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L’Arabia Saudita minaccia l’embargo petrolifero in caso di prezzo massimo alle esportazioni di petrolio

LArabia Saudita minaccia lembargo petrolifero
Rispondendo a una domanda di Energy Intelligence sulla reintroduzione del disegno di legge Nopec da parte del Congresso Usa e sul tetto massimo del prezzo del petrolio russo imposto dal G7 e sulle potenziali implicazioni per il mercato petrolifero, il ministro dell'energia saudita, il principe Abdulaziz bin Salman, ha detto che «La legislazione Nopec e l'estensione del tetto massimo sono molto diverse, ma i loro potenziali impatti sul mercato petrolifero sono simili. Tali politiche aggiungono nuovi livelli di rischio e incertezza in un momento in cui sono più necessarie chiarezza e stabilità. Devo ribadire il punto di vista che ho reso noto ad agosto e settembre su come tali politiche aggraverebbero inevitabilmente l'instabilità e la volatilità del mercato e avrebbero un impatto negativo sull'industria petrolifera. Al contrario, Opec+ ha compiuto ogni sforzo ed è riuscita a portare stabilità e trasparenza significative al mercato petrolifero, soprattutto rispetto a tutti gli altri mercati delle materie prime. Il disegno di legge Nopec non riconosce l'importanza di detenere capacità inutilizzata e le conseguenze del mancato mantenimento di capacità inutilizzata sulla stabilità del mercato. Il Nopec minerebbe anche gli investimenti nella capacità petrolifera e causerebbe un calo dell'offerta globale molto inferiore alla domanda futura. Gli impatti si faranno sentire in tutto il mondo sia sui produttori che sui consumatori, così come sull'industria petrolifera». Dopo l’accordo con l’Iran mediato dalla Cina, l’Arabia saudita ha cambiato idea anche sulle sanzioni e bin Salman avverte che, «Lo stesso vale per i massimali di prezzo, siano essi imposti a un Paese o a un gruppo di Paesi, al petrolio o a qualsiasi altra merce. Ciò porterà a contro-risposte singole o collettive con conseguenze intollerabili sotto forma di massiccia volatilità e instabilità. Quindi, se venisse imposto un prezzo massimo alle esportazioni di petrolio saudita, non venderemo petrolio a nessun Paese che impone un prezzo massimo alla nostra offerta e ridurremo la produzione di petrolio, e non sarei sorpreso se altri facessero lo stesso». Non a caso l’intervista di bin Salman a  Energy Intelligence è stata rilanciata con grande rilievo dai media russi e iraniani. Lo scenario è quello di una nuova crisi petrolifera in stile austerity anni ’70 e il ministro dell’energia saudita manda a dire a statunitensi ed europei che «La capacità inutilizzata e le scorte di emergenza globali sono la rete di sicurezza definitiva per il mercato petrolifero di fronte a potenziali shock. Ho ripetutamente avvertito che la crescita della domanda globale supererà l'attuale capacità di riserva globale, mentre le riserve di emergenza sono ai minimi storici. Ecco perché è fondamentale che vengano messe in atto politiche per sostenere gli investimenti necessari per aumentare la capacità inutilizzata in modo tempestivo e che le scorte di emergenza globali siano mantenute a un livello adeguato e confortevole. In Arabia Saudita, abbiamo avviato in modo proattivo l'espansione della nostra capacità a 13,3 milioni di barili al giorno entro il 2027. L'espansione è già in corso nella fase di ingegneria e il primo incremento dovrebbe entrare in funzione nel 2025». Intanto prosegue il riavvicinamento tra l’Iran e le monarchie petrolifere assolute sunnite del Golfo: domani il segretario del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale della Repubblica islamica dell’Iran, Ali Shamkhani, sarà negli Emirati Arabi Uniti per ricambiare la visita in Iran dello sceicco Tahnoun bin Zayed Al Nahyan, consigliere per la sicurezza nazionale degli Emirati. Pars Today spiega che dd accompagnare Shamkhani ci saranno  alti funzionari economici, bancari e della sicurezza che discuteranno le questioni di intresse comune, regionali e internazionali. Commentando l'accordo tra Iran e Arabia Saudita per riprendere le relazioni diplomatiche Il portavoce del governo iraniano, Ali Bahadori Jahromi, ha detto che «La soluzione alle questioni regionali e globali non viene dall'Occidente. Questo evento e il rilancio delle relazioni tra i due Paesi hanno dimostrato che la soluzione delle questioni regionali e globali non passa per la rotta occidentale. La politica estera del 13esimo governo iraniano è stata quella di sviluppare relazioni di vicinato e dare priorità alla politica di diplomazia regionale, e questo recente evento è stato nella stessa direzione, e anche i Paesi della regione hanno accolto con favore il rilancio delle relazioni tra Iran e Arabia Saudita». L'articolo L’Arabia Saudita minaccia l’embargo petrolifero in caso di prezzo massimo alle esportazioni di petrolio sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Post terremoto in Siria e Turchia, Unhcr: livelli di privazione e disperazione mai visti

Terremoto Siria Turchia
Il terremoto che ha devastato il sud della Turchia e il nord della Siria è già scomparso dai telegiornali, ma nei due Paesi, il terremoto ha causato la morte di 54.000 persone e provocato distruzioni enormi in un’area abitata da oltre 23 milioni di persone, molte delle quali, durante 12 anni di guerra civile/internazionale, erano già state costrette a fuggire, sia all’interno della Siria sia oltre confine entrando in Turchia come rifugiati. Sono gli stessi che cercano di attraversare l’Egeo e lo Ionio in tempesta e che vanno a schiantarsi e a morire in spiagge come quella di Cutro. A cercare di riportare il dramma turco-siriano sotto i riflettori dell’attenzione mediatica ci ha provato l’Alto Commissario Onu per i Rifugiati, Filippo Grandi, che ha appena concluso una visita di 5 giorni nelle aree devastate dal terremoto, incontrando sopravvissuti, persone che hanno subito danni e operatori umanitari impegnati sul campo per garantire sostegno immediato alla popolazione colpita. Grandi ha commentato: «Il livello di distruzione e devastazione è scioccante e, in molte aree, lo scenario è apocalittico. A causa di quest’evento tragico e terribile, milioni di persone hanno subito perdite, ferite e traumi, e molte altre sono state costrette a fuggire». Il capo dell’UNHCR ha sottolineato che «Le esigenze rilevate sul campo in entrambi i Paesi sono di elevata criticità ed è pertanto necessario assicurare maggiori risorse alle attività di risposta. Pur essendo di fondamentale importanza concepire e supportare misure a più lungo termine, è necessario garantire sempre più  aiuti umanitari e risorse utili ad avviare una prima fase di ripresa, affinché le persone possano iniziare a ricostruire la propria vita e a sostentarsi. In Turchia, l’Alto Commissario ha incontrato famiglie turche e siriane che hanno perduto tutto a causa del terremoto e che, ora, insieme ad altre migliaia di persone, sono accolte in un campo di alloggi container. In Siria, Grandi ha incontrato famiglie accolte all’interno di alloggi collettivi e che erano già state costrette a fuggire in più occasioni, prima dal conflitto che ha dilaniato il Paese e ora a causa del terremoto. L’UNHCR sottolinea che «La tragica condizione di queste persone chiarisce le enormi difficoltà causate da dodici anni di conflitto ai danni del popolo siriano e le distruzioni arrecate alle infrastrutture del Paese, quali servizi essenziali come l’approvvigionamento idrico e l’erogazione di corrente elettrica. Oltre il 90 per cento delle persone in Siria oggi vive al di sotto della soglia di povertà». Grandi aggiunge: «Torno in Siria regolarmente da quasi 20 anni e, ovunque io sia stato, non ho mai assistito prima d’ora a questi livelli di privazione e disperazione. È inconcepibile che così tante persone siano state lasciate con così poco per così tanto tempo. E’ necessario assicurare loro tutto il sostegno a cui hanno diritto. Per noi, oggi, costituisce un imperativo umanitario intensificare le attività di assistenza e avviare la prima fase di ripresa in tutto il Paese. E’ di fondamentale importanza arrivare a tutti coloro che necessitano assistenza, ovunque si trovino». L’Onu ha chiesto 1 miliardo di dollari per finanziare le attività di risposta umanitaria agli effetti del terremoto in Turchia e quasi 400 milioni di dollari per la Siria. Nell’ambito dei piani di risposta, la parte dell’UNHCR è pari a 201 milioni. L’appello dell’Onu è attualmente finanziato solamente al 12% per la Turchia e al 59% per la Siria. Passata l’emozione, spentisi i riflettori delle televisioni, ci stiamo scordando di milioni di persone che rischiano di andare a ingrossare le folle dei profughi che cerrcano s di scappare in Europa o quelle di chi, di fronte alla disperazione, va a rimpinguare le fila delle milizie jihadiste. Intanto, la Commissione internazionale indipendente d'inchiesta dell’Onu sulla Siria ha denunciato la lentezza degli aiuti umanitari dopo il terremoto e ha chiesto l'apertura di un'inchiesta. Secondo i tre inquirenti Onu, «La risposta ai recenti massicci terremoti è stata caratterizzata da ulteriori fallimenti che hanno ostacolato la consegna di aiuti urgenti e salvavita alla Siria nordoccidentale. Questi fallimenti hanno coinvolto il governo e le altre parti in conflitto, così come la comunità internazionale e le Nazioni Unite». La Commissione rimprovera ai vari attori di «Non essere riusciti a garantire un cessate il fuoco che avrebbe facilitato l'erogazione degli aiuti durante la prima settimana successiva al disastro. I siriani si sono sentiti abbandonati e trascurati da coloro che avrebbero dovuto proteggerli, nei loro momenti più disperati». Il presidente della Commissione, Paulo Pinheiro, ha ricordato che «Molte voci si sono giustamente alzate per chiedere che si svolga un'indagine e che i responsabili siano ritenuti responsabili. I siriani hanno ora bisogno di un cessate il fuoco completo e pienamente rispettato, in modo che i civili, inclusi gli operatori umanitari, siano al sicuro», Intere comunità sono state distrutte e l’Onu stima che nella parte siriana dell'area colpita dal terremoto «Circa 5 milioni di persone abbiano bisogno di un riparo di base e di assistenza non alimentare. Anche prima dei terremoti del 6 febbraio, più di 15 milioni di siriani - più che mai dall'inizio del conflitto - avevano bisogno di aiuti umanitari». Pinheiro denuncia che «Incomprensibilmente, a causa della crudeltà e del cinismo delle parti in conflitto, stiamo ora indagando su nuovi attacchi, anche in aree devastate dai terremoti. Questi includono l'attacco israeliano segnalato la scorsa settimana all'aeroporto internazionale di Aleppo, un punto di passaggio per gli aiuti umanitari». Inoltre, gli investigatori Onu hanno denunciato che «Subito dopo il terremoto, il governo siriano ha impiegato un'intera settimana per consentire l'accesso transfrontaliero di aiuti vitali. Sia il governo che la Syrian National Army (SNA, milizie antigiovernative jihadiste filoturche, ndr) hanno bloccato gli aiuti transfrontalieri alle comunità colpite, mentre Hayat Tahrir al Sham (HTS - al-Qaeda in Siria, ndr) nella Siria nordoccidentale ha rifiutato gli aiuti transfrontalieri provenientida Damasco». Una dei commissari, Hanny Megally, ha detto che «Attualmente stiamo indagando su diverse accuse secondo cui le parti in conflitto avrebbero deliberatamente ostacolato l'assistenza umanitaria alle comunità colpite». Il rapporto della Commissione, preparato prima dei devastanti terremoti, fornisce una sintesi delle violazioni e degli abusi commessi contro i civili in Siria e sottolinea che «In generale, le parti in conflitto in Siria hanno commesso diffuse violazioni e abusi dei diritti umani nei mesi che hanno preceduto i terremoti più devastanti della regione in più di un secolo, continuando un modello decennale di fallimenti nella protezione dei civili siriani». Nelle aree controllate dal governo sirialo, la Commissione ha riscontrato «Una crescente insicurezza a Dara'a, Suwayda' e Hama, oltre a continui arresti arbitrari, torture, maltrattamenti e sparizioni forzate.  Nel nord-ovest del Paese, i civili che vivono nelle zone colpite dal terremoto sono stati particolarmente esposti ad attacchi mortali nei mesi scorsi. A novembre, in un unico attacco indiscriminato, le forze governative hanno usato munizioni a grappolo per colpire campi di sfollati densamente popolati nel governatorato di Idlib, uccidendo 7 civili e ferendone almeno altri 60.  Ad agosto, un altro attacco indiscriminato ha ucciso 16 civili e ne ha feriti 29 all'interno e nei dintorni di un affollato mercato di Al-Bab, a nord-est di Aleppo. Queste atrocità fanno parte di un modello consolidato di attacchi indiscriminati, che possono costituire crimini di Guerra». Per I 3 commissari, nel nord-est della Siria, le Sirian Democratic Forces (SDF) a guida curda «Continuano a detenere illegalmente 56.000 persone, per lo più donne e bambini, sospettate di avere legami familiari con i combattenti di Daesh (Stato Islamico, ndr), nei campi di Al-Hawl e Roj, dove le condizioni continuano a peggiorare. La Commissione ha ragionevoli motivi per ritenere che le sofferenze inflitte a queste persone possano essere assimilate al crimine di guerra di lesione della dignità della persona, e chiede che vengano accelerati i rimpatri». La Commissione presenterà la sua relazione al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite il 21 marzo a Ginevra. L'articolo Post terremoto in Siria e Turchia, Unhcr: livelli di privazione e disperazione mai visti sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

La Russia esporta diesel in Arabia Saudita. Profitti record per Aramco

La Russia esporta diesel in Arabia Saudita
Secondo la Reuters, l'Arabia Saudita ha aumentato le importazioni di diesel russo sia tramite trasferimenti diretti che da nave a nave (STS). La monarchia assoluta del Golfo ha ricevuto a febbraio le prime 190.000 tonnellate di carburante russo nei porti di Ras Tanura e Jeddah e la Russia ha iniziato a esportare gasolio verso il suo alleato dell’OPEC+ dopo che il 5 febbraio è entrato in vigore l'embargo dell'Unione europea e del G7 sulle importazioni via mare di prodotti raffinati russi. Peccato che l’Arabia saudita sia (era?) anche un alleato di ferro degli americani e degli europei. Oggi i giornali russi, a cominciare dalla putiniana RT, confermano che, come mostrano i dati di spedizione di Refinitiv «Due carichi con un totale di 99.000 tonnellate di gasolio sono stati caricati nel porto di Primorsk sul Mar Baltico in Russia e sono stati trasferiti nave a nave su un'altra nave cisterna diretta al porto di Ras Tanura in Arabia Saudita».  E, sempre secondo Refinitiv, un altro carico che trasportava 30.000 tonnellate di gasolio è salpato dal porto russo di Tuapse sul Mar Nero e anche questa spedizione ha utilizzato la tecnica del trasbordo da nave a nave vicino al porto greco di Kalamata per trasferire il gasolio a un'altra petroliera che aveva già scaricato il carburante nel porto di Jizan in Arabia Saudita. Refinitiv spiega che «I trasferimenti STS aiutano ad accorciare le rotte costose per le petroliere dirette in Africa, Asia e altre destinazioni». Mentre l?Unione europea ha introdotto limiti di prezzo e restrizioni sulle importazioni di carburante russo, Mosca ha diversificato con successo le sue spedizioni, con Cina, India, Türchia e altri Paesi che hanno aumentato gli acquisti del suo petrolio e dei suoi prodotti petroliferi. Insomma, il gasolio russo che abbiamo bloccato alla porta potrebbe rientrarci dalla finestra e l’Arabia saudita e altri Paesi “amici” dell’Occidente riesporteranno il diesel russo facendocelo pagare di più. Il tutto mentre nel 2022 il gigante petrolifero saudita Saudi Aramco ha registrato guadagni record grazie all'aumento dei prezzi del greggio provocato dalla guerra in Ucraina. La compagnia petrolifera saudita ha rivelato che i suoi profitti sono saliti a 161 miliardi di dollari, con un aumento del 46% rispetto ai 110 miliardi di dollari realizzati nel 2021 e che sono i più alti mai registrati: «I guadagni record sono stati sostenuti da prezzi del petrolio greggio più elevati, maggiori volumi venduti e margini migliorati per i prodotti raffinati». Fra questi c’è probabilmente anche il gasolio russo comprato a basso prezzo e ri-esportato. E, fregandosene del cambiamento climatico e dei tagli alle emissioni, Aramco ha annunciato che la sua produzione di greggio nel 2022 è stata di circa 11,5 milioni di barili al giorno e che intende raggiungere gradualmente i 13 milioni di barili al giorno entro il 2027. Per farlo prevede di investire circa 55 miliardi di dollari quest'anno, Il CEO di Aramco, Amin H. Nasser, ha dichiarato: «Dato che prevediamo che petrolio e gas rimarranno essenziali per il prossimo futuro, i rischi di investimenti insufficienti nel nostro settore sono reali, incluso il contributo all'aumento dei prezzi dell'energia. Per sfruttare i nostri vantaggi unici su larga scala ed essere parte della soluzione globale, Aramco ha intrapreso il più grande programma di spesa in conto capitale della sua storia». Intanto ieri Bloomberg ha scritto che l'India ha annunciato che aderirà alle sanzioni occidentali introdotte contro Mosca e che sosterrà il limite dei prezzi del petrolio russo fissati a 60 dollari al barile da Ue, G7 e Australia, Il governo di destra induista di New Dehli avrebbe esortato banche e commercianti a rispettare questo regolamento. Ma finora l’India non ha annunciato  pubblicamente che aderirà alle sanzioni anti-russe. Finora, la realtà è che le raffinerie cinesi sono in competizione con quelle indiane per comprare i volumi di aprile di petrolio ESPO russo a basso contenuto di zolfo trasportato via mare e la Cina e l'India sono diventate i principali acquirenti di greggio russo. La Cina, che acquista l'intero volume del greggio ESPO spedito dal porto di Kozmino nel Pacifico, a marzo dovrebbe importare volumi record di petrolio russo. Per aprile, le raffinerie di Reliance Industries e Nayara Energy dovrebbero comprare almeno 5 dei circa 33 carichi carichi di greggio ESPO approfittando dei loro prezzi bassi. A marzi gli indiani avevano comprato un solo carico, il primo del 2023 dopo i tre carichi acquistati nel novembre 2022. I prezzi per il greggio ESPO russo per aprile in India erano di circa 5 dollari al barile al di sotto delle quotazioni di Dubai. L'aumento della domanda ha addirittura spinto i prezzi dell’ESPO russo acquistata dalle raffinerie indiane al di sopra del tetto massimo di 60 dollari al barile fissato dal G7 per il greggio navale russo. Anche la Cina ha anche acquistato ESPO al di sopra del livello del prezzo massimo. Per ridurre l'esposizione al rischio, gli importatori di petrolio russo stanno utilizzando valute diverse dal dollaro per liquidare alcuni carichi di geggio russo e stanno anche chiedendo ai venditori di gestire la spedizione e la copertura assicurativa. La concorrenza dell’India con la Cina ha ridotto gli sconti per le spedizioni ESPO di aprile a circa 6,80 dolari al barile rispetto alla base ICE Brent DES di giugno per la Cina settentrionale, rispeeto agli 8,50  dollari al barile dei carichi di marzo. Il greggio di Murban di qualità simile all’ESPO russo e proveniente da Abu Dhabi è stato scambiato con un premio di circa 3,30 dollari al barile rispetto alle quotazioni di Dubai su base franco bordo, mentre il greggio di Murban caricato ad aprile è di circa 9 dollari al barile più costoso dell’ESPO consegnato dai russi alla Cina e all’India . A marzo, le spedizioni di petrolio russo in Cina dovrebbero raggiungere il massimo storico di quasi 43 milioni di barili, inclusi almeno 20 milioni di barili di ESPO. Secondo quanto riportato da The Hindu, a febbraio, le esportazioni di petrolio russo verso l'India, il terzo importatore di greggio al mondo dopo Cina e Stati Uniti, erano salite a un record di 1,62 milioni di barili al giorno (bpd) e Vortexa, che traccia le rotte delle petroliere, dice che le cifre suggeriscono che per il quinto mese consecutivo la Russia è stata il  più grande fornitore di greggio dell'India, con un più 28% su base mensile, superando le consegne combinate dall'Iraq e dall'Arabia Saudita, i principali fornitori dell'India per decenni. Le importazioni dall'Arabia Saudita sono diminuite del 16% su base mensile a 647.800 barili al giorno, mentre le consegne dall'Iraq sono ammontate a circa 939.900 barili al giorno. La Russia ora fornisce il 35% di tutte le importazioni di petrolio dell'India, un aumento significativo rispetto alla sua quota di meno dell'1% del mercato energetico indiano nel 2021. detto Serena Huang,  capo analisi Asia-Pacifico di Vortexa conferma: «Le raffinerie indiane stanno beneficiando di un aumento dei margini di raffinazione grazie alla lavorazione del greggio russo scontato... È probabile che l'appetito delle raffinerie per le importazioni di barili russi rimanga robusto fintanto che l'economia sarà favorevole e saranno disponibili servizi finanziari e logistici a supporto del commercio». L'articolo La Russia esporta diesel in Arabia Saudita. Profitti record per Aramco sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

A 12 anni dal disastro nucleare di Fukusmina Daiichi la dismissione della centrale è al palo

Fukushima Daiichi
A 12 anni dal disastro nucleare di Fukushima Daiichi, la situazione dello smantellamento della centrale procede in maniera molto più lenta di quanto promesso dai vari governi giapponesi succedutisi dopo la tragedia dell’11 marzo 2011. Nel 2020 la Tokyo Electric Power Company (Tepco) aveva stimato in 1,37 trilioni di yen (12,6 miliardi di dollari) il costo spalmato tra il 2020 e il 2031 per rimuovere il combustibile nucleare fuso dai reattori della centrale nucleare numero 1 di Fukushima. Una cifra che copriva solo due dei tre esplosi. L'utility aveva già diffuso il suo piano per la disattivazione dei tre reattori, che prevedeva l'inizio della rimozione del combustibile nucleare fuso dal reattore n. 2 entro la fine del 2021, mentre la rimozione del reattore n. 3 sarebbe iniziata entro il 2031. Ma si sono rivelate previsioni molto ottimistiche: i lavori a Fukushima Daiichi procedono a rilento  e con continui rinvii. «Nei reattori nucleari n. 1, 2 e 3 dell'impianto rimangono circa 880 tonnellate di detriti di combustibile – scrive l’Asahi Shimbun - Per rimuovere i detriti di combustibile devono essere utilizzate operazioni a controllo remoto perché i livelli di radiazione negli edifici del reattore potrebbero uccidere una persona entro un'ora». Un altro fattore preoccupante della centrale nucleare di Fukushima è che le fondamenta, o il “piedistallo”, che sostengono il container a pressione del reattore n. 1 si sono talmente deteriorate che ora le barre di rinforzo sono esposte. Asahi Shimbun ricorda che «Sono state espresse preoccupazioni circa la resistenza ai terremoti del piedistallo». Tepco aveva inizialmente pianificato di iniziare a rimuovere entro la fine del 2022 i detriti di combustibile dal reattore n. 2, dove il livello di radiazioni è relativamente basso, ma nell'agosto 2022 aveva annunciato di averci rinunciato, citando ritardi nello sviluppo di un braccio robotico che potrebbe essere utilizzato per rimuovere i detriti. La compagnia elettrica, ormai fallita e tenuta in piedi dal governo, ha fissato un nuovo obiettivo per iniziare i lavori di rimozione nella seconda metà dell'anno fiscale 2023. Il governo giapponese e la Tepco mirano a completare la dismissione della centrale nucleare tra il 2041 e il 2051. Inizialmente avevano detto che sarebbe stata completata entro una decina di anni, cioè nel 2021. Come fa notare Asahi Shimbun, «Tuttavia, il primo obiettivo dell'azienda è testare il recupero di pochi grammi di detriti di carburante. Non ha ancora deciso come condurre la rimozione su larga scala. Inoltre, Tepco non ha spiegato quando inizierà a rimuovere i detriti di combustibile dai reattori n. 1 e n. 3. Un "metodo di immersione" è allo studio per rimuovere i detriti di combustibile dal reattore nucleare n. 3, ma non è ancora chiaro se verrà implementato. Con il metodo dell'immersione, i lavoratori coprirebbero l'edificio che ospita il reattore n. 3 con una struttura metallica, riempirebbero l'interno della struttura con acqua per sommergere il reattore, quindi rimuoverebbero i detriti di combustibile dalla parte superiore dell'edificio». Creando però così un’ulteriore e ingestibile quantità di acqua molto più radioattiva di quella che si vuole scaricare in mare facendo arrabbiare cinesi e sudcoreani. E il ministero degli esteri cinese ha denunciato nuovamente il piano giapponese per scaricare nell'oceano pacifico le acque reflue radioattive del cadavere della centrale nucleare. Mentre la Tepco insiste sul fatto che il rilascio è sicuro, Pechino – come Seoul -  vuole che Tokyo chieda il permesso ai Paesi circostanti prima di procedere. Il 10 marzo, alla vigilia dell’anniversario della tragedia nucleare di Fukushima Daiichi, la portavoce del ministero degli esteri cinese Mao Ning, ha detto che «Il piano giapponese è estremamente irresponsabile. Lo smaltimento dell'acqua contaminata dal nucleare di Fukushima ha un impatto sull'ambiente marino globale e sulla salute pubblica. Questo non è un affare interno del Giappone. Il Giappone non deve iniziare a scaricare l'acqua contaminata dal nucleare nell'oceano prima di raggiungere un consenso attraverso la piena consultazione con i paesi vicini e altre parti interessate, nonché le agenzie internazionali competenti». La centrale nucleare di Fukushima Daiichi è stata distrutta dall’esplosione di tre dei suoi reattori dopo il terremoto/tsunami dell'11 marzo 201, negli anni successivi, pur investendo enormi quantità di denaro, la Tepco non è riuscita a rispettare il cronoprogramma di bonifica e ha pompato acqua nei detriti del combustibile radioattivo per impedirne il surriscaldamento. Un processo che genera ogni giorno circa 100 tonnellate di acque reflue, che la Tepco ha stoccato e trattato in più di 1.000 vasche di cemento realizzate intorno alla centrale. Tepco sostiene che il processo di trattamento rimuove dall'acqua quasi tutte le sostanze radioattive e, visto che lo spazio nei serbatoi si sta esaurendo, a gennaio il governo giapponese ha confermato che avrebbe iniziato a svuotare i serbatoi in mare in primavera o in estate. Il disastro di Fukushima aveva spinto il governo giapponese a iniziare a eliminare gradualmente l'energia nucleare a favore delle rinnovabili e del gas. Circa il 10% delle importazioni di gas provenivano dalla Russia ma, con adesione di Tokyo alle sanzioni contro Mosca, il primo ministro liberaldemocratico giapponese Fumio Kishida nel 2022 ha che il Giappone avrebbe riavviato i reattori chiusi e costruito nuove centrali nucleari. L'articolo A 12 anni dal disastro nucleare di Fukusmina Daiichi la dismissione della centrale è al palo sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Iran e Arabia Saudita riprendono i rapporti diplomatici. Pace fatta grazie alla Cina

Iran Arabia Saudita Siria 1
Dopo 4 giorni di serrati colloqui a Pechino, Ali Shamkhani, segretario del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale dell'Iran, e Musaad bin Mohammed al-Aiban,  consigliere per la sicurezza nazionale dell’ Arabia saudita, hanno concordato di «Riprendere le relazioni, di riaprire le loro ambasciate e missioni entro massimo due mesi» ed evidenziano che «L’accordo include il rispetto della sovranità degli Stati e la non ingerenza negli affari interni”. I due Paesi nemici, leader del fronte sciita e del fronte sunnita e che si fanno guerra per procura in Yemen e Siria,  hanno inoltre deciso  di attivare un accordo di cooperazione sulla sicurezza che avevano firmato nel 2001 e uno ancora precedente su commercio, economia e investimenti. Il mediatore dell’accordo tra la monarchia assoluta saudita e la repubblica islamica dell’Iran è stato Wang Yi, membro dell'ufficio Politico del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese (PCC) e capo dell'ufficio del Comitato Centrale degli Affari Esteri del PCC  e membro del Consiglio di Stato della Repubblica popolare cinese e, presentando «Il contesto, la situazione concreta e i risultati dei colloqui» un portavoce del ministero degli esteri cinese ha affermato che «La Cina si aspetta che le parti saudita e iraniana rafforzino la comunicazione e il dialogo ed è disposta a continuare a svolgere un ruolo attivo e costruttivo a tal fine. Grazie agli sforzi congiunti di tutte le parti, i colloqui saudita-iraniani a Pechino hanno raggiunto risultati significativi. Le due parti hanno definito chiaramente una roadmap e un calendario per il miglioramento delle relazioni, gettando una solida base per le prossime cooperazioni tra le due parti e voltando una nuova pagina nelle relazioni saudita-iraniane. I colloqui e l'accordo raggiunto tra l'Arabia Saudita e l'Iran sono un esempio per i Paesi della regione di risolvere i conflitti e le differenze e di raggiungere il buon vicinato attraverso il dialogo e la consultazione, il che favorisce la liberazione dei Paesi regionali dalle interferenze esterne e la presa nelle mani proprie del loro destino futuro. Le parti saudita e iraniana hanno sottolineato ancora una volta la loro adesione ai principi della Carta delle Nazioni Unite e alle norme fondamentali delle relazioni internazionali, come la non interferenza negli affari interni di altri Paesi e la volonta di stare al passo con i tempi. La Cina apprezza molto tale atteggiamento delle due parti e si congratula con loro». Per Wang, «Questa è una vittoria per il dialogo e una vittoria per la pace, fornendo notizie buone e importanti e inviando segnali chiari al mondo travagliato di oggi. L'Ucraina non è l'unico problema in questo mondo. Ci sono molte altre questioni relative alla pace e al sostentamento delle persone che richiedono l'attenzione della comunità internazionale». Il vero vincitore è il presidente cinese Xi Jinping, fresco del terzo mandato quinquennale conferitogli dal PCC che nei giorni scorsi ha rilanciato una campagna per sfidare l'ordine liberale occidentale guidato dagli Stati Uniti, avvertendo Biden di non passare la linea rossa del «conflitto e confronto». Anche l’Onu ha accolto favorevolmente il riavvicinamento saudita-iraniano e ha ringraziato la Cina per il ruolo svolto: «Le relazioni di buon vicinato tra Iran e Arabia Saudita sono essenziali per la stabilità della regione del Golfo», ha detto il portavoce Onu Stéphane Dujarric. L’acordo tra iraniani e sauditi è un vero schiaffo in faccia al premier israeliano Benjamin Netanyahu e al suo giro di vite contro i palestinesi e probabilmente la nostra premier Giorgia Meloni non riuscirà a mantenere la promessa fatta a Netanyahu durante la sua recentissima visita a Roma di lavorare per rinsaldare il patto anti-iraniano che alcuni Paesi arabi avevano stretto con Tel Aviv contro Teheran. L'ex primo ministro israeliano Naftali Bennett è convinto che l'accordo rappresenti «Un colpo critico agli sforzi per costruire una coalizione regionale contro Teheran» e Bennet ha accusato l'attuale governo di estrema destra di Netanyahu: «Il ripristino delle relazioni tra i sauditi e l'Iran è uno sviluppo grave e pericoloso per Israele e rappresenta una vittoria diplomatica iraniana [...] Questo è un incredibile fallimento del governo Netanyahu ed è il risultato di una combinazione di negligenza diplomatica, generale debolezza e conflitto interno nel Paese». Un alto funzionario israeliano che venerdì ha accompagnato Netanyahu in Italia ha cercato di incolpare il precedente governo e l'amministrazione Biden: «C'era un senso di debolezza americana e israeliana, quindi l'Arabia Saudita si è rivolta ad altri canali. Imembri del governo precedente dovrebbero chiedersi perché i colloqui Iran-Arabia Saudita siano iniziati durante il suo mandato del 2021». In realtà era stato lo stesso Netanyahu ad aver addirittura ipotizzato un’alleanza militare con i sauditi in caso di attacco massiccio contro l’Iran per impedirgli di sviluppare la sua industria nucleare e la bomba atomica (che gli israeliani hanno e i sauditi vogliono). Anzi, la ruota sembra girare nella parte opposta: Mohammed Abdulsalam, portavoce del movimento yemenita sciita Ansarullah. che controllo il nord dello Yemen e la capitale Sana’a e che è in guerra con l’Arabia saudita e i suoi alleati, ha subito seguito le indicazioni dei suoi alleati iraniani che arrivano dal vertice di Pechino: «La regione ha bisogno del ripristino di relazioni normali tra i suoi Paesi affinché la Ummah islamica riacquisti la sicurezza perduta a causa dell'interferenza straniera e, soprattutto, dell'ingerenza americano-sionista. Gli interventi stranieri hanno agito nella direzione di sfruttare le differenze regionali e hanno utilizzato l'iranofobia per creare conflitti e aggressioni nello Yemen» In Libano, Il segretario generale di Hezbollah, Seyyed Hassan Nasrallah, ha dichiarato che «Il riavvicinamento tra Iran e Arabia Saudita non andrà a scapito dello Yemen, della Siria e della Resistenza». E un altro ex potenziale (e di fatto) alleato di Israele, il regno di Giordania fedelissimo degli Usa, si rallegra per l’accordo e per la possibilie svolta. In un’intervista rilasciata all’agenzia ufficiale russa Ria Novosti, l’ex ministro della cultura e della gioventù, Mohammed Abu Rumman, apre a Tehran: «Abbiamo bisogno di normalizzare le relazioni con l'Iran. Secondo me, la normalizzazione delle relazioni tra Giordania e Iran è una cosa necessaria per la diplomazia giordana. Auspico che tutti gli ostacoli che si trovano di fronte a questo si dissolvano» Rumman ha ricordato che «Nel 2016 la Giordania ha ritirato il suo ambasciatore dall'Iran su sollecitazione dell’ Arabia Saudita. La Giordania ha interessi in Siria e Iraq. Questi interessi saranno rafforzati se si svilupperanno le relazioni tra Giordania e Iran. La Giordania non ha più alcun motivo per non far tornare il suo ambasciatore in Iran». La risposta di Netanyahu che è in gravi difficoltà interne per le gigantesche proteste contro la sua riforma della giustizia, è stata un nuovo bombardamento contro "postazioni iraniane" in Siria e l’uccisione di diversi militanti palestinesi nei Territori Occupati. E la risposta del presidente degli Stati Uniti Joe Biden  è stata quella estendere per un anno lo stato di emergenza contro l'Iran firmato il 14 novembre 1979 dall’allora presidente Usa  Jimmy Carter. In realtà gli Usa hanno in realtà fatto diplomaticamente buon viso a cattivo gioco e l'addetta stampa della Casa Bianca Karine Jean-Pierre ha detto che gli Stati Uniti  accolgono con favore «Qualsiasi sforzo per aiutare a porre fine alla guerra nello Yemen e allentare le tensioni nella regione del Medio Oriente». Ma il Dipartimento di Stato Usa ha subito aggiunto: «Certo, resta da vedere se il regime iraniano onorerà la sua parte dell'accordo». Secondo il principale analista per l'Iran dell'International Crisis Group, Naysan Rafati, «Non è chiaro se i risultati saranno positivi per gli Usa. Il rovescio della medaglia è che in un momento in cui Washington e partner occidentali stanno aumentando la pressione contro la Repubblica islamica , Teheran crederà di poter rompere il suo isolamento e, visto il ruolo della Cina, di poter avere la copertura delle grandi potenze». Quel che è certo che con questo accordo con la dittatura saudita il regime repressivo dell’Iran prende una boccata d’aria e non a caso a febbraio l’intransigente presidente di destra dell’Iran, Ebrahim Raisi era stato ospite per lunghi colloqui a Pechino con i leader comunisti della Cina che è tra i principali acquirenti di petrolio saudita. Xi aveva visitato Riyadh a dicembre per incontri con le petromonarchie sunnite del Golfo ricche di petrolio, cruciali per l'approvvigionamento energetico della Cina, ma che ospitano basi militari statunitensi e NATO. Jeffrey Feltman, ex alto funzionario Usa e Onu e attuale membro del think tank Brookings Istitution è molto diretto: «Questo sarà probabilmente e correttamente interpretato come uno schiaffo in faccia all'amministrazione Biden e come prova che la Cina è la potenza in ascesa». E anche per Jon Alterman, il direttore del programma per il Medio del Center for Strategic and International Studies, «La partecipazione della Cina rafforza la sua crescente influenza, che contribuisce alla narrazione di un declino globale della presenza americana. Il messaggio non proprio sottile che la Cina sta inviando è che mentre gli Stati Uniti sono la potenza militare dominante nel Golfo, la Cina è una potente presenza diplomatica». Dopo aver firmato l’accordo, il saudita Al-Aiban ha ringraziato l'Iraq e l'Oman per la mediazione tra l'Iran e e l’Arabia saudita e ha aggiunto: «Pur apprezzando ciò che abbiamo raggiunto, speriamo che continueremo a continuare il dialogo costruttivo». Il  presidente del Parlamento iraniano, Mohammad Baqer Qalibaf, ha sottolineato che «La ripresa delle relazioni con Riad è un passo importante per la stabilità della regione e del Golfo Persico e per lo sviluppo politico ed economico della cooperazione a livello regionale. Auspico che l'altra parte dimostri la sua buona volontà, non interferendo negli affari interni dell'Iran e che prenda decisioni benevoli in merito alle questioni regionali, in particolare su Libano, Yemen e Palestina». Le nazioni del Medio Oriente sono sempre più legate al gigante asiatico e, prima dell’accordo con l’Iran, il ministro degli esteri saudita, il principe Faisal bin Farhan al-Saud, aveva ricordato che «La Cina è il principale partner commerciale di Riyadh, come la maggior parte dei paesi arabi. Per noi la Cina è un partner importante e prezioso in tanti campi. Abbiamo ottimi rapporti di lavoro in tanti settori. Ma come abbiamo detto e ripetiamo sempre, cureremo i nostri interessi. E li cercheremo in Occidente e in Oriente». Trita Parsi, diplomatico statunitense in Asia con l’amministrazione Obama e vicepresidente esecutivo del Quincy Institute,  ha definito  l'accordo «Una buona notizia per il Medio Oriente. La Cina è diventata un attore che può risolvere le controversie piuttosto che vendere armi alle parti in conflitto. La domanda è se questo sia un segno di ciò che accadrà in futuro. Potrebbe essere un precursore di uno sforzo di mediazione cinese tra Russia e Ucraina quando Xi visiterà Mosca?». Intanto il ministero degli esteri cinese si gode il successo diplomatico e assicura: «Rispettiamo lo status dei paesi mediorientali come proprietari di questa regione e ci opponiamo alla concorrenza geopolitica in Medio Oriente. La Cina non ha intenzione e non cercherà di riempire il cosiddetto “vuoto” o stabilire blocchi di esclusione. La Cina sarà un promotore di sicurezza e stabilità, un partner per lo sviluppo e la prosperità e un difensore dello sviluppo del Medio Oriente attraverso la solidarietà». E la Cina passa subito all’incasso: secondo il Wall Street Journal, ha invitato l'Iran e i paesi arabi del Golfo a tenere un vertice a Pechino quest'anno tra l'Iran e i Paesi del Consiglio di cooperazione per gli Stati arabi del Golfo (Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti). Un summit prospettato da Xi Jinping nel dicembre 2022, a margine del vertice arabo-cinese di Riyadh, che aveva ottenuto subito il consenso di Teheran. Che qualcosa stesse rapidamente cambiando lo si era capito il 9 marzo, quando il ministro degli esteri saudita aveva annunciato che «L'Arabia Saudita intende rafforzare le relazioni in tutti i campi con la Russia e allo stesso tempo fare ogni sforzo per facilitare una soluzione diplomatica del conflitto in Ucraina. Siamo pronti a lavorare con tutte le parti per trovare una soluzione pacifica». Il ministro degli esteri russi Lavrov aveva risposto: «Mosca è grata agli amici sauditi per la loro posizione equilibrata e il genuino interesse a facilitare il progresso verso una soluzione politica». L'articolo Iran e Arabia Saudita riprendono i rapporti diplomatici. Pace fatta grazie alla Cina sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Epidemia di colera in Africa orientale e meridionale, Unicef: «Estremamente preoccupante»

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Di fronte all’avanzare dell’emergenza in 11 Stati dell’Africa orientale e meridionale – con Malawi e Mozambico come Paesi più colpiti – l’Unicef lancia l’allarme a livello internazionale: si tratta di «un’epidemia di colera estremamente preoccupante con 67.822 casi e 1.788 morti stimate. I dati reali probabilmente sono più alti». A causa del rapido deterioramento della situazione sanitaria pubblica, in particolare nei paesi più duramente colpiti, l’Unicef chiede 150 milioni di dollari per tutti gli 11 paesi colpiti dall’epidemia di colera nella regione, compresi 34,9 milioni di dollari per il Malawi e 21,6 milioni di dollari per il Mozambico, per fornire servizi salvavita alle persone colpite dall’epidemia. «Pensavamo che questa regione non avrebbe mai visto un'epidemia di colera così diffusa e così letale in questi tempi – spiega Lieke van de Wiel, vicedirettore regionale dell’Unicef – Acqua e servizi igienici scarsi, eventi meteorologici estremi, conflitti in corso e sistemi sanitari deboli stanno aggravando e mettendo in pericolo le vite dei bambini in tutta l’Africa meridionale». I partner internazionali dell’Unicef hanno già contribuito con 2,9 milioni di dollari per la risposta in Malawi e 550.000 dollari per la risposta in Mozambico. Con questi fondi, l’Unicef ha ampliato la fornitura di cloro per purificare l’acqua, medicine e attrezzature per prevenire e controllare il contagio e messaggi di comunicazione del rischio. Tuttavia, l’Unifec attualmente ha una carenza di fondi complessiva per entrambi i paesi del 92%, che sta limitando la capacità di rispondere ai bisogni dei bambini colpiti dalle crisi. «Si tratta di una grave crisi di colera, e tutti i segnali indicano che peggiorerà molto, prima di migliorare – aggiunge van de Weil – Abbiamo bisogno di investimenti urgenti e continui per rispondere subito all’epidemia e rafforzare i sistemi e le comunità a essere preparati meglio a quelli che probabilmente saranno i casi più gravi in futuro». Lo scorso mese, l’Oms ha ricordato che 22 paesi nel mondo attualmente stanno lottando contro l’epidemia di colera – un numero che è poi aumentato a seguito di ulteriori epidemie. Dopo anni di calo di casi di colera a livello globale, lo scorso anno si è verificato un aumento e si prevede proseguirà anche quest’anno. L'articolo Epidemia di colera in Africa orientale e meridionale, Unicef: «Estremamente preoccupante» sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Fermare la strage subito! A Cutro sabato 11 marzo manifestazione nazionale

Fermare la strage subito
«La strage di Cutro non è stato un incidente imprevedibile. È solo l’ultima di una lunghissima serie di tragedie che si dovevano e si potevano evitare. Le persone che partono dalla Turchia, dalla Libia o dalla Tunisia sono obbligate a farlo rischiando la vita a causa dell’assenza di canali sicuri e legali di accesso al territorio europeo. I governi hanno concentrato i loro sforzi solo sull’obiettivo di impedire le partenze, obbligando chi fugge da guerre, persecuzioni e povertà a rivolgersi ai trafficanti. Se le persone morte nel mare davanti a Cutro avessero potuto chiedere e ottenere un visto umanitario non avrebbero rischiato la vita. Se ci fosse stato un programma di ricerca e salvataggio europeo o italiano, quel terribile naufragio si sarebbe potuto evitare. Sulle responsabilità delle autorità competenti indagherà la magistratura. Ma chi ha responsabilità politiche, in primo luogo il governo, non può ribaltare la realtà e scaricare sulle vittime il peso di una strage che ha visto la perdita di 71 esseri umani che si potevano e si dovevano salvare». Si apre così l’appello sottoscritto dal Tavolo Asilo e Immigrazione, dalle rete 26 Febbraio, dalle Ong impegnate in operazioni di ricerca e soccorso, dalle reti locali della Calabria, dall’AOI, dalle tante organizzazioni locali e nazionali che hanno deciso di promuovere una manifestazione sulla spiaggia di Cutro il prossimo 11 marzo, per esprimere indignazione per quanto accaduto e solidarietà con le famiglie delle vittime. Alla manifestazione ha annunciato  la sua partecipazione anche Legambiente che sabato tornerà a ribadire la sua «Indignazione per l’ennesima strage di migranti che si è consumata sulle coste italiane e ad esprimere la sua vicinanza alle famiglie delle vittime, perché quanto accaduto è qualcosa di vergognoso. Ogni Paese industrializzato è responsabile di queste migrazioni causate sempre più da tensioni e conflitti per l’accaparramento di materie prime o risorse energetiche dalla crisi climatica che rende invivibili le terre di queste persone». Il presidente nazionale di Legambiente Stefano Ciafani e la presidente di Legambiente Calabria Anna Parretta, sottolineano che «Non si può rimanere indifferenti di fronte a quanto sta accadendo sulle coste italiane, né continuare a perpetuare politiche disumane che alimentano tragedie che non vorremmo vedere più nel mar Mediterraneo, come nel resto del mondo. Occorre fermare questa emorragia di umanità e dare l’esempio affinché tragedie simili non accadano più. Per questo insieme alle tante associazioni e ai rappresentati della società civile che sabato manifesteranno a Cutro, chiediamo in particolare un’indagine seria per fare chiarezza su quanto è accaduto garantendo verità e giustizia». Per le associazioni organizzatrici della manifestazione «E’ arrivato il momento di dire basta e di fermare le stragi. Chiediamo un’indagine seria che faccia chiarezza su quanto è successo. Chiediamo di istituire una Commissione parlamentare di inchiesta sulle stragi di frontiera. Chiediamo di realizzare immediatamente un programma europeo di ricerca e salvataggio in tutto il Mediterraneo, e sollecitiamo il governo italiano a chiedere agli altri Stati membri di implementare questo programma. Chiediamo di attivare i visti umanitari previsti dal Regolamento Europeo dei Visti, consentendo così alle persone in fuga da guerre e violenze l’attraversamento delle frontiere europee in sicurezza e legalità. Chiediamo di attivare ogni via d’accesso complementare, a partire dai reinsediamenti, dai corridoi e da altre forme di sponsorship e di ampliare i canali regolari di ingresso, senza usare questi strumenti per giustificare politiche di chiusura e respingimenti delegati a governi non Ue. Chiediamo di fermare ogni iniziativa e programma di esternalizzazione delle frontiere e di promuovere accordi bilaterali condizionati dal rispetto dei diritti umani e non dal controllo dei flussi migratori. E’ il momento di dire basta ad ogni forma di strumentalizzazione politica e di fermare le stragi. Lo faremo andando sulla spiaggia di Cutro il prossimo 11 marzo alle 14.30 per esprimere la nostra indignazione e la solidarietà con le vittime e le loro famiglie con una marcia silenziosa. La manifestazione di Cutro è il primo importante appuntamento nazionale di un percorso di iniziative e mobilitazioni che le reti che la promuovono intendono organizzare affinché queste politiche “invertano rotta”. A chi non potrà essere a Steccato di Cutro chiediamo di mobilitarsi online scattandosi una foto con la fascia bianca al braccio e pubblicarla sui social con l’hashtag #fermarelastrage». L'articolo Fermare la strage subito! A Cutro sabato 11 marzo manifestazione nazionale sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Il Congresso Usa boccia il ritiro delle truppe dalla Siria. Respinta la richiesta del repubblicano Matt Gaetz

Il Congresso Usa boccia il ritiro delle truppe dalla Siria
La Camera dei rappresentanti statunitense ha bocciato un disegno di legge presentato dal repubblicano Matt Gaetz che chiedeva di ritirare tutte le truppe americane dalla Siria, optando per continuare un intervento militare  che dura da anni contro il governo di Damasco, che ha sempre respinto la presenza armata Usa sul suo territorio come illegale. Una spedizione che si è progressivamente trasformata da coalizione anti siriana-russa in anti Stato Islamico/Daesh (ISIS) con l’alleanza con le milizie kurde che poi non sono però state difese quando la Turchia ha invaso vaste aree dell Siria settentrionale sotto controllo kurdo. Anche se 56 democratici si sono uniti a 47 repubblicani per sostenere il disegno di legge di Gaetz ufficialmente sostenuto dal partito Repubblicano, la risoluzione sui poteri di guerra in Siria e è stata bocciata da un altro fronte bipartisan ed è finita con 321 no e soli 103 sì. Il disegno di legge presentato da Gaetz a gennaio avrebbe ordinato al presidente Joe Biden di ritirare entro 6 mesi i 900 soldati statunitensi ancora ufficialmente schierati in Siria, sostenendo che il Congresso non ha mai autorizzato qell’azione militare. Gaetz non ha preso bene il risultato del voto e ha criticato sia i repubblicani che i democratici  e ha dipinto un quadro della sir tuazione siriano con argomentazioni  per le quali – e per molto meno . in Italia si potrebbe essere tacciati di propaganda comunista, ma Gaetz è un iperconservatore anticomunista della Florida. Nel suo intervento al Congresso, il parlamengtare repubblicano haz ricordato che «Gran parte della discussione odierna ruota intorno al fatto che il ritiro dalla Siria possa o meno innescare un nuovo califfato dell'ISIS. Abbiamo sottolineato più e più volte i rapporti dell'Inspector General che affermano che ciò è improbabile, ma non sono del tutto sicuro che avere truppe in Siria scoraggi l'ISIS più di quanto non sia in realtà uno strumento di reclutamento per l'ISIS. Inoltre, il presidente Trump ha affermato che se la Russia volesse uccidere l'ISIS, dovremmo permetterglielo, e penso che ci sia saggezza in questo. Sia Assad che la Turchia sono oggi in posizioni più forti per esercitare una pressione sull'ISIS, e forse se non ci fossero date armi alle persone che sparano ad Assad, Assad avrebbe tutti gli incentivi per essere in grado di coinvolgere l'ISIS in modo da garantire che non torni». Insomma, Gaetz Propone di fatto un tacito accordo tra regime siriano, Russia e Turchia per far fuori quel che resta dello Stato Islamico Daesh, liberando gli Usa da questa incombenza.  Ma non basta, il deputato del GOP ha girato il coltello nella piaga delle disavventure diplomatiche e militari statunitensi in Medio Oriente: «Dobbiamo anche riconoscere che la Siria e l'Iraq sono i due Paesi del pianeta Terra in cui abbiamo fatto di più per finanziare l'ISIS. Diamo armi a questi cosiddetti ribelli moderati, che in realtà pensavo fosse un ossimoro, e si scopre che non sono così moderati. A volte i ribelli che finanziamo per andare a combattere Assad si rivoltano e alzano la bandiera dell'ISIS. E quindi è abbastanza sciocco dire che dobbiamo ritirarci per fermare l'ISIS quando è la nostra stessa presenza in Siria in alcuni casi che è stata il miglior regalo per l'ISIS. Ci sono gruppi come Al-Nusra e entità associate che sono come i nostri fans quando sono in Siria, e poi attraversano il confine con l'Iraq e diventano jihadisti a tutti gli effetti che si presentano come una cosiddetta minaccia per la patria. Ci sono 1.500 gruppi diversi in Siria. Quindi l'amico di oggi è l'ISIS di domani. Non c'è una vera definizione chiara di cosa significhi la "sconfitta duratura dell'ISIS". Ad esempio, dobbiamo tenere 900 americani in Siria fino a quando batterà il cuore dell'ultima persona che nutre simpatia per l'ISIS? Sicuramente spero di no. Significherebbe che dovremmo essere lì per sempre». Poi, un po’ semplificando alla maniera di Trump, Gaetz ha fatto un quadro della situazione attuale: «Israele ha stretto un accordo con la Russia per essere protetto. I kurdi hanno fatto pace con Assad per essere protetti. Quello che vediamo in questo pantano è che in realtà in Siria non c'è un ruolo per gli Stati Uniti d'America. Non siamo una potenza mediorientale. Abbiamo cercato più e più volte di costruire una democrazia con la sabbia, il sangue e le milizie arabe, e più e più volte il lavoro che svolgiamo non riduce il caos. Spesso provoca il caos, lo stesso caos che successivamente porta al terrorismo. I miei colleghi, i componenti del mio staff che hanno prestato servizio in Siria, i miei elettori mi dicono che spesso questi raid anti-ISIS sono solo raid di teppisti locali e spacciatori di droga che hanno qualche cugino che è nell'ISIS, e non è giusto mettere a rischio gli americani. Spesso i nostri americani sorvegliano quei giacimenti petroliferi, dove gli iraniani inviano droni kamikaze. E sono scioccato dal fatto che non abbiamo avuto un'escalation di incidenti o anche più vittime tra i nostri militari statunitensi. E quindi se questo è tutto un grande esame di saggio della Georgetown School of Foreign Service sulla grande competizione per il potere in Siria, andate a dirlo ai genitori degli americani che stanotte devono dormire in Siria, che devono proteggere i giacimenti petroliferi con i droni iraniani in arrivo su di loro, che tutto questo è necessario  per preservare l'equilibrio del potere. Questo non è vero. I kurdi hanno l'opportunità di spianare la strada. Pavimentiamogliela». Il riferimento al furto di petrolio fa riecheggiare nell’aula del Congeresso Usa addirittura l’accusa di banditismo fatta Il 18 gennaio, durante una conferenza stampa, dal portavoce del ministero degli esteri di Pechino Wang Wenbin: «Siamo colpiti dalla sfacciataggine e dall'enormità del saccheggio della Siria da parte degli Stati Uniti... Tale banditismo sta aggravando la crisi energetica e il disastro umanitario in Siria». Poi, citando le statistiche del governo siriano di Bashir al-Assad, ha sottolineato che «Nella prima metà del 2022, oltre l'80% della produzione giornaliera di petrolio della Siria è stata contrabbandata fuori dal Paese dalle truppe di occupazione statunitensi. Sia che gli Stati Uniti diano o tolgano, fanno precipitare altri paesi nel tumulto e nel disastro, e gli Stati Uniti possono raccogliere i frutti della loro egemonia e di altri loro interessi. Questo è il risultato del cosiddetto “ordine basato sulle regole” degli Stati Uniti. Il diritto alla vita del popolo siriano viene spietatamente calpestato dagli Stati Uniti. Con poco petrolio e cibo a disposizione, il popolo siriano sta lottando ancora più duramente per superare il rigido inverno. Gli Stati Uniti devono rispondere del furto di petrolio». Va anche detto che i cinesi non si sono mostrati così attenti e scandalizzati quando il petrolio siriano se lo fregavano i turchi in combutta con lo Stato Islamico/Daesh. Il problema per Goetz è che  nel 2019 era stato proprio il suo idolo Donald Trump ad annunciat re che alcuni soldati statunitensi sarebbero rimasti in Siria «Per il petrolio» e per salvaguardare le risorse energetiche. Nel 2020 alcuni rapporti  hanno rivelato che l'amministrazione Trump aveva approvato un accordo tra una società energetica statunitense e le autorità kurde che controllano la Siria nord-orientale per «Sviluppare ed esportare il greggio della regione», un contratto immediatamente condannato come illegale da Damasco. Tuttavia, mentre quell’accordo è stato annullato dopo l'insediamento del presidente Joe Biden, le autorità siriane hanno continuato ad accusare Washington di saccheggio delle sue risorse sotto il controllo dei soldati statunitensi. La consonanza con quanto detto da Goetz con le accuse di cinesi e siriani al tempo di Trump avrebbe portato ad accusare di tradimento della patria un qualsiasi attivista pacifista che avesse denunciato le stesse cose. Ma Goetz si è subito fatto perdonare dai repubblicani  con il cavallo di battaglia trumpiano che piace  (piaceva?) tanto anche alla destra italiana: i migranti-terroristi.  «E se siamo così preoccupati per le minacce alla patria, che ne dite di concentrarci sul nostro vero punto di vulnerabilità, che non è l'emergere di qualche califfato, è il fatto che i terroristi attraversano il nostro confine meridionale su base giornaliera, settimanale, base mensile. Sembriamo molto meno preoccupati di questo, e innegabilmente dovremmo esserlo». Il non certo accomodante j’accuse di Goetz si è concluso con un appello a repubblicani e democratici  a «Sostenere questa risoluzione per riaffermare il potere del Congresso di parlare su queste questioni di guerra e pace. Così spesso, veniamo in aula e discutiamo di frivolezze. Questa è una delle cose più importanti di cui possiamo parlare: come usiamo la credibilità dei nostri camerati americani, come spendiamo il tesoro dell'America, come versiamo il sangue dei nostri più coraggiosi patrioti. Abbiamo macchiato i deserti del Medio Oriente con abbastanza sangue americano. È tempo di riportare a casa i membri che sono al nostro servizio». Ma la proposta, che varcava un po’ troppi non detto e linee rosse invisibili, è stata bocciata sia dai “moderati” repubblicani che da quelli democratici. L'articolo Il Congresso Usa boccia il ritiro delle truppe dalla Siria. Respinta la richiesta del repubblicano Matt Gaetz sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Rivolta in Georgia per la legge “russa” contro gli agenti stranieri. La presidente si schiera con i manifestanti

Rivolta in Georgia
Il Khalkhis Dzala (Potere popolare), un movimento populista/sovranista fondato nell’agosto 2022 da 3 deputati e al quale hanno poi aderito altri 6 parlamentari dell’ala destra del partito di governo "Sogno georgiano - Georgia democratica", Il 29 dicembre 2022 ha presentato un disegno di legge che prevede la creazione di un registro per gli «agenti di influenza straniera» e che , «sarà introdotta la definizione di agente di influenza straniera» e «sarà assicurato il coinvolgimento diretto dello Stato in una serie di processi che prevedono il privilegio di persone fisiche o giuridiche con finanziamenti esteri». Il 14 febbraio, il Khalkhis Dzala, i cui voti sono ormai necessari per la sopravvivenza del governo del premier  liberal-conservatore Irakli Garibashvili, ha ottenuto da Sogno georgiano l’avvio della discussione di un disegno di legge sulle attività delle organizzazioni finanziate dall'estero che è stato subito chiamato “la legge russa” perché, come quella fatta approvare da Vladimir Putin qualche anno fa metterebbe le organizzazioni della società civile e ambientaliste in una posizione di vulnerabilità. Però, di fronte alle proteste montanti, la maggioranza di governo ha presentato  due versioni del disegno di legge sugli agenti stranieri: una "georgiana" e una "americana". La versione "georgiana" prevede che alle organizzazioni senza scopo di lucro e ai media venga affibbiato lo status di agente di influenza straniera se più del 20% delle loro entrate proveengono dall'estero e che queste organizzazioni devono sottoporsi alla registrazione obbligatoria e, se si rifiutano di farlo, saranno multate. Inoltre, il ministero della giustizia avrà il diritto di avviare un'indagine contro di loro. La presentazione della versione “americana” suona come una beffa verso i molti oppositori che sventolano la bandiera statunitense come simbolo di libertà e anti-russo: infatti è la traduzione letterale in georgiano del Foreign Agents Registration Act (FARA) Usa approvato nel 1938 in funzione anticomunista e poi anti-nazista e che stabilisce la condizione di agente straniero non solo per i media e le organizzazioni non governative , ma anche per altre persone fisiche e giuridiche  e che prevede che le le violazioni (ritardo o rifiuto della registrazione) sono soggette a sanzioni non solo amministrative, ma anche penali, con pene detentive fino a 5 anni. Insomma, la destra georgiana ha più o meno detto: se non volete la versione  "georgiana" che dite che è come la legge russa

Sud Sudan: c’è l’impunità dietro la catena di crimini di guerra orribili

Sud Sudan
Presentando il loro rapporto all’United Nations Human Rights Council (UNHRC) Andrew Clapham e Barney Afako dell’UN Commission on Human Rights in South Sudan hanno  denunciato che «L'impunità è una delle principali cause delle violazioni dei diritti umani e delle crisi umanitarie in Sud Sudan, che continuano a causare immensi traumi e sofferenze ai civili del Paese». Clapham e Afako accusano direttamente chi governa il Paese più giovane del mondo: «Gli alti funzionari pubblici e gli ufficiali militari dovrebbero essere ritenuti responsabili di crimini gravi, o non vedremo mai la fine delle gravi violazioni dei diritti umani. Gli attacchi contro i civili persistono proprio perché gli autori sono fiduciosi di godere dell'impunità». Sulla base delle indagini condotte nel Sud Sudan e nelle regioni limitrofe per tutto il 2022, il rapporto identifica «Attacchi diffusi contro civili, violenze sessuali sistematiche contro donne e ragazze, la continua presenza di bambini nelle forze combattenti e uccisioni extragiudiziali sponsorizzate dallo Stato». I risultati della Commissione descrivono «Molteplici situazioni in cui gli attori statali sono i principali autori di gravi crimini secondo le leggi del Sud Sudan, così come secondo il diritto internazionale. Anche i membri di gruppi armati non statali sono identificati come autori di crimini violenti compiuti in varie aree di conflitto». Clapham sottolinea che «Abbiamo documentato le violazioni dei diritti umani nel Sud Sudan per molti anni e continuiamo a essere scioccati dalle violenze in corso, comprese orribili violenze sessuali, rivolte contro i civili e perpetrate da membri delle forze armate, diverse milizie e gruppi armati. Il mese scorso abbiamo nuovamente visitato il Paese, dove abbiamo incontrato a Juba e Malakal coraggiosi sopravvissuti che hanno condiviso le loro esperienze di traumi, perdite e fame. Di fronte a cicli persistenti di violenza e insicurezza, molti ci hanno detto di essere delusi e di aver perso la speranza”. La Commissione ha documentato «Un'operazione devastante nella contea di Leer, dove i funzionari governativi hanno ordinato alle milizie di compiere uccisioni su vasta scala, stupri sistematici e spostamenti forzati di civili in un'area considerata fedele all'opposizione». Nella contea di Tonj North, la Commissione ha rilevato che «Le forze di sicurezza hanno lanciato una campagna di violenza contro i civili quando i capi dei tre principali organi di sicurezza del governo si sono schierati nell'area». Il rapporto descrive anche le uccisioni extragiudiziali nella contea di Mayom, durante un'operazione militare supervisionata da alti funzionari governativi e militari. I video delle uccisioni sono stati ampiamente condivisi sui social media, provocando indignazione persino in un Paese che è abituato ad atti di brutale violenza. Afako fa notare che «E’ difficile immaginare la pace mentre gli attori statali continuano a essere coinvolti in gravi violazioni dei diritti umani. Una vera dimostrazione degli impegni dichiarati dal governo per la pace e i diritti umani comporterebbe il licenziamento dei funzionari responsabili e l'avvio di azioni penali. Il rapporto lancia l'allarme per l'escalation della violenza nello Stato dell'Upper Nile, dove il sito di protezione dei civili delle Nazioni Unite a Malakal è stato sopraffatto da decine di migliaia di nuovi arrivi. I sopravvissuti agli attacchi hanno raccontato di essere fuggiti di villaggio in villaggio, inseguiti da uomini armati che uccidevano, stupravano e distruggevano tutto. In due eventi distinti, i civili che si erano rifugiati in campi profughi improvvisati sono stati nuovamente attaccati e gli aiuti umanitari vitali sono stati saccheggiati. «Nessuna istituzione responsabile ha adottato tempestivamente le misure necessarie per proteggerli, nonostante i rischi di attacchi fossero ben noti» hanno detto Clapham e  Afako. Nonostante tutto, i due commissari sperano ancora che «Il Sud Sudan può essere diverso e l'accordo di pace rivitalizzato del 2018 rimane il quadro per affrontare il conflitto, la repressione e la corruzione che causano immense sofferenze e minano le prospettive di pace. L'accordo traccia anche un percorso per i sudsudanesi per creare una Costituzione permanente che dovrebbe rafforzare lo stato di diritto e il rispetto dei diritti umani, gettando così le basi per la stabilità del Paese». Un Paese che sarebbe ricco di risorse - a cominciare da petrolio - ma che proprio per il possesso di queste risorse sta massacrando il suo stesso popolo, volonerosamente assistito da chi sostiene governo o oppositori per mettere le mani su quelle stesse risorse e su terreni tra i più fertili del mondo dove ora c'è solo fame e distruzione. Infatti  ritorna il pessimismo della ragione: per Afako, «La sfida per promuovere la pace e i diritti umani nel Sud Sudan è molto pesante e l'attenzione e il sostegno internazionali non devono diminuire. Nei prossimi 18 mesi sono previste elezioni politiche e costituzionali a lungo ritardate, ma lo spazio civico necessario per renderle significative è praticamente scomparso. Attivisti e giornalisti operano sotto minaccia di morte e detenzione. Chiediamo che le autorità pongano immediatamente fine alle vessazioni della società civile e proteggano lo spazio politico». Clapham ha concluso: «Sebbene il governo abbia annunciato commissioni speciali di indagine su diverse situazioni esaminate dalla Commissione, solo uno di tali organismi sembra aver svolto indagini, non sono stati pubblicati rapporti e non si sono svolti processi penali correlati. La Commissione ha continuato a conservare le prove per consentire future azioni penali e altre misure di responsabilità». Nicholas Haysom, rappresentante speciale del segretario generale dell’Onu per il Sud Sudan dal 2021 e a capo dell’United Natios mission in South Sudan dirige anche la missione delle Nazioni Unite nel paese (UNMISS) ha parlato di fronte al Consiglio di sicurezza dell’Onu confermando il quadro terribile descritto da Clapham e  Afako e poi, in un’intervista a UN News ha spiegato: «Penso che stiamo arrivando al culmine, un bivio quasi in cui ciò che viene offerto è il completamento della transizione in Sud Sudan che culmina in un Sud Sudan stabile e democratico, in o più guerra se le ruotedella transizione dovessero staccarsi, o se [i sudsudanesi] non riuscissero a raggiungere i parametri critici stabiliti nell'accordo di pace. Quel che è realmente necessario è un cambiamento di mentalità per completare questa transizione, che sia consapevole dell'importanza della collaborazione e del compromesso tra i partiti politici nell'interesse della costruzione della nazione e del progresso verso l'accordo di pace, o, in alternativa, un approccio diverso secondo cui quasi ogni aspetto della transizione è guerra, con altri mezzi, che non privilegia la dimensione dell'impegno di costruzione della nazione». Ma Haysom non si nasconde che le sfide che ha di fronte questo Paese mai nato – che dopo l’indipendenza e stato abbandonato dagli stessi Paesi che lo avevano aiutato ad ottenerla, a partire dagli Usa – sono enormi: «In primo luogo, dobbiamo renderci conto che la transizione dovrebbe concludersi effettivamente il prossimo anno. Ma, se si guardano i compiti che devono essere svolti affinché la transizione sia completata l'anno prossimo, la maggior parte di quei compiti per quest'anno - preparazione per le elezioni, luogo di contatto un mese prima delle elezioni – dovrebbero avuto aver luogo 18 mesi o due anni prima, sia che si tratti della registrazione obbligatoria degli elettori o della delimitazione del collegio elettorale. E se rimandano quelle decisioni al 2024, non saranno in grado di recuperare il terreno necessario per raggiungere alcuni obiettivi davvero importanti». La macchia elettorale parte da zero in un paese che deve approvare una nuova Costituzione e un nuovo contratto sociale, che stabilisca le modalità con cui possono vivere insieme in pace e armonia etnie  divise da due guerre civili in un decennio. Intanto, nonostante il trattato di pace imposta soprattutto grazie all’intervento di Papa Francesco, in Sud Sudan sono attivi 5 hotspot di guerra. Haysom affronta questa situazione con la giusta dose di crudo realismo: «Penso che dobbiamo affrontare una situazione in cui le parti saranno irremovibili nell'assicurarsi vantaggi politici, sia per quanto riguarda i finanziamenti che per quanto riguarda la monopolizzazione dei media. Penso che sarà importante per le Nazioni Unite, ma non solo per l’Onu. Questo compito è molto più grande delle Nazioni Unite e per quel che possono offrire. La comunità internazionale e la società civile devono impegnarsi a stabilire le ragionevoli aspettative di un ambiente che consenta le elezioni e il dialogo necessari per concordare una nuova costituzione». A gennaio nella capitale del Sud Sudan Juba si è tenuta la storica Conferenza internazionale sulla leadership trasformazionale delle donne che ha chiesto di agire in una serie di aree, inclusa la loro maggiore partecipazione delle donne alla costruzione della pace, e, in occasione della Giornata internazionale delle donne, Haysom ha dichiarato: «Penso che sarà importante per le Nazioni Unite inviare messaggi, in collaborazione con altri Stati membri e altre organizzazioni, sull'importanza della partecipazione delle donne alla vita pubblica della nazione. Penso che sarà fondamentale per noi coinvolgere gli stessi gruppi di donne, perché penso che la partecipazione delle donne non sia semplicemente correlata al numero di donne al tavolo. Sicuramente premieremo che sia con le elezioni, sia nella costruzione di altri enti pubblici, venga mantenuta e confermata una quota almeno del 35%, già concordata. E fonora i dati sono misti». Haysom ha concluso: «Penso che sia importante condividere con i sud sudanesi che è ancora possibile realizzare i parametri di riferimento e l'accordo di pace nei tempi previsti. Vorremmo comunicare la necessità di un senso di urgenza e che i ritardi causati ora avranno un effetto domino e non potranno essere recuperati se il lavoro non viene svolto. Sappiamo che il Parlamento ha chiuso per la sospensione di dicembre e non si è ancora riunito. Questo non è in linea con la nostra comprensione del punto in cui si trova attualmente il Sud Sudan, che è più vicino a un'emergenza nazionale. Vorremmo che tutte le parti politiche interessate si avvicinassero ai compiti futuri, come se fosse un'emergenza nazionale e che fossero tenuti a fare la loro parte. Sulla questione di come possiamo promuovere lo spazio politico e civico, penso che in generale vorremmo condividere con i sudsudanesi che uno degli obiettivi di questa transizione è quello di stabilire uno Stato legittimo e credibile che sia riconosciuto come autonomo e che le elezioni svolgeranno un ruolo importante per raggiungere questo obiettivo. Ma se le elezioni non saranno libere, o non eque, o non credibili, allora non daranno alcun contributo alla futura legittimità di un governo in Sud Sudan. Quindi, vorremmo aiutare i sudsudanesi a riconoscere che è nel loro interesse creare l'ambiente politico in cui possano svolgersi elezioni libere, eque e credibili». L'articolo Sud Sudan: c’è l’impunità dietro la catena di crimini di guerra orribili sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.