
Ravanello selvatico: alla riscoperta delle ramoracce (che puoi anche mangiare)
C’è un’erba selvatica che profuma di campagna, di mani ruvide e di gesti antichi. Nei mercati dei Castelli Romani compare ancora, timida ma tenace, con le foglie verdi e pelose. La chiamano ramoraccia, o forse ramoraccio, ramuraccia, ramolaccio, tanti nomi per un solo protagonista. Il nome botanico è Raphanus raphanistrum, ossia il ravanello selvatico. Cresce...
C’è un’erba selvatica che profuma di campagna, di mani ruvide e di gesti antichi. Nei mercati dei Castelli Romani compare ancora, timida ma tenace, con le foglie verdi e pelose. La chiamano ramoraccia, o forse ramoraccio, ramuraccia, ramolaccio, tanti nomi per un solo protagonista. Il nome botanico è Raphanus raphanistrum, ossia il ravanello selvatico. Cresce spontanea nei campi, tra i filari abbandonati e gli argini di terra, lì dove l’occhio distratto vede solo le sterpaglie.
Eppure, quella pianta che la scienza considera “terofita scaposa”, per la cucina popolare del Lazio è un ingrediente prezioso. Anzi, un vero e proprio pilastro. Le foglie – e solo quelle – finiscono nei piatti. Non le radici, che restano nel terreno o si gettano via. Le foglie, invece, ricordano per sapore quelle del broccoletto, anche se più gentili, meno aggressive e molto più versatili.
Una storia che affonda nei secoli
Ritratto di Plinio il Vecchio @wikipedia
I ramoracci non sono una scoperta recente, visto che già gli antichi Romani li conoscevano. O, meglio, li snobbavano, perché le foglie erano considerate “cibus illiberalis”, cibo da
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