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Arrivati i primi treni Pop in Toscana, consumano il 30% in meno di energia

treni pop toscana

Sono stati consegnati ieri alla Regione Toscana i primi 4 dei 19 treni Pop di Trenitalia, tutti attesi entro l’anno: progettati e costruiti da Alstom, i treni di questo primo lotto inizieranno a circolare sulla linea di cintura Pistoia-Prato-Firenze-Montevarchi.
«È un altro passo avanti verso la mobilità sostenibile, ma soprattutto aumentando l’offerta di trasporto pubblico, in questo caso su treno, possiamo auspicare che la scelta del trasporto pubblico possa finalmente prevalere rispetto all’uso del mezzo privato», ha dichiarato il presidente Eugenio Giani, ribadendo al contempo «l’importanza dell’interscambio con la bicicletta».
Tecnologicamente avanzati ed ecologici, i nuovi Pop a 4 carrozze consentono di far viaggiare 500 persone con oltre 300 posti a sedere, ma i posti per le bici (con possibilità di ricarica per quelle elettriche) sono solo 12. In compenso, i treni Pop permettono di ridurre del 30% i consumi energetici rispetto ai treni precedi, oltre ad essere mezzi realizzati con materiali che per il 95% potranno essere riciclati.
Soddisfatto l’assessore ai trasporti Stefano Baccelli: «Cento nuovi treni, non solo Pop, ma anche Rock e Blues. Questo abbatterà non solo l’età media della flotta della Regione Toscana, ma darà un servizio più efficiente, confortevole , ambientalmente più sostenibile. Il treno Pop di nuova generazione consuma il 30% in meno di energia. E poi contribuisce  a sviluppare l'intermodalità a cui teniamo molto. Un impegno che stiamo portando avanti con Rfi per valorizzare le stazioni  ferroviarie nel senso dell’intermodalità bici, bus, auto private».
Nello specifico, il Contratto di servizio siglato con la Regione Toscana per il periodo 2019-2034  prevede l’arrivo in regione di nuovi 100 treni tra Rock, Pop e Blues.
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A Pantelleria installato Iswec: energia dal moto ondoso per fornire elettricità rinnovabile all’isola

energia dal moto ondoso

L’energia da moto ondoso è una delle principali forme di energia rinnovabile attualmente meno valorizzate. Basti pensare che il 70% della superficie terrestre è ricoperta da acqua (di cui il 97% costituito da mare e oceani). In particolare, la potenza sviluppabile dalle onde del mare corrisponde a circa 2 terawatt a livello globale, corrispondenti a circa 18 mila terawattora all’anno, pari a quasi la domanda annuale di elettricità del pianeta. Inoltre, l’energia delle onde del mare è più prevedibile, continua e di maggiore densità energetica rispetto a quella del sole e del vento, essendo disponibile sia di giorno che di notte. In questo contesto di ricerca su come sfruttare l’energia del mare, Eni ha annunciato di aver completato, a circa 800 metri dalla costa dell’isola di Pantelleria, l’installazione del primo Inertial Sea Wave Energy Converter (ISWEC) al mondo collegato alla rete elettrica dell’isola che «Potrà raggiungere i 260 kW di picco di produzione di energia elettrica da moto ondoso. La campagna sperimentale, condotta in reali condizioni di esercizio, porterà a risultati utili per lo sviluppo dei dispositivi di seconda generazione già in fase di studio».
La tecnologia ISWEC, che è parte del piano di decarbonizzazione di Eni, è stata citata dalla Commissione europea nella sua strategia per le energie rinnovabili offshore come esempio chiave di convertitore di energia da onde. L’installazione di ISWEC a Pantelleria è il primo passo verso la decarbonizzazione dell’isola, in linea con l’agenda di transizione energetica.
Sviluppata da Eni in collaborazione con il Politecnico di Torino e Wave for Energy s.r.l. (spinoff dello stesso ateneo), ISWEC è una tecnologia innovativa nell’ambito delle soluzioni per la produzione di energia rinnovabile offshore capace di convertire il moto delle onde in elettricità. Al Politecnico di Torino spigano che «Si tratta di un dispositivo altamente tecnologico in grado di fornire energia a infrastrutture offshore, isole minori off-grid e comunità costiere. Il design di ISWEC è in grado di adattarsi alle condizioni meteomarine tipiche del sito di installazione, mediante un algoritmo genetico che sfrutta l'elevata potenza di calcolo disponibile presso l’Eni Green Data Center (GDC) di Ferrera Erbognone. La macchina consiste in uno scafo in acciaio, di dimensioni 8x15m che ospita Il sistema di conversione dell’energia, costituito da due unità giroscopiche dipiù di 2 m di diametro ciascuna. Il dispositivo è mantenuto in posizione, in un fondale di 35 m, da uno speciale ormeggio di tipo autoallineante in base alle condizioni meteo-marine, composto da tre linee di ormeggio e uno swivel (giunto rotante) mentre l’energia elettrica prodotta è portata a terra mediante un cavo elettrico sottomarino».
Un ulteriore vantaggio di questa tecnologia è la notevole riduzione dell'impatto paesaggistico: il dispositivo emerge solamente per circa 1 metro sopra il livello dell’acqua. Inoltre, ISWEC si può integrare perfettamente con altre soluzioni di produzione di energia rinnovabile in ambito offshore, come ad esempio l’eolico, in termini sia di valorizzazione dei sistemi di connessione alla rete elettrica sia di integrazione all’interno di un’area di mare, massimizzando la conversione di energia disponibile.
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La Spagna chiede agli Usa di rimuovere i terreni contaminati da un incidente nucleare di 57 anni fa (VIDEO)

incidente nucleare di 57 anni fa

Il 17 gennaio 1966, in piena Guerra Fredda e in pieno regime fascista franchista, un bombardiere B-52 e un aereo cisterna KC-135  degli Stati Uniti si scontrarono in volo durante una manovra di rifornimento, provocando il distacco di 4 bombe nucleari e la morte di 7 degli 11 membri degli equipaggi. Ognuna delle bombe nucleari sganciate in mare aveva un potenziale distruttivo 70 volte maggiore di quelle che cancellarono le città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki .
Le  immagini (che pubblichiamo) del bagno che l'allora ministro dell'Informazione spagnolo, Manuel Fraga, l’ambasciatore statunitense e altre e ad altre autorità locali franchiste  fecero poco dopo l’incidente sulla spiaggia di Palomares, per convincere la popolazione che non c’era nessun pericolo di radiazioni, sono rimaste nella memoria collettiva della Spagna.
Ma gli Usa non solo non avevano rispettato la popolazione della zona che – con la complicità attiva del regime franchista -  non era stata evacuata o minimamente protetta, ma anche i propri soldati. Un’inchiesta pubblicata dal New York Times nel 2016 rivela che dei 40 soldati che hanno partecipato alla decontaminazione della spiaggia di Palomares dopo la caduta accidentale di quattro bombe termonucleari, «Almeno 21 di loro soffrono di cancro e altri 9 sono già morti per questa stessa malattia».
Anche se non ci fu nessuna esplosione nucleare, in una ricostruzione fatta da Ecologistas en Acción, pubblicato in occasione del 50esimo anniversario della catastrofe si legge riguardo alle bombe che «Una è caduta  in mare e un’altra ha visto la sua caduta attutita dal paracadute, mentre le altre due hanno colpito il suolo, il che ha fatto esplodere il loro esplosivo convenzionale e il plutonio che contenevano bruciare e incendiarsi, diffondendosi su tutto il territorio sotto forma di aerosol. Dopo la caduta delle bombe è stata effettuata una rapida operazione di pulizia per rimuovere la contaminazione più superficiale. Lo scopo era quello di ridurre il più possibile la radioattività ambientale, senza troppe complicazioni, impedendo a chiunque di conoscere dettagli sulle caratteristiche delle bombe».
Ma per molto tempo, sia negli ultimi anni della dittatura franchista e poi con i governi democratici, quell’incidente nucleare rimase sepolta nel silenzio istituzionale, anche se nel 2018 il Consejo de Seguridad Nuclear ha pubblicato  un elenco delle aree della Spagna con contaminazione radioattiva  e in testa a tutte c’è proprio Palomares.
Ora il governo di sinistra spagnolo ha chiesto a Washington di procedere  finalmente alla rimozione del suolo contaminato da due delle 4 bombe nucleari statunitensi cadute nel 1966 e che, nonostante il bagno rassicurante del ministro e dell’ambasciatore, avevano disperso il loro carico utile di plutonio e contaminato l'area. Già diversi anni fa Ecologistas en Acción denunciava che «Il territorio di Palomares continua ad essere  il luogo più contaminato dal plutonio in Europa» e che «Studi svolti dal Centro de Investigaciones Energéticas, Medioambientales y Tecnológicas (CIEMAT)  Centro per la ricerca energetica, ambientale e tecnologica (CIEMAT) hanno dimostrato che nella zona esiste mezzo chilo  di plutonio  distribuito su una superficie di terreno contaminato di circa 60 ettari, in quattro aree». Secondo l’associazione ambientalista spagnola, «La contaminazione raggiunge  in alcuni punti profondità di 6  metri  e, in totale, bisognerebbe rimuovere circa  50.000 metri quadrati di terreno per ripulire il territorio».
Secondo El País , quello di Palomares questo è il più grande incidente nucleare della Guerra Fredda in Spagna e ha irradiato circa 50.000 metri cubi di terreno con mezzo chilo di materiale tossico. Già nel 2015, Madrid e Washington avevano aggiunto un accordo politico non vincolante con il quale gli Usa  accettavano di ritirare il terreno radioattivo spagnolo e di trasferirlo nel deserto del Nevada. Ma quel memorandum d’intesa non è stato mai attuato e a Palomares resta la contaminazione.
Secondo Francisco Castejón, fisico nucleare e portavoce di Ecologistas en Acción, «Le radiazioni di Palomares sono diventate di per sé un esperimento. Non dobbiamo dimenticare che uno dei responsabili dei controlli che era il dottor Lanham, noto anche come “Dottor Plutonium”, che stava ottenendo dati sugli effetti delle radiazioni sulle persone colpite, sui soldati e sulla popolazione. Iniettava plutonio nei carcerati... insomma: la verità è che oggi non si sa quale sia stato l'impatto delle radiazioni sulla popolazione in quel momento, perché le cartelle cliniche dei pazienti sono scomparse dall'archivio della vecchia  Junta de Energía Nuclear negli anni ‘80. Questi file avrebbero permesso di estrarre informazioni sugli effetti delle radiazioni sulla salute della popolazione locale, ma sono scomparsi. Dopo l'incidente, tra le 150 e le 200 persone all'anno sono passate attraverso la  Junta de Energía Nuclear per l'analisi della contaminazione. E i risultati sono stati registrati nei loro file... e ora quei file non esistono più. Non abbiamo idea sul perché siano scompsarsi. Ci è stato semplicemente detto che non sono lì, che sono stati persi. Ovviamente. è abbastanza sorprendente».
Già nel 2016 Castejón riteneva che «Non sia più così pericoloso vivere a Palomares, perché i terreni contaminati sono recintati, ma potrebbe esserlo ancora per due motivi: da un lato, la contaminazione viene dispersa dal vento, dall'acqua e dagli animali che possono entrare e uscire dal terreno recintato... e dall'altro succede che un isotopo di plutonio finisce per trasformarsi in americio 241, che è molto più radiotossico e, con il passare del tempo, il pericolo aumenta. importa, il tempo gioca una partita totalmente contro di noi».
Ora, a più di cinquant'anni dopo la caduta accidentale delle bombe termonucleari, il Ministero degli esteri spagnolo ha presentato una richiesta ufficiale agli Stati Uniti perché avviino la bonifica della terra radioattiva. In realtà la richiesta sarebbe stata avanzata dalla Spagna qualche mese fa alla Segreteria di Stato Usa che ha passato la patata bollente al Dipartimento dell'energia dell'amministrazione Biden.
Le fonti spagnole dicono che da parte di Washington non c'è stata ancora una risposta ma assicurano che l'accoglienza iniziale della richiesta è stata positiva.
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Risparmiare energia ed evitare emissioni di CO2 grazie all’avvio a riciclo dei rifiuti

foto conou aiee consorzi rifiuti co2

Si è svolto oggi a Roma il convegno “Il ruolo dell’economia circolare nella politica energetica europea” promosso dal Conou – il Consorzio nazionale oli usati – e dall’Aiee, l’Associazione economisti italiani dell’energia, offrendo un focus sul ruolo dell’economia circolare nella lotta alla crisi climatica in corso.
Si stima che il 70% delle emissioni globali di gas serra sia legato all’estrazione e all’uso delle materie prime, dunque massimizzare il ricorso a materie prime seconde, ovvero provenienti da riciclo, permette una robusta azione di mitigazione del riscaldamento globale.
Non solo: ridurre la dispersione di rifiuti, migliorare la capacità di recupero e riciclo di materia e accrescere la sostenibilità dei prodotti sono gli interventi strategici da mettere in campo anche per consentire la riduzione del fabbisogno di energia, com’è emerso dai dati portati al convegno da cinque Consorzi nazionali per la gestione dei rifiuti: Conou, Ricrea, Coreve, Erion ed Ecopneus.
Più nel dettaglio, il Conou nel 2021 ha avviato a rigenerazione 186mila ton di oli usati, con un risparmio sulle importazioni di petrolio di oltre 80 milioni di euro (1,5 mln di barili) ed evitando l’emissione di circa 90 mila tonnellate di CO2eq; Ricrea nel 2021 ha avviato a riciclo 390mila tonnellate di rifiuti di imballaggio in acciaio, permettendo di evitare l’emissione di 538mila tonnellate di CO2eq; grazie al recupero di 2.182.858 tonnellate di vetro, nel 2021 Coreve ha evitato l’emissione di 2,4 milioni di tonnellate di CO2eq; Erion ha gestito il recupero di 246.964 tonnellate di rifiuti elettrici ed elettronici (Raee), evitando emissioni di CO2eq per 1,7 milioni di tonnellate; Ecopneus ha recuperato nel 2022 231.727 tonnellate di pneumatici fuori uso (Pfu), per minori emissioni di CO2eq pari a 310.000 tonnellate.
«L'Italia, come paese tradizionalmente dipendente dalle importazioni di energia e di materie prime, è stato sempre costretto a fare di necessità virtù ed ha saputo acquisire una posizione d'avanguardia in questo campo. I consorzi come Conou – commenta il vicepresidente dell’Aiee, Carlo Di Primio – sono uno degli esempi virtuosi di questa attitudine che coordina l'impegno dell'industria, dei consumatori, delle istituzioni. E devono costituire un fattore d'impulso e riferimento per il percorso che occorre ancora fare per una gestione efficace dei rifiuti».
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Edf, Edison e Ansaldo siglano un accordo per portare il «nuovo nucleare» in Italia

nuovo nucleare epr edf

Senza dare al momento troppo nell’occhio, lo Stato italiano e quello francese hanno lanciato un’alleanza per provare a far tornare l’energia nucleare nel Bel Paese, puntando al contempo ad aumentarne la diffusione nel resto d’Europa.
Il gruppo Ansaldo (dove il ministero dell’Economia ha un ruolo determinante tramite la partecipazione di Cdp), Edison (controllata da Edf) ed Edf (controllata dallo Stato francese, nonché primo produttore di energia nucleare al mondo) hanno infatti siglato una lettera d’intenti per «collaborare allo sviluppo del nuovo nucleare in Europa e favorirne la diffusione, in prospettiva anche in Italia».
«Obiettivo dell’accordo – spiegano le tre società – è di valorizzare nell’immediato le competenze della filiera nucleare italiana, di cui Ansaldo nucleare è capofila, a supporto dello sviluppo dei progetti di nuovo nucleare del gruppo Edf, e al contempo di avviare una riflessione sul possibile ruolo del nuovo nucleare nella transizione energetica in Italia».
In particolare, i tre firmatari della lettera d’intenti «si impegnano a verificare le potenzialità di sviluppo e di applicazione del nuovo nucleare in Italia, date le crescenti esigenze di sicurezza e indipendenza energetica del sistema elettrico italiano».
Non è ben chiaro quale sia il «nuovo nucleare» cui si fa riferimento nell’accordo, perché le tecnologie cui si accenna sono in realtà discusse già da decenni: gli European pressurized water reactor (Epr) e gli Small modular reactor (Smr).
Un ottimo esempio della tecnologia Epr è fornito dalla centrale nucleare di Flamanville 3, un progetto che Edf sta cercando di concludere su suolo francese dal 2007: avrebbe dovuto completarsi in 6 anni, mentre l’attuale stima è di 15 anni. In compenso «il progetto prevedeva un costo dell’impianto di 3,3 miliardi di euro, che sarà di 12,4 miliardi secondo Electricité de France (Edf); ma la Corte de Conti francese ha rifatto il calcolo e ha detto che sarà di 19,1 miliardi di euro. Quasi sei volte tanto», come sottolinea l’esperto di energia e già docente di Fisica del reattore nucleare Giovanni Battista Zorzoli.
In merito agli Small modular reactor, invece, la situazione è ancora più aleatoria: «Parliamo di reattori dei quali si è iniziato a parlare negli anni Ottanta del secolo scorso e attualmente sono in esercizio giusto tre prototipi. Uno che non produce elettricità, uno in Russia molto discusso perché installato su una piattaforma galleggiante, mentre il terzo è in Cina e se ne sa molto poco».
Ciononostante, non sorprende la scelta di approfondire il «ruolo del nuovo nucleare nella transizione energetica in Italia», dato che la maggioranza politica che sostiene il Governo Meloni si è espressa più volte a favore.
Ignorando così sia l’esito di due referendum popolari, sia i profili di insostenibilità ambientale ed economica che suggeriscono di non puntare sul nucleare per decarbonizzare il mix energetico italiano; se è vero che le fonti rinnovabili intermittenti (come eolico e solare) necessitano di tecnologie aggiuntive per poter coprire in modo efficace la domanda di energia baseload del Paese, questo è un obiettivo che può essere più agevolmente raggiunto investendo in sistemi di accumulo e in fonti rinnovabili non intermittenti (teoricamente la geotermia, da sola, potrebbe coprire il quintuplo del fabbisogno nazionale di energia).
In ogni caso, è difficile dirsi quanto la lettera d’intenti firmata da Ansaldo, Edison ed Edf avvicini davvero l’ipotesi di un ritorno nucleare in Italia. Anche perché quando si passa dagli slogan politici alle ipotesi di localizzazione impiantistica, neanche lo stesso Governo Meloni sembra credere più di tanto alla boutade.
Basti osservare cosa sta accadendo al Deposito unico nazionale dei rifiuti radioattivi, un’infrastruttura indispensabile per gestire in sicurezza tutti i rifiuti di questo tipo che abbiamo prodotto e che continuiamo ancora adesso a generare (ad esempio nei settori della medicina nucleare e dell’industria) nel nostro Paese.
L’iter per la realizzazione del Deposito è iniziato nel 2010, durante il Governo Berlusconi IV, ed il completamento è atteso per il 2025; di fatto, ad oggi non è stata resa nota neanche la Carta nazionale delle aree idonee, tanto che il Governo Meloni ne ha fatto slittare la pubblicazione «verosimilmente entro il corrente anno», mentre il Deposito vero e proprio potrebbe entrare in esercizio nel 2030. Ovvero lo stesso anno per cui il leader della Lega Matteo Salvini fantasticava, in campagna elettorale, il completamento della prima centrale nucleare italiana.
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I cani randagi di Chernobyl, sopravvissuti al disastro nucleare (VIDEO)

i cani di CHernobyl

Il 26 aprile 1986 due esplosioni squarciarono la centrale nucleare di Chernobyl (CNPP), allora nell’Ucraina sovietica, casando il più grande disastro nucleare civile che costrinse migliaia di persone a fuggire dall’area più contaminata, lasciandosi dietro case, cose e  gli animali domestici. Nei giorni successivi al disastro, le squadre di intervento  - i famosi liquidatori - hanno cercato i cani abbandonati e randagi per ucciderli ed evitare che diffondessero la radioattività.
Ma alcuni di quei cani sembrano essere sopravvissuti e il nuovo studio “The dogs of Chernobyl: Demographic insights into populations inhabiting the nuclear exclusion zone”, pubblicato su Science Advances da un team di ricercatori statunitensi, ucraini e polacchi, è il risultato della prima ricerca genetica su cani di Chernobyl e, quindi, su un grande mammifero che vive nell'area vietata e il primo passo di un progetto più ampio per determinare come i cani si sono adattati per sopravvivere in uno dei luoghi più radioattivi della Terra. Gli scienziati sperano di utilizzare le conoscenze acquisite per comprendere meglio gli effetti dell'esposizione alle radiazioni a lungo termine sulla genetica e sulla salute umana.
Intanto dallo studio pubblicato su Science Advances emerge che «Il DNA raccolto dai cani rinselvatichiti che vivono oggi vicino alla centrale elettrica rivela che sono i discendenti di cani che erano presenti al momento dell'incidente o che si erano stabiliti nell'area poco dopo».
I ricercatori evidenziano che «In questo studio, caratterizziamo la composizione genetica dei cani riproduttori liberi che vivono all'interno e intorno al sito del disastro nucleare di Chernobyl del 1986. Precedenti studi hanno dimostrato che i due più grandi disastri nucleari della storia, verificatisi al CNPP nel 1986 e alla centrale nucleare di Fukushima Daiichi nel 2011, hanno entrambi portato a enormi conseguenze ecologiche per la fauna selvatica e gli animali domestici (16-18 ) . Tuttavia, a Chernobyl è stata rilasciata molta più radioattività che a Fukushima, compreso circa sei volte più cesio-137, un radionuclide di lunga vita con un'emivita di oltre 30 anni».
Una delle autrici dello studio, Elaine Ostrander del National Human Genome Research Institute del  National Institutes of Health Usa, sottolinea in un’intervista a Nature che «Abbiamo così tanto da imparare da questi animali. Questa è un'occasione d'oro per vedere cosa succede quando generazioni di grandi mammiferi vivono in un ambiente ostile».
Gli impatti immediati dell'incidente di Chernobyl sono stati evidenti: circa 30 persone che lavoravano alla centrale elettrica e vigili del fuoco e liquidatori sono morti per avvelenamento da radiazioni entro pochi mesi dalla catastrofe, ancora di più per cancro negli anni successivi. Nelle zone intorno alla centrale esplosa i pini sono appassiti e molte specie di insetti sono scomparse, incapaci di sopravvivere nel suolo radioattivo.
Quello che è meno chiaro è come i bassi livelli di materiale radioattivo persistente dopo il disastro colpiscano oggi le piante e gli animali che vivono nei dintorni di Chernobyl. Una manciata di studi ha riportato tassi di mutazione genetica insolitamente elevati nelle rondini e nei moscerini della frutta nelle vicinanze del reattore, che ora è sepolto in un sarcofago di acciaio e cemento. «Ma – ricorda David Brenner, un biofisico delle radiazioni alla Columbia University che non ha partecipato al nuovo studio - gli effetti sulla salute dei bassi livelli di radiazioni sono ancora oggetto di accesi dibattiti. Questo è importante perché le persone rischiano l'esposizione a basse dosi di radiazioni in tutti i tipi di contesti, anche attraverso determinate scansioni mediche o mentre lavorano in centrali nucleari. E’ davvero difficile capire gli effetti di questo tipo di esposizione, ma è piuttosto importante che lo facciamo».
E’ stato questo uno dei fattori che nel 2017 ha portato l’autore senior dello studio, Timothy Mousseau, Department of biological sciences dell’università della South Carolinaa unirsi a una missione di volontariato per fornire assistenza veterinaria alle centinaia di cani randagi che vivono nella zona di esclusione, un'area di 2.600 Km2 attorno alla centrale nucleare dove è limitato l'accesso per motivi di sicurezza e da dove i militari russi che hanno invaso l’Ucraina nel 2022 si sono ritirati rapidamente dopo che i soldati hanno cominciato ad ammalarsi in massa.
In tre anni di viaggi nell'area di Chernobyl, Mousseau e i suoi colleghi hanno raccolto campioni di sangue da circa 300 cani che vivevano accanto alla centrale nucleare e intorno alla città di Chernobyl e l'analisi del DNA dei cani ha rivelato che, a differenza di lupi e orsi e di altri animali che sono ritornati nell’area dalla quale erano scomparsi prima del disastro, i cani randagi «Non erano nuovi arrivati ​​nella zona».
Confrontando i profili genetici dei cani di Chernobyl con quelli di altri cani randagi che vivono nell'Europa orientale, il team ha scoperto che «I canidi nelle vicinanze della centrale elettrica, alcuni dei quali sono imparentati con razze da pastore, sono rimasti isolati da altre popolazioni canine per decenni» e che, nonostante le preoccupazioni dei funzionari sovietici che i cani di Chernobyl migrassero e diffondessero materiale radioattivo, «La maggior parte di questi animali non si era spostata lontano: quelli che vivono più vicino alla centrale elettrica sono geneticamente distinti dai loro parenti che vivono a pochi chilometri di distanza».
I ricercatori sottolineano anche un altro aspetto: «Coerentemente con studi precedenti, i nostri risultati evidenziano la tendenza dei cani semi-selvatici, proprio come i loro antenati canidi selvatici, a formare branchi di individui imparentati. Tuttavia, i nostri risultati rivelano anche che all'interno di questa regione, piccoli gruppi familiari o branchi di cani in libertà coesistono in stretta vicinanza l'uno con l'altro, un fenomeno in contrasto con la natura generalmente territoriale del più vicino antenato del cane domestico, il lupo grigio. I cani in libertà nelle aree urbane tendono ad adattare la loro territorialità e il movimento quotidiano in risposta agli esseri umani nella regione; generalmente il loro home range è costituito da un piccolo nucleo, dove dormono, e da una zona cuscinetto, dove cercano il cibo. La combinazione dei comportamenti osservati nei cani di Chernobyl e delle loro complesse strutture familiari suggerisce che le popolazioni di cani di Chernobyl violano il presupposto dell'accoppiamento casuale che è inerente a molti modelli genetici di popolazione. Quando si aumenta la specificità del solo luogo di campionamento, ad esempio, considerando solo i cani del CNPP o della stessa città di Chernobyl, rimane l'osservazione della complessa struttura familiare».
Ostrander  fa notare che «La continua presenza dei cani nell'area dimostra che sono stati in grado di sopravvivere e riprodursi, anche mentre vivevano vicino al reattore. Il che è notevole. L'incidente del 1986 ha depositato il micidiale isotopo radioattivo cesio-137 a livelli da 10 a 400 volte più alti vicino alla centrale che nella città di Chernobyl, a soli 15 chilometri di distanza. I campioni di DNA canino sono incredibilmente preziosi perché i cani tendono a condividere molti degli stessi spazi e diete degli esseri umani. Non abbiamo mai avuto l'opportunità di fare questo lavoro su un animale che ci rispecchia così come i cani».
Ma Brenner  avverte che «Scoprire quali cambiamenti genetici nei cani sono causati dalle radiazioni e quali sono causati da altri fattori, come consanguineità o inquinanti non radioattivi, non sarà facile». Il team è consapevole di questi problemi, ma i ricercatori sostengono che «La nostra conoscenza dettagliata degli antenati di questi cani, così come la conoscenza dei livelli di radiazioni a cui diversi cani sono stati storicamente esposti, fornisce un focus group ideale per i nostri studi futuri».
Lo studio conclude: «In modo univoco, ogni singola popolazione [di cani]nella regione di Chernobyl ha sperimentato livelli differenziali di contaminazione che sono ben registrati, fornendo ulteriori vantaggi nella progettazione sperimentale. La nostra identificazione di aplotipi genomici condivisi e l'istituzione di origini moderne rispetto a quelle ancestrali rappresentano un obiettivo per futuri studi genetici sulle firme delle radiazioni. La popolazione di cani di Chernobyl ha un grande potenziale per informare gli studi sulla gestione delle risorse ambientali in una popolazione in ripresa. Il suo più grande potenziale, tuttavia, risiede nella comprensione delle basi biologiche della sopravvivenza animale e, in ultima analisi, umana in regioni ad alto e continuo impatto ambientale».
Intanto, guerra permettendo, Mousseau ha in programma un'altra spedizione di campionamento a giugno. Se la guerra non ha fermato la ricerca, meno turisti “della catastrofe” visitano l’area della centrale nucleare e quindi non lasciano avanzi di cibo e i cani di Chernobyl stanno lottando per cavarsela. Quindi il team di scienziati sta lavorando con l’ONG Clean Future Fund per fornire cibo ai randagi, salvaguardando la sopravvivenza dei cani di Chernobyl - e la loro eredità radioattiva – anche negli attuali durissimi tempi di guerra e nella penuria che seguirà la guerra.
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Accordo Ue da 264 milioni di euro per finanziare 26 centrali fotovoltaiche (255 MW) in Italia

264 milioni di euro per finanziare 26 centrali fotovoltaiche

La Banca Europea per gli Investimenti (BEI), Crédit Agricole Corporate and Investment Bank filiale di Milano (Crédit Agricole CIB), Natixis Corporate and Investment Banking (Natixis CIB) e Reden hanno concluso un'operazione di project financing da 264 milioni di euro per finanziare uno dei più grandi portafogli fotovoltaici in Italia.  La BEI spiega che «Il finanziamento sosterrà la costruzione e la gestione di un massimo di 26 centrali fotovoltaiche con una capacità installata totale fino a 255 MW in tutta Italia. 11 di queste  saranno realizzati nel sud del Paese, 8 nel nord e 7 nel centro Italia. Tutte le centrali saranno operative entro il primo trimestre del 2025 e produrranno circa 470 GWh all'anno di energia elettrica rinnovabile, sufficienti a soddisfare la domanda di oltre 190.000 famiglie italiane».
Un’operazione contribuirà al raggiungimento degli ambiziosi obiettivi di RepowerEU della BEI e degli obiettivi di produzione di energia rinnovabile dell'Italia. Inoltre, si prevede inoltre che questi investimenti nel fotovoltaico eviteranno l’emissione di circa 3,3 milioni di tonnellate di CO2 nel corso della durata della vita utile degli impianti. La Bei specifica che «La maggior parte degli impianti beneficerà della tariffa incentivante prevista dal Decreto FER 1 in quanto sorgerà su terreni industriali e genererà quindi ricavi convenzionati per 20 anni. Per il resto, che sarà costruito su terreni agricoli, il mutuatario - Reden Development Italy - dovrebbe firmare contratti di acquisto di energia elettrica a lungo termine o vendere l'elettricità sul mercato».
Si tratta di un finanziamento classificato come prestito verde secondo i  Green Loan Principles della Loan Market Association e per i partner dell’accordo «E’ un punto di riferimento importante per il settore, in quanto è uno dei più grandi portafogli fotovoltaici greenfield in Italia che combina tariffe incentivanti, contratti di acquisto di energia elettrica a lungo termine e entrate di mercato».
La vicepresidente della BEI  Gelsomina Vigliotti ha commentato: «In qualità di banca climatica dell'Ue, siamo lieti di cofinanziare la costruzione di uno dei più grandi portafogli fotovoltaici greenfield in Italia, che genererà energia rinnovabile sufficiente a soddisfare la domanda di oltre 190.000 famiglie italiane. Questa operazione dimostra ancora una volta il forte impegno della BEI a sostenere il piano REPowerEU e a rendere l'Europa il primo continente a emissioni zero al mondo».
Thierry Carcel, AD di Reden Solar, ha ricordato che «Dopo la nostra decisione strategica di entrare nel mercato italiano nel 2021, questo primo finanziamento per Reden in Italia conferma la nostra forte ambizione di sviluppare la nostra presenza nel Paese e di contribuire attivamente alla crescita verde e alla transizione energetica dell'Italia. Con il supporto del gruppo, il nostro team, con sede a Roma e guidato da Luca Crisi, gestirà la costruzione e la gestione di questo portafoglio. Stanno inoltre già lavorando su ulteriori progetti avanzati per raggiungere più di 1 GW di capacità installata in Italia entro il 2027».
Jamie Mabilat, Country Head di Crédit Agricole CIB in Italia, ha sottolineato che «In qualità di banca di relazione chiave di Reden, siamo lieti di supportare l'espansione dell'azienda nel mercato italiano e i suoi ambiziosi piani di crescita. Questa transazione dimostra il forte impegno di Crédit Agricole CIB per la transizione energetica e la nostra posizione di leader nel mercato dei prestiti verdi. Vorremmo anche ringraziare il management di Reden per la fiducia dimostrata nell'affidare a Crédit Agricole CIB la guida di questa operazione molto importante.
Guido Pescione, Country Head della filiale milanese di Natixis CIB, ha aggiunto: «Siamo orgogliosi di essere stati incaricati come unico sottoscrittore della prima iniziativa greenfield di Reden in Italia. Questa straordinaria transazione dimostra ulteriormente gli sforzi di Natixis per sostenere lo sviluppo delle energie rinnovabili nella transizione verde e i suoi valori ambientali e di sostenibilità».
Tutti gli impianti saranno interamente di proprietà di Reden Development Italy Srl, che fa parte del Gruppo Reden Solar recentemente acquisito dal Mandel Consortium, la cui maggioranza è detenuta dal principale fondo di investimento globale Macquarie. La filiale italiana di Reden si occuperà anche dei lavori di costruzione e delle attività di gestione e manutenzione.
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Senza politica industriale a rischio il 48% della produzione italiana di batterie

produzione batterie europa

Mentre l’Unione europea continua a reinviare il via libera definitivo ad una mobilità a emissioni zero – per auto e furgoni – a partire dal 2035, anche grazie alle pressioni messe in campo dal Governo italiano, la nascente industria delle batterie guarda alle opportunità garantite sull’altra sponda dell’Atlantico.
Una nuova analisi di Transport & Environment (T&E) documenta infatti che quasi la metà (48%) della produzione di batterie agli ioni di litio pianificata oggi in Italia rischia di andare incontro a ritardi, di essere ridimensionata o addirittura cancellata.
Emblematico il caso di Italvolt: «Il progetto inizialmente previsto a Scarmagno vicino Torino potrebbe subire ritardi o venire ridimensionato a favore del suo gemello Statevolt in California. Al momento sullo stabilimento che dovrebbe sorgere in Piemonte persistono incertezze in merito ai finanziamenti e ai permessi necessari alla costruzione».
Ma non si tratta di rischi che riguardano solo l’Italia, anzi. In tutta Europa sia a rischio il 68% della capacità produttiva di batterie agli ioni di litio prevista per i prossimi anni. A determinare questa situazione è soprattutto  l’Inflation reduction act (Ira), la legge approvata da Washington per attirare la produzione di tecnologie verdi, in assenza di equivalenti strumenti comuni di sostegno finanziario da parte dell’Ue.
T&E ha analizzato la situazione delle 50 gigafactory annunciate in Europa, mostrando come 1,2 TWh di produzione europea di batterie, in grado di equipaggiare 18 milioni di auto elettriche, sia attualmente ad alto o medio rischio di interruzione o delocalizzazione.
A rischiare maggiormente di veder svanire la capacità industriale attualmente prevista sono Germania – Tesla ha già dichiarato che concentrerà la fabbricazione di celle negli Stati Uniti per sfruttare gli incentivi dell’Ira, piuttosto che nella gigafactory di Berlino – Ungheria, Spagna, Italia e Regno Unito.
«I piani industriali per la produzione di batterie nella Ue sono sotto il fuoco incrociato di Stati Uniti e Cina – commenta Carlo Tritto, policy officer di T&E Italia – Per competere efficacemente, l'Unione Europea deve dotarsi subito di una politica industriale verde incentrata sulle batterie, fornendo un robusto sostegno per aumentarne i volumi di produzione. In caso contrario si rischia di accumulare un ritardo che potrebbe tradursi in una pesante sconfitta industriale».
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L’università di Pisa, i cinesi e l’intelligenza artificiale sostenibile

intelligenza artificiale sostenibile

L’obiettivo dello studio “Echo state graph neural networks with analogue random resistive memory arrays”, era quello di contribuire a una intelligenza artificiale sostenibile e progettare reti neurali artificiali a basso impatto energetico.
Lo studio è stato pubblicato su Nature Machine Intelligence  da un team di studiosi delle più importanti università cinesi e di Hong Kong e da un unico italiano: Claudio Gallicchio del Dipartimento di informatica dell’università di Pisa che spiega: «In questo studio abbiamo dimostrato come sia possibile progettare reti neurali artificiali che possano essere addestrate ed eseguite su sistemi hardware non-convenzionali, ottenendo risultati predittivi comparabili con quelli ottenibili con le unità di elaborazione grafica (GPU) e al tempo stesso riducendo il consumo energetico fino a oltre 40 volte».
La ricerca ha riguardato la progettazione congiunta hardware-software di reti neurali artificiali per grafi, una classe di metodologie informatiche all’avanguardia, utili a risolvere problemi in domini complessi come l’analisi delle reti sociali e la scoperta di nuovi farmaci.
Gallicchio evidenzia che «Da un punto di vista informatico gli algoritmi proposti sfruttano una tecnica basata sulla teoria dei sistemi dinamici neurali, nota come Reservoir Computing, per ridurre al minimo la richiesta di calcolo degli algoritmi di addestramento. Da un punto di vista fisico, le reti neurali vengono implementate in random resistive memory arrays, nanodispositivi neuromorfici caratterizzati da un’elevatissima efficienza energetica».
I risultati conseguiti sono stati possibili grazie ad una collaborazione interdisciplinare che ha mostrato i vantaggi della realizzazione di algoritmi di apprendimento automatico in hardware neuromorfico, indicando così una direzione promettente per i sistemi di Intelligenza Artificiale di prossima generazione.
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Il conflitto ha accelerato la transizione energetica. Ma ora da che parte si va?

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Il 24 febbraio 2022 Vladimir Putin dava ufficialmente inizio all’invasione dell’Ucraina, sconvolgendo l’equilibrio internazionale e trent’anni di relativa pace nel continente europeo. La mossa era stata pianificata con attenzione, almeno per quanto riguarda il settore dell’energia, da mesi, se non anni. Su queste colonne, a settembre 2021, vi abbiamo dato conto della strategia russa per […]