeschi (rispettivamente il 57% e 56%). È bene sottolineare come questa misura raccolga il consenso della maggior parte degli italiani, indipendentemente dal livello di reddito (70% dei redditi più bassi, 63% della classe media e oltre il 63% degli intervistati nelle fasce di reddito più elevato)». La produzione alimentare contribuisce significativamente alle emissioni di gas serra. Per aiutare le persone a fare scelte più sostenibili quando riempiono il carrello della spesa, l'85% degli italiani è favorevole all'etichettatura generalizzata dei prodotti alimentari per una chiara individuazione dell’impronta climatica dei vari prodotti. Una percentuale vicina a quella francese (83%) e superiore del 5% rispetto a quella tedesca (80%). Inoltre, l 64% degli italiani afferma di essere disposto a pagare un po’ di più per i generi alimentari prodotti localmente e in modo più sostenibile una percentuale che in Francia arriva al 60% e in Germania al 61%. Smentendo una convinzione diffusa – soprattutto tra i politici e i media italiani – il rapporto evidenzia che «La disponibilità a pagare di più per i prodotti alimentari accomuna le varie fasce di reddito, e va dal 62% dei soggetti con reddito inferiore al 68% di quelli a reddito più elevato». Un altro modo efficace per limitare le emissioni di gas serra è quello di ridurre il consumo di carne e prodotti lattiero-caseari e dal rapporto viene fuori che «Più di due terzi degli italiani (68%) sarebbero disposti a contenere la quantità di carne e latticini che le persone possono acquistare». Il 19% più dei tedeschi e l’11% sopra i francesi. Anche questa risposta accomuna i soggetti che appartengono alle varie fasce di età e di reddito. La Vicepresidente della BEI Gelsomina Vigliotti conclude: «I risultati dell'Indagine della BEI sul clima mostrano che gli italiani sono più che disposti a contribuire individualmente alla lotta contro i cambiamenti climatici. Come banca per il clima dell'Ue, apprezziamo molto questo impegno. E’ nostro compito consentire alle persone di agire individualmente per ridurre le emissioni di CO2 e incoraggiare una vita quotidiana più sostenibile. Lo facciamo finanziando servizi green come i trasporti sostenibili, le energie rinnovabili e gli edifici efficienti dal punto di vista energetico, ed anche promuovendo gli investimenti verdi effettuati dalle PMI. Il nostro sostegno ai progetti green in Italia è stato di quasi 5,5 miliardi di euro nel 2022. Continueremo a sostenere iniziative che accelerano la transizione verde e siamo alla ricerca di modi innovativi che contribuiscano alla realizzazione di un futuro prospero che non lascia indietro nessuno». L'articolo Indagine Bei sul clima: gli italiani più virtuosi di francesi e tedeschi. E chiedono al governo di fare di più sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Turismo: come l’impatto ambientale influenza i comportamenti di viaggio di italiani ed europei

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Oltre che all’Italia, la terza edizione dell’Osservatorio EY Future Travel Behaviours ha esteso il panel di viaggiatori presi esame anche a Francia, Germania, Spagna e Regno Unito, fornendo un quadro delle abitudini e dei driver alla base delle scelte dei viaggiatori nel Paese e in Europa. Inoltre, dato l'attuale contesto caratterizzato da tensioni geopolitiche e il conseguente aumento generale dei prezzi, l’Osservatorio ha esaminato come le aspettative di riduzione del potere d'acquisto influenzino le scelte di viaggio. L’approccio utilizzato ha combinato domande esplicite con test psicologici impliciti che consentono di sondare le motivazioni inconsce che determinano le scelte di viaggio. Ne è emerso che «Si registra un trend crescente dei viaggi di vacanza e in recupero rispetto al calo dovuto alla pandemia (89% quest’anno rispetto all’85% nel 2022), con una propensione degli italiani a mantenere o incrementare la frequenza dei propri viaggi maggiore rispetto agli altri principali Paesi europei. Anche se ad oggi non si registra un impatto rilevante dell’inflazione sulle scelte di viaggio degli italiani, tuttavia emerge un potenziale rischio con circa il 65% del campione che ridurrebbe la durata e/o il numero di viaggi nel caso di un calo del proprio potere di acquisto». L’Osservatorio ha delineato 8 profili di viaggiatori che in parte confermano le tendenze riscontrate nelle precedenti edizioni: gli Environment Concerned sono particolarmente sensibili ai viaggi sostenibili, i Virtual Meeting Fans prevedono di limitare i viaggi di vacanza e di lavoro, gli Hypertravellers intendono aumentare ulteriormente i viaggi e chiedono esperienze personalizzate. I profili che durante la pandemia erano ansiosi di riprendere a viaggiare si sono evoluti in Serial Vacationers e Experience Seekers. All’opposto si collocano i Reluctant Travelers. Altri profili incarnano trend emergenti: le scelte degli Inflation Concerned sono guidate dalla riduzione del potere d'acquisto, mentre i Young Price Seekers sono Gen Z e Millennials interessati a combinare lavoro e vacanza e a trovare soluzioni di viaggio convenienti in linea con il loro budget. I dati dell’Osservatorio testimoniano come i viaggi di vacanza siano in aumento con un ulteriore recupero rispetto al calo dovuto alla pandemia: «L’89% dei partecipanti ha in piano almeno un viaggio di vacanza nel 2023, dato migliorativo rispetto al 2022 (85%). L’Italia presenta inoltre la più alta percentuale di viaggiatori in Europa (88%) che incrementerà o non limiterà i viaggi nel 2023 e 1 persona su 5 pensa di incrementare i viaggi rispetto allo scorso anno». Per quanto riguarda i mezzi di trasporto, l’Osservatorio evidenzia come «L’aereo abbia un tasso di utilizzo più alto nel Regno Unito e in Spagna mentre l’Italia è al primo posto per l’uso del treno». Guardando all’estero, 3 persone su 5 prevedono di viaggiare in un Paese estero in Europa e circa il 20% oltre i confini europei. La Spagna è indicata come la meta preferita tra le destinazioni di viaggio europee del 2023, seguita da Italia e Francia. Però l’indagine rivela che «I viaggi per lavoro, ancora notevolmente inferiori ai livelli pre-pandemici, hanno ancora limitate prospettive di ripresa per il 2023. A quest’ultima rilevazione si associa il fenomeno ormai consolidato del lavoro del remoto che ha subito una forte accelerazione dettata dalla pandemia e che ancora oggi offre talvolta un’alternativa ai viaggi di lavoro. Nonostante solo il 6% dei partecipanti nell’Osservatorio indichi tra le motivazioni di viaggio del 2023 la scelta di combinare vacanza e lavoro nello stesso viaggio (workation), una percentuale ben più significativa (36%) è potenzialmente interessata a farlo in futuro, in particolare tra le generazioni più giovani. Tra le principali motivazioni per i viaggi di vacanza viene indicato il relax (73%), il desiderio di esplorare nuovi luoghi e culture (64%) e lo stare insieme a familiari e amici (54%). Guardando al futuro, il rapporto evidenzia una maggiore propensione implicita al risparmio rispetto all’orientamento alla spesa:  «Il 66% del campione è propenso a cambiare le proprie abitudini di viaggio qualora si verificasse una riduzione del proprio potere di acquisto, con una preferenza a diminuire il numero o la durata dei viaggi piuttosto che sacrificarne la qualità e il comfort. Tuttavia, il 19% del campione non rinuncerebbe ai propri viaggi a costo di sacrificare altre voci di spesa e il 15% non crede che il proprio potere di acquisto si ridurrà». La nuova edizione dell’Osservatorio analizza da diverse angolazioni come la preoccupazione per l'impatto ambientale influenzi i comportamenti e le intenzioni di viaggio: «Sono stati effettuati dei test impliciti che hanno permesso di sondare in profondità gli intenti e fattori inconsci alla base delle scelte di viaggio. E’ emerso che secondo circa 1 persona su 2 l'impatto ambientale è un fattore importante per le proprie scelte di viaggio e gran parte del campione (2 su 3) mostra un atteggiamento implicito di preoccupazione verso i temi ambientali. In termini economici, 6 persone su 10 pagherebbero costi aggiuntivi per compensare le emissioni di CO2. Tuttavia, quando si tratta di comportamenti effettivi, i viaggiatori bilanciano la sostenibilità con altri driver di scelta, come il prezzo e la durata complessiva. I risultati suggeriscono che in futuro la sostenibilità avrà un ruolo maggiore, trainata dalla crescente motivazione delle generazioni più giovani e dalla disponibilità di informazioni e offerte commerciali su opzioni di viaggio sostenibili». L’Osservatorio fa notare che la Generazione Z viaggia più della media e che è  quella più propensa a viaggiare all'estero: «Il confronto con le altre generazioni consente di fornire alcune indicazioni sui principali trend di viaggio anche in ottica futura. I viaggiatori della Generazione Z, infatti, sono più influenzati dalla sostenibilità nelle loro scelte di viaggio, desiderano maggiori informazioni sulle opzioni di viaggio sostenibili e sono più disposti a pagare un extra costo per compensare le emissioni. Questi soggetti si aspettano esperienze digitali “one click” al momento della prenotazione oltre a una connettività costante durante il viaggio. Sono due volte più interessati rispetto alla media a combinare lavoro e vacanza quando viaggiano e ad abbonarsi a servizi premium». I servizi gratuiti più apprezzati sono quelli che aiutano i clienti nella gestione di ritardi e disservizi, soprattutto  rimborsi e bonus automatici ed informazioni tempestive. Anche la flessibilità nella prenotazione emerge come priorità, in particolare la possibilità di bloccare gratuitamente una prenotazione per un periodo di tempo limitato. Tuttavia, la gamma di servizi gratuiti desiderati è ampia e varia a seconda del profilo del viaggiatore. Le preferenze per i servizi accessori a pagamento sono ancora più variegate. Inoltre, 2 su 3 affermano che la personalizzazione dell'esperienza di viaggio è un importante fattore di scelta. Claudio d’Angelo, transportation market segment leader di EY in Italia, conclude: «L’edizione di quest’anno dell’Osservatorio indaga come le abitudini dei viaggiatori in Italia e in Europa si stiano trasformando, permettendo di delineare potenzialmente quali saranno i principali trend di viaggio nel futuro. In particolare, i comportamenti attesi e le preferenze della Generazione Z forniscono indicazioni sulle scelte di viaggio future con trend emergenti quali l’interesse a unire vacanze e lavoro nello stesso viaggio e fruire di esperienze digitali personalizzate. La sostenibilità ambientale, che ormai si consolida come un fattore importante per le scelte dei mezzi di trasporto secondo il 50% dei viaggiatori, in prospettiva avrà un ruolo ancora più determinante per le nuove generazioni che desiderano maggiori informazioni sulle opzioni di viaggio sostenibili e sono più disposte a pagare un extra per compensare le emissioni». 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34 associazioni: no alla proposta della Lega di censura delle proteine veg

no alla proposta della Lega di censura delle proteine veg
A Better Future AB, ACU - Associazione Consumatori Utenti, Alternative Protein International, Anima International, Animal Equality Italia, Animal Friends Croatia, Animal Law Italia, Associazione Terra!, CiWF Italia, ENPA, Essere Animali, Eurogroup for Animals, European Alliance for Plant-based Foods, European Vegetarian Union, Fórum Nacional de Proteção e Defesa Animal, Future Food 4 Climate, Green REV Institute, Grønn Framtid, Gyvi Gali, Humane Society International/Europe, LAV, LNDC Animal Protection, OIPA Italia, Plant Based Cities Movement, Plant Based Foods Association (PBFA), Plant Based Foods Institute (PBFI), Plantebranchen, ProVeg International, Swissveg, The Good Lobby Italia, The Jeremy Coller Foundation, Tutmonda Esperantista Vegetarana Asocio, Unión Vegetariana Española, Vegan France Interpro hanno scritto alla Commissione agricoltura della Camera ricordando ai deputati che «Un sondaggio evidenzia che l’88% degli italiani è a favore dell’uso di termini come burger e salsiccia per identificare prodotti a base vegetale, per rappresentare in trasparenza e rispetto dell'iter democratico è fondamentale audire in Commissione le associazioni che rappresentano consumatori, aziende e cittadini impegnati nella sostenibilità alimentare e ambientale». Il 15 marzo la Commissione agricoltura ha iniziato l’esame della proposta di legge n.746 “Disposizioni in materia di denominazione dei prodotti alimentari contenenti proteine vegetali” che vede come primo firmatario Mirco Carloni della Lega e che punta a vietare per i prodotti a base vegetale l’utilizzo di nomi tipici dei prodotti di carne, come burger, salsiccia, würstel, cotoletta e altri Le 34 associazioni scrivono: «Riteniamo che il testo attualmente presenta alcune criticità» e per questo chiedono di poter essere audite in Commissione così da poter rappresentare il punto di vista e gli interessi delle associazioni della società civile. La lettera evidenzia alcune criticità della proposta di legge leghista: La proposta non tiene conto delle opinioni e delle consuetudini dei consumatori. La richiesta di prodotti a base vegetale è in crescita continua e rispecchia l’interesse dei consumatori per aspetti etici, ambientali e salutari del cibo. Utilizzare sulle confezioni le denominazioni attuali, specificando che si tratta di prodotti vegetali, è un modo per dare al consumatore una immediata idea di utilizzo e sapore del prodotto e favorire una scelta informata. A testimonianza di ciò in un sondaggio pubblicato nel 2020 da Beuc1 (The European Consumer Organization) l’88% degli italiani si è espresso a favore dell’utilizzo di questi termini. Inoltre il consumatore che sceglie un prodotto vegetale lo fa sapendo bene che tra alimenti diversi ci sono differenze in termini di principi nutritivi - come tra l’altro in un prodotto simile se realizzato con diverse topologie di carne - e spesso sceglie un’alternativa a base di proteine vegetali proprio con cognizione di causa2 e con l’obiettivo di una qualità e tipologia nutrizionale diversa. La proposta non è in linea con le attuali regole Ue e i suoi sviluppi riguardo le denominazioni.  Nell’ottobre 2020, nel contesto della Proposta per un Regolamento emendativo al Regolamento (EU) No 1308/2013 che stabilisce una organizzazione comune dei mercati per le produzioni agricole (“CMO Regulation”), il Parlamento Europeo ha rigettato un divieto di utilizzo di denominazioni tipiche della carne per i prodotti vegetali (per es. “burger vegetariano”)3 . Il voto ha univocamente chiarito che l’uso di tali denominazioni non ingannano i consumatori ma aiutano a fare scelte di acquisto informate. Per adempiere alle ambizioni dell’Europa per un sistema alimentare più sostenibile, il settore vegetale ha bisogno di un supporto legislativo che non ostacoli l’innovazione e l’informazione al consumatore attraverso restrizioni sproporzionate. Inoltre, se adottata, questa proposta contribuirebbe a una frammentazione regolatoria che può costituire una potenziale barriera al Mercato Unico UE, impattando sia sulle informazioni ai consumatori che sull’accesso ai cibi vegetali. La proposta non è in linea con i piani Ue per un sistema alimentare più sostenibile. La strategia Farm to Fork punta a rendere il sistema alimentare meno impattante anche favorendo la transizione verso un maggior consumo di proteine vegetali e la riduzione degli allevamenti. Come scrive la stessa Commissione europea nel testo “Drivers of Food Security”4 del gennaio 2023: “Il cibo contribuisce per circa il 45% dell’impatto ambientale dei consumatori UE; per esempio il sistema alimentare contribuisce per circa un terzo delle emissioni di gas serra (GHG). (...) Includendo le emissioni relative alla produzione, trasporto e lavorazione dei mangimi, il settore zootecnico è responsabile per l’81-86% delle emissioni totali di gas serra dell’agricoltura. Le scelte alimentari possono influenzare l’efficienza di utilizzo di energie e risorse nel nostro attuale sistema alimentare. In un mondo già spinto ai limiti delle le proprie capacità, inclusa l’UE, passare a diete basate maggiormente sui vegetali contribuirebbe alla sicurezza alimentare perché una considerevole proporzione di terre agricole viene utilizzata per produrre mangimi piuttosto che cibo per il consumo umano.” Per favorire questa transizione, che anche l’ultimo report IPCC5 definisce necessaria, è fondamentale rendere i cibi di origine vegetale più disponibili e convenienti per il consumatore. Le denominazioni e la comunicazione riguardo questi prodotti giocano un ruolo importante. La proposta non promuove la sana alimentazione. Un’alimentazione maggiormente basata sulle proteine a base vegetale ha ricadute positive sulla salute, riducendo i rischi di malattie cardiache, infarti, pressione alta, oltre a ridurre il rischio di malattie croniche come il diabete. Basandosi su oltre 800 studi l’OMS6 ha dichiarato nel 2015 che la carne rossa processata è carcinogenica e che la carne rossa è potenzialmente carcinogenica, e la transizione a un’alimentazione più vegetale è parte del Piano europeo di lotta contro il cancro. La proposta avrà un impatto economico negativo su numerose aziende italiane. Questa proposta di legge parla di “rispetto del lavoro delle nostre aziende”, puntando alla tutela delle attività italiane, ignorando però il fatto che numerose aziende che producono alternative a base vegetale del nostro Paese subiranno gravi danni economici dovendo investire ingenti somme in comunicazione, marketing e completo rinnovo dei packaging. Per tutti questi motivi chiediamo al Governo italiano di allineare le proprie attività legislative con gli obiettivi UE di sostenibilità, a partire dal non fare avanzare questa proposta di legge sulle denominazioni dei prodotti vegetali. Ricordiamo nuovamente che nel 2020 con la strategia Farm to Fork la Commissione Europea si è impegnata a prendere una direzione più sostenibile, verso la transizione del sistema alimentare e agricolo, e che gli alimenti a base vegetale sono parte integrante di questa transizione. Le 34 associazioni concludono: «Vi invitiamo pertanto a considerare le osservazioni e le proposte delle scriventi organizzazioni in audizione presso la Commissione Agricoltura. E’ fondamentale che l’Italia assuma un ruolo determinante nella definizione di politiche alimentari sostenibili e le proteine a base vegetale giocano un ruolo chiave in questo processo così importante per il futuro di tutti noi e per una vera e sostenibile transizione ecologica». L'articolo 34 associazioni: no alla proposta della Lega di censura delle proteine veg sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Acqua e cambiamenti climatici: servono 1,3 miliardi l’anno di risorse aggiuntive fino al 2026

Acqua e cambiamenti climatici
Secondo i dati presentati oggi da Utilitalia (la Federazione delle imprese idriche, ambientali ed energetiche) nel corso del webinar “Siccità, abbiamo un piano?”, «Di fronte alle nuove sfide poste dagli effetti dei cambiamenti climatici, per coprire il fabbisogno annuo di investimenti del settore idrico - stimato in circa 6 miliardi di euro - servono risorse aggiuntive per 1,3 miliardi di euro l’anno fino al 2026. Attualmente, infatti, le risorse si attestano sui 4,7 miliardi di euro annui, 4 dei quali derivanti dagli investimenti da tariffa e 0,7 dal Pnrr, che ha un orizzonte temporale al 2026: dopo quell’anno, se non venissero nel frattempo incrementati gli investimenti da tariffa o altra fonte, le risorse aggiuntive necessarie passerebbero da 1,3 a 2 miliardi di euro l’anno». Utilitalia ha presentato 8 proposte per favorire l’adattamento infrastrutturale delle reti idriche, un documento suddiviso in azioni di breve (attuabili entro 3 mesi), medio (entro 6 mesi) e lungo periodo (oltre 6 mesi), che segnala una serie di possibili interventi normativi in risposta alla crisi idrica. Tra le azioni di breve periodo, si prevede di favorire il riuso efficiente: «Il riuso delle acque reflue depurate rappresenta una soluzione che dovrebbe diventare strutturale, laddove economicamente sostenibile anche a fronte di un’analisi costi-benefici rispetto ad altre soluzioni praticabili nel contesto di riferimento: si tratta di un potenziale enorme che in Italia viene sfruttato solo per il 4% a fronte di una potenzialità del 23%. Tra le misure abilitanti, Utilitalia chiede di aggiornare il DM 185/2003 (una nuova proposta di decreto è attualmente in consultazione pubblica) alle disposizioni del Regolamento europeo 2020/741 e di individuare la corretta copertura dei costi inerenti l’implementazione degli impianti ed infrastrutture necessarie per il riuso, anche di stoccaggio». La seconda misura di breve periodo punta a contrastare il cuneo salino: «Uno degli effetti più gravi della siccità è infatti la progressiva salinizzazione della falda e delle acque di transizione, che rende le acque emunte inutilizzabili a fini potabili e agricoli. In quest’ottica, sarà necessario sostenere i livelli idrici necessari al contrasto del cuneo salino anche praticando l’aumento dei volumi di falda». La terza proposta si concentra sull’opportunità di diversificare la strategia di approvvigionamento: «La pratica della dissalazione può essere considerata come un’azione di produzione complementare di acqua potabile: in Italia le acque marine o salmastre rappresentano solo lo 0,1% delle fonti di approvvigionamento idrico (pari a 11,1 milioni di metri cubi) contro il 3% della Grecia e il 7% della Spagna. Utilitalia chiede di modificare o abrogare l’art.12 della legge 60/2022 (Salvamare) che aumenta i tempi e la complessità degli iter autorizzativi per gli impianti di dissalazione». La quarta proposta di breve periodo mira a sostenere la presenza di gestioni industriali: «In totale, in Italia, ci sono ancora 1.519 comuni gestiti in economia (il 20% del totale nazionale), pari a 8,2 milioni di abitanti (circa il 14% della popolazione). Tra le misure abilitanti, viene indicato il completamento dell’affidamento del Servizio Idrico Integrato a gestori industriali in tutto il Paese, come previsto dal Dl “Aiuti bis”». Tra le azioni di medio periodo, Utilitalia revede innanzitutto di rafforzare il ruolo di pianificazione e governance dei distretti idrografici: «Il ruolo dei sette distretti idrografici è fondamentale nella governance interregionale della risorsa idrica, soprattutto nella gestione delle fasi particolarmente siccitose». Visto che in Italia le procedure autorizzative occupano quasi il 54% del tempo necessario per la realizzazione di un’opera infrastrutturale Per Utilitalia «Si dovrà puntare inoltre a semplificare la realizzazione degli investimenti» de per questo suggerisce di «Inserire gli impianti connessi allo svolgimento dei servizi di interesse generale a rete tra quelli sottoposti alle “speciali” procedure accelerate per la VIA Statale e regionale (PAUAR), consentendo al contempo semplificazioni procedurali per gli impianti già esistenti». Nel lungo periodo bisogna puntare a promuovere l’uso efficiente dell’acqua: «Efficientare ed ottimizzare l’utilizzo della risorsa da parte dei settori idroesigenti è la prima forma di tutela della risorsa idrica da perseguire. Tre le misure abilitanti segnalate: accelerare nella riduzione delle perdite nel sistema idropotabile; introdurre meccanismi di incentivazione economica al risparmio, quali “certificati blu” in analogia ai “certificati bianchi” nell’energia elettrica; istituire la Giornata Nazionale del Risparmio Idrico e dell’uso razionale dell’acqua, affiancandola alla Giornata Mondiale dell’Acqua (22 marzo)». L’ultima proposta riguarda la realizzazione delle opere infrastrutturali strategiche, «Perché la realizzazione di invasi e l’interconnessione delle reti idriche garantirà una pluralità di fonti per prevenire le emergenze future». Tra gli interventi necessari, Utilitalia chiede di «Promuovere una pianificazione integrata per la realizzazione delle opere infrastrutturali necessarie a partire dal Piano Nazionale per gli investimenti del settore idrico, e di realizzare inoltre grandi invasi ad uso plurimo, invasi di piccole e medie dimensioni ad uso irriguo e interconnessioni delle reti per favorire l’adattamento».   L'articolo Acqua e cambiamenti climatici: servono 1,3 miliardi l’anno di risorse aggiuntive fino al 2026 sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Animalisti e scienziati contro l’allevamento industriale di polpi

allevamento industriale di polpi
Dopo aver ottenuto i piani per la realizzazione del primo allevamento commerciale di polpi al mondo, Eurogroup for Animals e Compassion in World Farming chiedono che non venga realizzato per la crudeltà sugli animali e le conseguenze ambientali che comporterebbe. Inoltre, alla luce delle prove scientifiche significative e crescenti dell’impatto che gli allevamenti intesnsivi hanno sul nostro pianeta, chiedono all'Unione europea di non stanziare  fondi pubblici per sostenere lo sviluppo dell'allevamento di polpi o qualsiasi altro nuovo allevamento industriale. I piani, presentati alla Direzione Generale della Pesca del Governo delle Isole Canarie dalla società Nueva Pescanova, e scoperti da Eurogroup for Animals, hanno sollevato serie preoccupazioni:  includono l'utilizzo di un metodo di macellazione crudele, il confinamento dei polpi in piccole vasche sterili e pratiche che contribuiscono allo sfruttamento eccessivo delle popolazioni di pesci selvatici. Le preoccupazioni degli attivisti sono delineate nel nuovo rapporto “Uncovering the horrific reality of octopus farming” e confermate recentemente dagli scienziati  nello studio “Live chilling of turbot and subsequent effect on behaviour, muscle stiffness, muscle quality, blood gases and chemistry”, pubblicato su Animal Welfare. Eurogroup for Animals e Compassion in World Farming Rivelano che «Circa un milione di polpi saranno allevati nell'allevamento proposto nel porto di Las Palmas a Gran Canaria, in Spagna, producendo circa 3.000 tonnellate di polpi all'anno».  Inoltre i piani ottenuti dagli animalisti confermano i loro timori che verrebbero attuate una serie di pratiche estremamente preoccupanti, incluso che i polpi verrebbero: «Macellati usando un crudele liquido ghiacciato: un metodo altamente avverso e disumano, scientificamente provato, che causa dolore, paura e sofferenza considerevoli, oltre a un’agonia prolungata.  Confinati in vasche sottomarine affollate e sterili che si tradurranno in uno scarso benessere e rischieranno aggressioni, territorialismo e persino cannibalismo a causa della natura naturalmente solitaria dei polpi.  Esposti a luce innaturale 24 ore su 24 per aumentare la riproduzione, il che causerà uno stress eccessivo data l'avversione che questi animali hanno per la luce. Alimentati con mangimi commerciali contenenti farina di pesce e olio di pesce come ingredienti principali, il che è insostenibile e contribuisce alla pesca eccessiva delle popolazioni selvatiche. Allevati all'interno di un sistema di acquacoltura terrestre  con un rischio più elevato di mortalità di massa a causa delle condizioni di sovraffollamento necessarie per la loro redditività nonché degli impatti ambientali negativi derivanti dall'uso eccessivo di energia». La multinazionale spagnola che sta dietro il progetto nega che i polpi soffrirannom, ma nel 2021, Compassion in World Farming aveva pubblicato il rapporto “Octopus Factory Farming: A Recipe for Disaster” nel quale sosteneva che «L'allevamento di polpi è crudele e causerebbe danni ambientali ai nostri oceani» e che «Test sperimentali per allevare polpi suggeriscono che il tasso di mortalità in questi sistemi sarebbe di circa il 20%, il che significa che 1 individuo su 5 non sopravviverebbe all'intero ciclo produttivo». Nei suoi documenti, Nueva Pescanova stima che ci sarà «Un tasso di mortalità del 10-15%». Peter Tse, neurologo della Dartmouth University, ha detto alla BBC che «Ucciderli con il ghiaccio sarebbe una morte lenta... sarebbe molto crudele e non dovrebbe essere permesso. Sono intelligenti come gatti. Un modo più umano sarebbe quello di ucciderli come fanno molti pescatori, bastonandoli sulla testa». Jonathan Birch della London School of Economics ha condotto una revisione di oltre 300 studi scientifici che, secondo lui, «Dimostrano che i polpi provano dolore e piacere. Questo li ha portati a essere riconosciuti come "esseri senzienti" nell'Animal Welfare (Sentience) Act del Regno Unito del 2022. Un gran numero di polpi non dovrebbe mai essere tenuto insieme in stretta vicinanza. Questo porta a stress, conflitti e alta mortalità... Una cifra del 10-15% di mortalità non dovrebbe essere accettabile per nessun tipo di allevamento». In una In una dichiarazione alla BBC, Nueva Pescanova ribatte che «I livelli di requisiti di benessere per la produzione di polpo o di qualsiasi altro animale nei nostri allevamenti garantiscono la corretta gestione degli animali. Allo stesso modo, la macellazione, comporta una manipolazione adeguata che eviti qualsiasi dolore o sofferenza per l'animale». Se approvato, l'allevamento delle Isole Canarie sarebbe il primo allevamento industriale di polpi al mondo, ma ci sono tentativi di creare allevamenti di polpi simili in altri Paesi come il Messico e il Giappone. A febbraio, lo Stato Usa di Washington ha avviato una proposta di legge per vietare l'allevamento di polpi che sarebbe la prima del suo genere e che ha fatto seguito alla recente chiusura, dopo una campagna di protesta di Compassion in World Farming, dell'unico allevamento di polpi attivo negli Usa, il “Kanaloa Octopus Farm” delle Hawaii. Negli ultimi decenni Il polpo è diventato un alimento sempre più popolare, in particolare in Spagna. Nel 2015, il numero di polpi catturati in tutto il mondo ha raggiunto un massimo di 400.000 tonnellate, 10 volte in più rispetto al 1950 e il numero di polpi selvatici sta diminuendo. Il progetto delle Canarie partirebbe con un a covata iniziale di 100 polpi - 70 maschi e 30 femmine – che verrebbe prelevata da una struttura di ricerca, il Centro biomarino di Pescanova, in Galizia e i piani  affermano Lhe la compagnia ha raggiunto un livello di addomesticamento della specie e che non mostra segni importanti di cannibalismo o competizione per il cibo». Gli animalisti sono preoccupati anche per le acque reflue cariche di azoto e fosfati prodotte dall'allevamento, che verrebbero pompate nuovamente in mare. Ma Nueva Pescanova assicura che «L'acqua in entrata e in uscita dall'impianto sarà filtrata in modo da non avere alcun impatto sull'ambiente» e aver fatto «Grandi sforzi per promuovere prestazioni responsabili e sostenibili lungo tutta la catena di valore, per garantire che vengano adottate le migliori pratiche». Per Reineke Hameleers, CEO di Eurogroup for Animals, «Stabilire ciecamente un nuovo sistemadi allevamento senza tener conto delle implicazioni etiche e ambientali è un passo iin direzione sbagliata e va contro i piani dell'Ue per una trasformazione alimentare sostenibile. Con l'attuale revisione della legislazione sul benessere degli animali, la Commissione europea ha ora la reale opportunità di evitare le terribili sofferenze di milioni di animali . Non possiamo permetterci di abbandonare gli animali acquatici. Chiediamo all'Ue di includere un divieto di allevamento di polpi prima che veda la luce, al fine di evitare di far precipitare altri esseri senzienti in un inferno vivente». Elena Lara, responsabile ricerca di Compassion in World Farming, conclude: «Imploriamo le autorità delle Isole Canarie di respingere i piani di Nueva Pescanova e sollecitiamo l'Ue a vietare l'allevamento del polpo nell'ambito della sua attuale revisione legislativa. Infliggerà inutili sofferenze a queste creature intelligenti, senzienti e affascinanti, che hanno bisogno di esplorare e interagire con l'ambiente come parte del loro comportamento naturale. Le loro diete carnivore richiedono enormi quantità di proteine ​​animali per sostenersi, contribuendo alla pesca eccessiva in un momento in cui gli stock ittici sono già sottoposti a un'enorme pressione. L'allevamento intensivo è la principale singola causa di crudeltà verso gli animali sulla Terra e sta letteralmente distruggendo il nostro pianeta. Dovremmo porre fine all'allevamento intensivo, non trovare nuove specie da confinare negli allevamenti intensivi sottomarini. Dobbiamo porre fine all'allevamento di polpi adesso». L'articolo Animalisti e scienziati contro l’allevamento industriale di polpi sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Lo stato della sicurezza alimentare e della nutrizione in Europa e Asia centrale

sicurezza alimentare e della nutrizione in Europa e Asia centrale
Secondo il rapporto “Europe and Central Asia – Regional Overview of Food Security and Nutrition 2022” pubblicato da Fao, International Fund for Agricultural Development (IFAD), Unicef, United Nations Development Programme (UNDP), United Nations Economic Commission for Europe (UNECE), World Food Programme (WFP); Regional Office for Europe dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e World metorological organization (Wmo), «In Europa e Asia centrale, la pandemia Covid-19 tutt’ora in corso e la guerra in Ucraina mettono in pericolo la sicurezza alimentare e il diritto a un’alimentazione sana. I prezzi dei generi alimentari sono saliti alle stelle, rendendo difficoltoso per i responsabili delle decisioni garantire l’obiettivo di non lasciare indietro nessuno». Ma il rapporto evidenzia anche che «I dati e le tendenze degli ultimi anni tratteggiano un quadro della sicurezza alimentare e della nutrizione perlopiù incoraggiante in Europa e Asia centrale. In generale, la regione versa in condizioni migliori rispetto ad altre aree del mondo, benché siano necessari miglioramenti per evitare battute d’arresto». Il rapporto elaborato dalle 8 agenzie Onu fornisce indicazioni preziose per aiutare a far fronte a questa situazione e contiene informazioni e analisi aggiornate sui trend a livello regionale e sui progressi compiuti verso il conseguimento dell’Obiettivo di sviluppo sostenibile (SDG) “Fame zero”. Inoltre, riporta studi sulla definizione di «Quadri strategici che consentano di favorire l’accesso a un’alimentazione sana e di rendere i sistemi agroalimentari più sostenibili dal punto di vista ambientale nella regione di Europa e Asia centrale». Le agenzie Onu sottolineano che «Avvalendosi dei dati e delle raccomandazioni contenuti nel rapporto, i paesi dovrebbero essere nelle condizioni di fornire assistenza ai piccoli agricoltori, alle comunità rurali e a tutti gli attori della filiera alimentare, nonché di sostenere le fasce povere e vulnerabili della popolazione tramite programmi olistici, secondo quanto previsto negli SDG. Come per le precedenti edizioni della Rassegna regionale della sicurezza alimentare e della nutrizione in Europa e Asia centrale, ci auguriamo che il rapporto fornisca conoscenze e riscontri preziosi e contribuisca a individuare alternative per un dialogo consapevole e un'azione concertata da parte di tutti i partner, in un contesto di piena collaborazione, tesa ad accelerare i progressi verso l’obiettivo della fame zero e dell’accesso a un’alimentazione sana in Europa e Asia centrale». Il rapporto evidenzia che «La prevalenza della sottoalimentazione nel mondo è salita al 9,9% nel 2020 e, da allora, non ha smesso di crescere, mentre negli oltre 50 Paesi dell’Europa e dell’Asia centrale la media è rimasta al di sotto del 2,5% negli ultimi anni. Inoltre, sebbene in alcune zone della regione (Caucaso, Asia centrale e Balcani occidentali) la porzione di popolazione classificata come sottonutrita sia in aumento, e non si prevedano inversioni di rotta, la media regionale dovrebbe attestarsi al di sotto del 2,5%». Dopo un brusco rialzo nel 2020, la prevalenza regionale dell’insicurezza alimentare moderata o grave è tornata a salire dall’11,% nel 2020 al 12,4% nel 2021, un dato che  secondo il rapporto «Riflette un deterioramento della situazione per le persone che si trovano in gravi difficoltà a causa della pandemia Covid-19. Nel complesso, nel 2021, circa 116,3 milioni di persone, nella regione, versavano in condizioni di insicurezza alimentare moderata o grave; di queste, 25,5 milioni sono stati segnalati in soli due anni. Il numero delle persone vittime dell’insicurezza alimentare grave, ossia che non hanno regolarmente accesso a una quantità sufficiente di cibo nutriente, ha subito un’accelerata, aumentando di oltre 13 milioni dal 2019 al 2021». Il dato positivo è che in Europa e Asia centrale,  «I ritardi della crescita (un basso rapporto tra età e altezza) e il deperimento (causato da un apporto insufficiente di nutrienti all’organismo) interessano, rispettivamente, il 7,3% e l’1,9% dei bambini di età inferiore ai 5 anni, mentre, nel resto del mondo, tali condizioni colpiscono un numero di bambini tre volte maggiore». Ma nella regione Europa e Asia centrale «Il sovrappeso e l’obesità continuano a essere fenomeni allarmanti, sia tra bambini che tra gli adulti, con dati superiori alla media globale». E il rapporto avverte che «A causa del rialzo dei prezzi dei prodotti alimentari, il costo di un’alimentazione sana è aumentato in quasi tutti i paesi dell’Europa e dell’Asia centrale. Nonostante ciò, ad eccezione di alcuni Paesi, la maggior parte della popolazione della regione (approssimativamente il 96,4%) ha potuto permettersi un’alimentazione sana, rispetto alla media del 58% della popolazione mondiale nel 2020. Alcuni Paesi importatori netti e a basso e medio reddito della regione (tra cui Armenia, Kirghizistan e Tagikistan) hanno una percentuale molto alta di popolazione (oltre il 40%) che non può permettersi una dieta sana». Il rapporto ricorda che «I Paesi della regione si caratterizzano per livelli di sviluppo diversi, così come diverso è il sostegno finanziario che essi assicurano al settore alimentare e agricolo. Inoltre, la maggior parte di questi paesi, soprattutto quelli a medio reddito, sono stati particolarmente colpiti dalle criticità emerse di recente, a livello regionale e globale, e non possono fare affidamento su maggiori capacità di investimento nei sistemi agroalimentari, come ricetta per superare la crisi». Per questo le agenzie Onu evidenziano che «Occorre rimodulare le politiche alimentari e agricole, in modo da renderle più adatte ad affrontare la “triplice sfida” a cui sono attualmente esposti i sistemi agroalimentari, vale a dire potenziare l'accesso a un’alimentazione sana, garantire mezzi di sostentamento migliori agli agricoltori e promuovere la sostenibilità ambientale. Per conseguire questo traguardo, non sarà sufficiente offrire incentivi fiscali ai singoli agricoltori, ma occorrerà ottimizzare i servizi generali, con interventi mirati nei settori della ricerca e dello sviluppo agricoli e dell’istruzione, con misure di espansione, con azioni di controllo di parassiti e malattie, con l’adozione di sistemi pubblici di controllo della sicurezza alimentare, nonché con la promozione di un'agricoltura climaticamente intelligente e di tecnologie e pratiche più efficienti in termini di emissioni». Secondo il rapporto, «Ripensando le attuali strutture di sostegno agricolo, sarà possibile incoraggiare anche il consumo di alimenti sani, primi fra tutti frutta, ortaggi e legumi. Nel definire il quadro per lo sviluppo di sistemi agroalimentari più sani, sostenibili, equi ed efficienti, non sarà, tuttavia, sufficiente limitarsi alle politiche agricole. Per avere azioni di rimodulazione degli obiettivi capaci di incidere nella regione, occorrerà, invece, ampliare lo spettro, fino a includere anche politiche complementari nel campo della sanità, della protezione sociale, del commercio e dell'ambiente. Soprattutto per quanto concerne la sostenibilità ambientale e una maggiore riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, i responsabili delle decisioni dovranno pensare in maniera olistica e facilitare l’applicazione di tecnologie e pratiche basate sulla scienza, climaticamente intelligenti ed efficienti dal punto di vista energetico lungo tutta la filiera agroalimentare». Il rapporto conclude: «Per avere successo, è fondamentale che tutti questi interventi tengano conto, in particolare, delle circostanze locali e rispettino il principio della partecipazione». L'articolo Lo stato della sicurezza alimentare e della nutrizione in Europa e Asia centrale sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Il valore economico della caccia italiana

Valore della caccia
Secondo lo studio “Il Valore dell’Attività Venatoria in Italia”, curato da Nomisma e presentato ieri dalla Federazione Italiana della Caccia in Senato,  il b calore ambientale della caccia in Italia è di un miliardo: «708 milioni di euro di valore naturale generati dal mantenimento delle aree umide, degli habitat e dalla tutela delle aree naturali protette resi possibili grazie a finanziamenti e gestione del mondo venatorio. 20 milioni di euro di valore agricolo derivanti dai risarcimenti agli agricoltori per danni da selvatici e/o per misure di prevenzione. 75 milioni di euro di risparmi derivanti dalla riduzione dell’impronta ecologica e idrica prodotte dalla filiera della carne».  E’ evidente il tentativo di far passare i danni all’agricoltura per risorse. La “pronta caccia” per gestione ambientale e il goffo tentativo di contrapporre la carne sostenibile di selvaggina a quella insostenibile degli animali di allevamento. Il tutto assicurando che «Il mondo venatorio, da tempo impegnato in un percorso di rafforzamento del proprio ruolo in chiave più etica e sostenibile, è in grado di generare un valore di circa 8,5 miliardi di euro annui per la collettività in termini economici e ambientali». Ma leggendo attentamente lo studio/rapporto/sondaggio (e distinguendo le pere dalle mele mischiate ad arte) viene fuori che il valore economico- sociale della caccia è in realtà molto ridotto e che i cacciatori spendono la grandissima parte di quelli che si vorrebbero far passare per generosi investimenti economico-ambientali  solo per armi, munizioni, abbigliamento, auto, cani, vacanze di caccia, ecc. e che, per difendere la carne di selvaggina, si mostra in realtà la crescita di contrarietà agli allenamenti intensivi soprattutto da parte della stessa fetta di opinione pubblica che è contraria alla caccia. Questo dei cacciatori di selvaggina fatta passare per carne “sana” e poco conosciuta come valida alternativa alla carne “industrializzata” è un cambiamento di immagine che i cacciatori danno di sé stessi: si passa dal cacciatore sportivo e disinteressato a rifornire sottobanco i ristoranti (attività spesso attribuita solo ai bracconieri, anche se la realtà è ben diversa) al cacciatore del nuovo corso politico italico che si fa fornitore del mercato della carne per risolvere il problema degli ungulati, un problema che ha creato una politica venatoria scellerata di immissioni e allevamenti che non viene messa in dubbio né dallo studio né dalle nuove politiche del governo Meloni-Lollobrigida-Pichetto Fratin. Il problema è che rifornire una filiera di mercato economicamente sostenibile bisogna mantenere il problema – cinghiali ad esempio – che si dice che sarà risolto con la caccia. Un cane che si morde la coda della sostenibilità sociale e ambientale. Ma si parte da una mutazione dei consumi verso un minor consumo di carne – evidente anche nello studio -  per   rilevare che «Tra i 45 milioni di maggiorenni che si nutrono di carne il 62% consuma anche selvaggina. Nella maggioranza dei casi si tratta di un consumo che avviene prevalentemente fuori casa (nel 39% dei casi al ristorante). Queste interessanti prospettive per la filiera alimentare della selvaggina sono rafforzate dal fatto che ben 23 milioni di consumatori italiani (il 51%) si dichiara pronto ad acquistarla per consumo domestico se fosse di più facile reperimento. Gli intervistati, inoltre, risultano particolarmente attenti e sensibili nell’attuare comportamenti sostenibili nelle proprie scelte alimentari. Rispetto alla carne acquistata, il 72% ritiene molto importante il fatto che presenti meno rischi per la salute e il 70% che provenga da una filiera tracciabile (sic!). Inoltre, il rispetto del benessere degli animali e dell’ambiente è ritenuto condizione imprescindibile dal 64% del campione, così come il 61% degli intervistati è attento al fatto che la carne non provenga da allevamenti intensivi. Il 47% considera importante che la carne acquistata sia naturale e provenga da animali selvatici e non di allevamento». Lo studio, che divide generosamente a metà gli italiani tra contrari e favorevoli alla caccia (altri sondaggi e studi danno una schiacciante percentuale di contrari), si lamenta però che sulla caccia «Di base è presente una forte disinformazione tanto che ben 2 italiani su 3 si dichiarano non sufficientemente informati sulla tematica e solo 1 intervistato su 10 afferma di conoscere appieno norme e disposizioni che ne regolano l’operato. Rispetto ai soggetti dai quali gli italiani vorrebbero ricevere informazioni, il 60% degli intervistati individua gli enti pubblici come realtà autorevole e adeguata a fornire tali informazioni». Peccato che gli enti pubblici facciano spesso disinformazione, come dimostrano le dichiarazione carpite al presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana durante un incontro coi cacciatori in campagna elettorale. Ma, per quanto edulcorato, anche lo studio/ricerca/sondaggio dice che gli italiani sono contrari alla caccia e che non ci vedono tutte queste ricadute economiche e sociali che vengono evidenziate da Federcaccia. Ma Marco Marcatili, responsabile sviluppo di Nomisma, la vede in tutt’altro modo è perllui il bicchiere venatori è più chre mezzo pieno: «Per la prima volta il sistema della caccia  decide di aprirsi alla società, ascoltare la comunità e avviare un dialogo aperto e trasparente con il mondo istituzionale, agricolo e ambientale. Il lavoro di Nomisma – spiega Marcatili – è, da un lato, rassicurante perché conferma la non ostilità alla caccia, anzi una inedita apertura della comunità a inserire più selvaggina sostenibile nella propria alimentazione; dall’altro lato, però, induce la Federazione Italiana della Caccia a una responsabilità aumentata in termini di maggiore informazione e disponibilità alla caccia etica e sostenibile. Non sono molte in Italia le attività che danno un contributo annuale di 1 miliardo in termini ambientali, l’impegno in questa direzione consentirà di traguardare opportunità derivanti dai nuovi scenari climatici, come il presidio dei territori fragili e il rafforzamento delle filiere nazionali sotto il profilo alimentare e occupazionale». Ma Nomisma ammette che dalla lettura dei risultati e delle interviste emergono anche aree di miglioramento meritevoli di attenzione. Come sia nato il sondaggio lo spiega bene il presidente nazionale di Federcaccia Massimo Buconi: «Abbiamo deciso di affidare a Nomisma un primo bilancio ambientale dell’attività venatoria in Italia al fine di misurare il reale valore generato per Comunità e Ambiente e indagare il percepito delle famiglie italiane sul nostro operato. Siamo certi che favorire una migliore comprensione delle dinamiche che regolano i rapporti tra caccia e società possa concorrere a un giusto riconoscimento del nostro ruolo e della nostra attività, alla luce degli effetti positivi derivanti da una caccia etica e sostenibile. I risultati mostrano un sistema importante già in essere testimoniando il nostro potenziale ruolo di attori nel processo di transizione ecologica, ma evidenziano alcune aree di miglioramento, su cui strutturare un percorso di confronto con fruitori, stakeholders e Istituzioni. Intendiamo proseguire in questa direzione di dialogo, in modo costante e incisivo». E, dopo le reiterate richieste di allungare i calendari venatori, sparare a specie protette, rigettare le normative europee, consentire la caccia nei Parchi Nazionale e nelle ZSC/ZPS, dopo che l’Italia risulta tra i peggiori pasesi del mondo per bracconaggio/abbattimento dell’avifauna migratoria.., è abbastanza spericolato che lo studio – sulla base di una senzazione di cittadini dei quali si ammette la scarsa conoscenza della materia -  nomini i cacciatori «“Sentinella del territorio” (o più tecnicamente “citizen as sensor”), in quanto soggetti volontari coinvolti nei programmi di monitoraggio delle risorse naturali per migliorarne la gestione e contribuire alla ricerca. Così come viene evidenziato il contributo che il mondo venatorio è in grado di rendere alla collettività attraverso programmi di gestione faunistica, tutela ambientale e sorveglianza sanitaria esercitata da cacciatori volontari». E qui il “successo” del ruolo svolto dalla caccia consumistica è evidente con la proliferazione dei cinghiali ibridati, la diffusione della peste suina, e l’immissione di specie alloctone e/o ibridate per la pronta caccia che hanno provocato l’estinzione locale di specie autoctone. E, viste  le proposte fatte fin qui dal mondo venatorio su calendari, aree protette, caccia ai grandi carnivori viene davvero da pensare che ci sia bisogno di ascoltare chi ritiene necessario di «Sostenere una “caccia etica”, che non solo rispetti i regolamenti ma, soprattutto, favorisca il contenimento e il controllo delle attività illegali, promuovendo e consolidando un ruolo attivo del cacciatore nella tutela di ambiente e habitat. Altro ambito di miglioramento è rappresentato dalla sensibilizzazione del sistema venatorio nel suo complesso sulle azioni di contenimento degli impatti ambientali e su un maggiore sviluppo di un modello di caccia che sia in equilibrio con la biodiversità. A livello organizzativo e gestionale, infine, il settore venatorio italiano può mirare a una dimensione adattiva che permetta di modulare prelievi di selvaggina sulla base di un principio di sostenibilità, potenziando il monitoraggio e la programmazione dei piani di caccia e di controllo. Ciò concorrerebbe a consolidare la compatibilità tra attività venatoria e conservazione della fauna e dell’ambiente». Ma la caccia etica – con buona pace dello studio Nimisma - Federcaccia - non è certamente quello di cui i cacciatori discutono con politici come Fontana. L'articolo Il valore economico della caccia italiana sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.