Categoria Arte

Orizzonti tremanti: Olafur Eliasson torna a Torino con sei nuove installazioni immersive

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Olafur Eliasson fa il bis. Mentre è ancora in corso la grande mostra di Palazzo Strozzi, l’artista scandinavo conquista Torino con una nuova serie di installazioni. Luci e colori trasformano la Manica Lunga del Castello di Rivoli in un paesaggio immersivo, che gioca con i sensi, lo spazio e il tempo sfidando le percezioni del pubblico. “In Orizzonti tremanti”, racconta la curatrice Marcella Beccaria, “Eliasson ci invita ad aprire il nostro sguardo oltre i confini del visibile, dalla vertigine dello spazio profondo all’emozione dell’incontro con noi stessi e i nostri paesaggi interiori. Coinvolgendo corpo e mente, le sue opere contribuiscono a rendere percepibile il ruolo di ciascuno nella produzione della realtà e nella costruzione di questo instabile presente”. Nello studio di Olafur Eliasson, testando le proiezioni di luce, 2019. Foto Maria Pilar Garcìa Ayensa / Studio Olafur EliassonNei Kaleidorama fasci di luce elettrica si riflettono in bacini d’acqua e sistemi di lenti, dando origine a mondi di linee, forme e motivi da percorrere e abitare. Temi o stati d’animo differenti caratterizzano le singole installazioni, dal Kaleidorama curioso e quello riflessivo, esitante, potente, fino al Kaleidorama vivente e alla Memoria del Kaleidorama. Oggetti ibridi e mutanti, i Kaleidorama sono il frutto delle ultime sperimentazioni condotte da Eliasson a Berlino e nascono da un incrocio tra i dispositivi ottici del caleidoscopio e del panorama. Queste opere “usano l’effetto specchio del caleidoscopio per evocare spazi panoramici o paesaggistici che sembrano più grandi del luogo fisico in cui vengono mostrati”, spiega l’artista: “Aprono nuovi orizzonti grazie alle loro superfici specchianti, spalancando spazi in cui si incontrano onde, linee dell’orizzonte, riflessi, bande di luce diffratte nei colori dello spettro visibile, e le ombre moltiplicate, la tua e quella degli altri visitatori. Stando all’interno dei Kaleidorama, ci si sente come di fronte al tempo mentre si svolge. È un’opportunità per riconsiderare il nostro senso della proporzione e del tempo, come quando si guardano le immagini di un telescopio, uno spazio profondo ai confini della nostra immaginazione”. Esperimenti di luce per la mostra "Orizzonti tremanti" al Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, 2022. Foto Tegan Emerson I Courtesy Studio Olafur EliassonLa dimensione sensoriale incontra le istanze ecologiche - altro tema centrale nella ricerca di Eliasson - nell’opera Your non-human friend and navigator, che segna il culmine del percorso torinese. In parte sospesa nell’aria, in parte distesa sul pavimento, l’installazione è composta da driftwood, tronchi trasportati dal mare e logorati dall’azione degli elementi che l’artista ha raccolto sulle spiagge dell’Islanda, dove spesso approdano resti di legname partiti da paesi lontani. Una calamita orienta la parte sospesa dell’opera lungo l’asse Nord-Sud, mentre a terra le sottili velature di acquerello applicate sul legno rievocano l’azione dell’acqua e delle correnti che lo hanno sospinto per migliaia di chilometri. “L’opera di Olafur Eliasson contiene echi dell’Arte povera, in particolare di Giuseppe Penone, Pier Paolo Calzolari, Giovanni Anselmo e Marisa Merz”, osserva il direttore del museo Carolyn Christov-Bakargiev: “Nella sua arte, il pensiero processuale ed ecologico degli anni Sessanta si collega alla visione contemporanea attraverso uno sviluppo organico”. Olafur Eliasson, Navigation star for utopia, 2022. Foto Jens Ziehe In corso al Castello di Rivoli fino al prossimo 26 marzo, Orizzonti tremanti trova una naturale appendice nelle collezioni del museo, dove l’artista ha già esposto due volte: nel 1999, in occasione della sua prima mostra fuori dalla Scandinavia, e nel 2008 durante la Biennale di Torino. Lo testimonia una coppia di installazioni site-specific, allestite negli ambienti per i quali furono originariamente concepite: Your circumspection disclosed (1999) nel mezzanino della Manica Lunga e The sun has no money (2008) nella sala a volta del Settecento. Esperimenti di luce per la mostra "Orizzonti tremanti" al Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, 2022. Foto Tegan Emerson I Courtesy Studio Olafur EliassonLeggi anche: • “Nel tuo tempo”. Al via la grande mostra di Olafur Eliasson a Firenze• Nella Vita Reale: Olafur Eliasson al Guggenheim di Bilbao

Ester Coen racconta Boccioni, il pittore irruento che sfidò i cubisti a colpi di luce e dinamismo

133717 638px States of Mind  The Farewells by Umberto Boccioni 1911
Della chiassosa brigata di artisti italiani a Parigi, desiderosi di sganciarsi dalla tradizione per rinnovare la cultura italiana di quel momento, Umberto Boccioni, stravagante con i suoi pantaloni dalla piega perfetta e i calzini di colori diversi, fu certamente il più vivace e irruento.Marinetti fu la sua scintilla, riuscendo ad accendere in lui quello spirito vitale che definiva la sua personalità, quel desiderio di rompere e di trovare nuovi modi per creare un linguaggio moderno, contemporaneo. Quando, nel 1912, Boccioni e i colleghi futuristi esposero alla Galleria Bernheim Jeune di Parigi, imbracciati i pennelli, si trovarono a sfidare, fino all’ultimo colpo di colore, i colleghi francesi, in primo luogo i cubisti, a casa loro. Questa sfida fu un realtà un reciproco scambio. Lo spiega bene la storica dell’arte Ester Coen, il cui contributo è uno dei preziosi interventi che arricchiscono il documentariodal titolo FORMIDABILE BOCCIONI disponibile in esclusiva su ItsART. Scritto da Eleonora Zamparutti e Piero Muscarà con la regia di Franco Rado, prodotto da ARTE.it Originals in collaborazione con ITsART e Rai Cultura, il documentario ripercorre, a 140 anni dalla nascita, la vita e le opere dell’artista inquieto, primo attore del Futurismo, che dedicò la sua carriera a inventare un nuovo linguaggio contemporaneo per esprimere la modernità in pittura e in scultura. Frame da Formidabile Boccioni | © ARTE.it“Quando i futuristi, nel febbraio del 1912, espongono alla Galleria di Bernheim Jeune - racconta Ester Coen - la loro carica violenta è fortissima, perché devono contrapporsi a un sistema dell'arte che è già ben definito, e cioè a quella pittura francese che, dall’impressionismo in poi attraverso Cézanne, era arrivata a quelle conseguenze di diversificazione pittorica. La violenza, anche fisica, con la quale i futuristi irrompono sulla scena parigina è sicuramente un modo per creare un interesse”. Che cos’è che diversifica il futurismo dal cubismo? “Certamente l'ideale futurista, e cioè il voler rappresentare l'essenza del movimento, il dinamismo, la velocità mostrata in una dimensione statica, riuscire a oltrepassare quella statica visione del dipinto”. In che modo si contrappongono i futuristi ai cubisti? “Secondo Boccioni e i futuristi la visione cubista è una visione ferma, statica, dove l'oggetto viene analizzato in tutte le sue proporzioni secondo una visione tridimensionale. L'oggetto viene frammentato e ricomposto all'interno della superficie, ma è sempre una visione legata a un oggetto fermo che appartiene a una realtà fisica. Quello che i futuristi, e in particolare Boccioni, cercano di rappresentare attraverso una luminosità diversa, attraverso quindi una frammentazione della luce e non attraverso la frammentazione volumetrica dell'oggetto, è invece questo senso di energia, questa carica dinamica, questa carica vitale che deve espandersi proprio dal soggetto e occupare tutta la realtà dell'ambiente circostante”. Umberto Boccioni, Stati d'animo: Quelli che partono, 1912. Museum of Modern Art, New YorkQuando Boccioni va a Parigi incontra Picasso (pare frequentasse il suo studio). Che idea aveva di lui? “Boccioni a Parigi incontra Picasso, ma incontra anche tutti i personaggi della scena artistica parigina. Picasso, insieme a Braque, è una figura direi quasi mitica. Insieme rappresentano quella forza iniziale di rottura di uno schema che ancora appartiene al passato. Boccioni riconosce a Picasso la volontà di rompere con il passato, riconosce la grandezza di questo artista e la grandezza della prima fase cubista alla quale Picasso e Braque sono legati”. E invece che cos’è che Boccioni rimprovera alla pittura cubista? “Il fatto di non andare oltre la realtà oggettiva del mondo reale. Boccioni accusa i cubisti di ricreare un mondo parallelo, ma che non è in realtà molto diverso da quello reale. Rimprovera di non andare oltre l’oggetto, di non creare una visione astratta della realtà. I futuristi invece insistono sull’aspetto delle linee dinamiche di forza, che distruggono la visione esteriore dell’oggetto e della figura umana. La ricerca di universalità da parte di Boccioni e dei futuristi è legata senza dubbio anche alle nuove ricerche scientifiche dell’epoca, si pensi per esempio a Bergson, alla teoria della relatività di Einstein, alla scoperta dei primi studi sull'atomo, agli studi sui raggi X”.Quindi Boccioni non butta proprio tutto della pittura cubista. Qualche elemento lo fa suo… “Apollinaire, nel primo articolo che scrive dopo l'incontro con Boccioni, racconta di avere incontrato questo artista che sta dipingendo il tema delle stazioni…Sarà la prima fase degli Stati d'animo, quella sorta di trittico che Boccioni dipinge tra il 1910 e il 1911 e del quale conosciamo due versioni, una prima direi quasi espressionista dove è la pennellata che guida il senso di direzonalità delle linee. Invece nella versione più nota, oggi al Museum of Modern Art di New York, c'è stato uno sguardo al cubismo dal quale Boccioni fa derivare alcuni elementi, ma comincia già a definire le sue idee sul futurismo. Qui si vede che, sia dal punto di vista formale che stilistico, Boccioni apprende alcuni elementi dalla pittura cubista, ma allo stesso tempo comincia già a definire in modo molto chiaro quelle che sono le sue idee sul futurismo”.Umberto Boccioni, Stati d'animo - Gli addii, 1911, Olio su tela, 71 × 96 cm | Foto: Carrà | Courtesy of Museo del Novecento, Milano Nella seconda versione di Stati d’animo Boccioni riesce invece a definire la sua idea... “La seconda versione degli Stati d’animo è quella più complessa e completa nella quale Boccioni riesce a definire la sua idea. Nel primo dipinto, che è quello legato alla partenza, vediamo linee molto confuse che vanno in tutti i sensi. Questo senso di circolarità di linee di forze raduna all'interno della stazione personaggi che si abbracciano. Al centro notiamo la locomotiva con i numeri, ci sono colori molto vivi, rossi brillantissimi, verdi, azzurri. Enfatizzano la confusione del momento in cui le persone si separano sui binari della stazione. Nel secondo dipinto, Quelli che vanno, le persone si trovano già sul treno e quindi a prevalere è questo senso legato al linearismo della prospettiva che Boccioni vuole dare, una partenza in diagonale con i volti tagliati dalla velocità del movimento del treno, e con l'azzurro a definire il senso della malinconia di questa partenza. Il terzo dipinto, Quelli che restano, raffigura le persone sul binario, ormai distaccate da chi è già andato. Le linee verticali rendono bene questa idea di chi è ancora lì sul binario. E il verde crea questo stato d’animo di abbandono”. Umberto Boccioni, Stati d'animo: Quelli che restano, 1912. Museum of Modern Art, New YorkBoccioni o Picasso ? Chi ha vinto la sfida nel Novecento? “Tutti e due, ma in maniera molto diversa e straordinaria. Se Picasso cerca di uscire dalla realtà per creare una dimensione diversa, per dare una carica oggettiva e per uno studio fenomenologico della della realtà, Boccioni, pur essendo forse più indietro dal punto di vista pittorico-stilistico, è quello che ha una maggiore carica vitale. Quella dimensione teorica che appartiene al futurismo, quella ricerca di un’estasi del moderno, come la definiscono i futuristi, forse è più moderna rispetto a quella di Picasso”.E Parigi? Era pronta ad accogliere i futuristi? “Parigi era più che pronta ad accogliere i futuristi anche se si pone in una posizione più difensiva nei loro confronti. La città brulicava di ricerche di tutti i generi intorno al cubismo. Mondrian, Diego Rivera erano tutti lì a cercare di trovare attraverso il cubismo forme nuove di espressione. I futuristi arrivano a Parigi con tutte le armi possibili per cercare di scalfire quel confine che avevano posto i cubisti e tutto l’ambiente parigino. Ed è proprio questo un motivo centrale per i futuristi per affilare le armi e accrescere la loro violenza, quell’irruenza che mettono in scena anche in Italia nei teatri, per fare presa sul pubblico”. Paris, Montmartre, Frame da Formidabile Boccioni | © ARTE.itParigi (e in qualche modo Picasso) furono quindi una scintilla nell’arte di Boccioni. Perché nel 1912 proprio dopo il viaggio a Parigi a Boccioni viene in mente di dedicarsi alla scultura? “Il manifesto della scultura futurista viene scritto di getto dopo un viaggio a Parigi. Boccioni visita numerosi studi e conosce anche tutta la scultura che viene realizzata in quegli anni, come ad esempio quella di Brancusi o dello stesso Picasso. Era quindi consapevole che le ricerche pittoriche si stavano dirigendo anche verso ricerche plastiche diverse. Questo lo stimola verso la ricerca e l'applicazione di quelle che sono le teorie della velocità, l’idea di rappresentare il dinamismo anche attraverso la scultura”. Per esempio qual è un’opera nella quale compaiono elementi che poi Boccioni trasporterà nella scultura? Materia è un dipinto che - rispetto per esempio a Rissa in galleria o Idolo moderno - ha una costruzione più volumetrica, più plastica. La figura della grande madre è chiaramente ispirata alla figura della madre di Boccioni, figura mitizzata, ideale, molto verticale. La forza che viene impressa nel dipinto è proprio nell'incrocio delle diagonali, nelle mani nodose che sprigionano forza. All'interno di questo quadro troviamo elementi che poi Boccioni trasporterà nella scultura, elementi che fanno parte di una realtà esteriore rispetto alla figura umana, come la balconata, il cavallo che corre in lontananza. Questi elementi verranno trasportati nella scultura tentando di creare un insieme plastico polimeterico che dia l’idea di una sintesi tra la figura e il suo ambiente”. Umberto Boccioni, Materia, 1912. Olio su tela, 226 x 150 cm. Collezione Gianni Mattioli, Museo del Novecento, MilanoChe fine hanno fatto le sculture di Boccioni dopo la sua morte? “È grande mistero. Ci sono in realtà varie versioni. C’è chi afferma che dopo la mostra del 1916 organizzata da Marinetti a Palazzo Cova queste sculture siano state lasciate in un deposito e che quindi siano andate distrutte per le intemperie. C’è invece chi dice che queste sculture siano state affidate allo scultore Pietro da Verona il quale, in un atto di furore, probabilmente quasi a voler nullificare l'opera di Boccioni, le avrebbe distrutte. Marco Bisi - il nipote che era stato adottato dalla sorella di Boccioni - avrebbe recuperato una delle sculture, Bottiglia nello spazio”. Perchè a suo avviso Boccioni è più famoso come scultore che come pittore sebbene le sue sculture siano andate distrutte? Forme uniche della continuità nello spazio è una scultura che propone una dimensione diversa rispetto alla scultura tradizionale. Mentre gli artisti cubisti cercano di ricreare quella particolarità dell'assemblaggio della scultura e della pittura cubista, Boccioni ricerca quell'attenzione dinamica delle masse attraverso l'impulso dinamico. Cerca di sciogliersi dalla dimensione fisica, ma, allo stesso tempo, cerca un aggancio con la realtà esteriore. E questa è una novità straordinaria sia dal punto di vista stilistico che estetico”. Cosa rimane oggi di Boccioni? “Rimane la sua straordinaria vitalità, l'idea di una costruzione architettonica delle masse che ritroviamo per esempio anche nell'architettura contemporanea, basti pensare a Frank Gehry, l'idea di andare oltre la realtà fisica. C’è questo sondare lo spazio, quello sfondare la realtà della tela che ritroviamo nell'opera di Fontana. C'è la dimensione di un aleatorietà della pittura che ritroviamo nelle ricerche degli artisti contemporanei come Olafur Eliasson. Quello lasciato da Boccioni è un segno straordinario, di una ricerca che va al di là dei fenomeni fisici della realtà pur partendo da quegli elementi”. Leggi anche:• In viaggio con Boccioni, I capolavori da ammirare nel mondo• La Collezione Mattioli al Museo del Novecento: il racconto dei protagonisti• Le opere di Boccioni da vedere in Italia

L’arte e i tormenti di Munch in un docufilm

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In una notte d’inverno, davanti al focolare, una giovane donna legge ai bambini una fiaba norvegese. Siamo nella casa di Edvard Munch ad Åsgårdstrand, immersi nel Grande Nord, dove i venti sussurrano, gli orsi trasportano le ragazze sulla schiena, i troll sfoderano malvagi incantesimi. Eppure, quella che vede protagonista Edvard Munch è una favola priva di lieto fine, che si conclude con la morte di sua madre e della sorella Sophie, con la devastante depressione del padre, eventi che segneranno per sempre la vicenda umana e artistica del pennello de L’Urlo. Il docufilm Munch. Amori, fantasmi e donne vampiro, prodotto da 3D Produzioni e Nexo Digital, diretto da Michele Mally che firma la sceneggiatura con Arianna Marelli, al cinema il 7, 8 e 9 novembre, ci invita in sala per guardare con nuovi occhi l’uomo dal fascino profondo e misterioso, precursore e maestro per tutti coloro che vennero dopo di lui. Oltre a gettare nuova luce su Munch, il nuovo docufilm de La Grande Arte al Cinema, distribuito con i media partner Radio Capital, Sky Arte, MYmovies.it e in collaborazione con Abbonamento Musei, è anche un viaggio attraverso la Norvegia di Munch. Un invito rivolto agli spettatori a ricercare le radici e l’identità di un artista universale, a interrogarsi sull’idea di tempo, tema principale e ricorrente nel suo multiforme lavoro. Munch. Amori fanstasmi e donne vampiro - Edvard Munch, Ceneri, Munch, OsloCome racconta la sua biografa, Sue Prideaux, Munch visse ottant’anni travagliati, tra alcolismo, problemi psichiatrici, isolamento. Ma la lettura psicoanalitica della sua opera non basta. Storici dell’arte come Jon-Ove Steihaug, direttore del Dipartimento Mostre e Collezione del Museo MUNCH di Oslo, Giulia Bartrum, per decenni curatrice del British Museum, e Frode Sandvik, curatore del Kode di Bergen, passano in rassegna i temi e le ossessioni presenti nella sua opera, oltre alle abilità artistiche. Le tecniche sperimentali che l'artista ha scelto di adottare nei suoi lavori rendono le sue opere, come spiega la restauratrice Linn Solheim, estremamente fragili, dense di quella ricerca sull’animo umano e del tentativo di tradurre le emozioni su tela o carta.Munch. Amori fantasmi e donne vampiro, Ingrid Bols Il docufilm non trascura l’esperienza, cruciale, della bohème fin de siècle. Come spiega il direttore del Museo MUNCH, Stein Olav Henrichsen, “gli artisti sono sempre in opposizione al proprio tempo, anche se - guardando indietro - li consideriamo rappresentativi di un particolare periodo della storia”. E Munch in opposizione con il suo tempo c’è stato, vivendo da bohémien prima a Kristiania - dove rideva dei morti viventi borghesi insieme allo scrittore anarchico Hans Jæger, al pittore Christian Krohg e alle donne dallo spirito libero che incarnavano una figura femminile indipendente nella società - e in seguito a Berlino, dove si innamora di Dagny Juel, frequentando satanisti e dottori che sperimentano l’uso della cocaina.Il grande schermo analizza anche il complesso rapporto di Munch con le donne, che non si esaurisce solo con le vicende biografiche, come la burrascosa relazione con Tulla Larsen, una delle “Donne Vampiro” che Munch incontrò durante la sua vita e che sparò al pittore durante una lite. Per l’artista trauma e arte, tormento e desiderio si intrecciano e si fondono in maniera incessante in un’intensa riflessione sulla donna: una “sirena” ed enigmatica “sfinge” che, come ha sottolineato anche la scrittrice Gunnhild Øyehaug, attrae e atterrisce l’uomo.Munch. Amori fantasmi e donne vampiro - Edvard Munch, Vampiro, Munch, Oslo I legami più intimi con i paesaggi del Nord e i suoi colori vividi si fanno musica nelle composizioni di Edvard Grieg, che trascorreva le sue estati nella natura della collina di Troldhaugen a Bergen. Il compositore norvegese ha saputo ricreare quella stessa sensazione del “trovarsi a casa”, come anche il pianista Leif Ove Andsnes. In questa continua ripetizione, così come negli esperimenti visivi attraverso il cinema e la fotografia, possiamo trovare - come suggeriscono gli storici dell’arte Elio Grazioli e Øivind Lorentz Storm Bjerke - la chiave per entrare nel tempo di Munch. Un tempo variabile che si dilata verso l’eternoe insieme fissa attimi che diventano successivamente ossessioni.E noi, in qualche modo suoi eredi, accogliamo la sua richiesta di salvezza, una sorta di apertura agli spiriti, ai fantasmi che ci aleggiano intorno. A tessere la storia di Munch sono, nel docufilm, anche gli interventi di Erik Höök, direttore dello Strindbergsmuseet di Stoccolma, della soprano e imprenditrice Siri Kval Ødegård, di Carl-Johan Olsson, curatore Pittura del XIX secolo al Nationalmuseum di Stoccolma, e la colonna sonora del film, che include brani di repertorio, come quelli del compositore e organista norvegese Iver Kleive. A firmare le musiche originali del film - che saranno contenute sull’album Munch. Love, ghosts and lady vampires – Music insipired from the film, in uscita a novembre su etichetta Nexo Digital e distribuzione Believe Digital - è invece il musicista e compositore Maximilien Zaganelli.Munch. Amori fantasmi e donne vampiro. Edvard Munch, Autoritratto, Munch, Oslo

Cento capolavori per una grande storia: i 25 anni della Fondation Beyeler

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Entrano nel vivo le celebrazioni per i 25 anni della Fondation Beyeler. Dopo due importanti mostre dedicate alla pittrice americana Georgia O’Keeffe e al maestro dell’astratto Piet Mondrian, il museo svizzero punta i riflettori sulla propria collezione permanente in un allestimento senza precedenti.  Fino all’8 gennaio, nell’elegante edificio progettato da Renzo Piano e Peter Zumthor, potremo ammirare in un solo colpo un’impressionante selezione di capolavori, per un totale di 100 pezzi e oltre 30 artisti in mostra.Fondation Beyeler, Jubilaeums Ausstellung. Photo Mark Niedermann I Courtesy Fondation Beyeler Opere di Vincent Van Gogh, Claude Monet, Paul Cézanne, Henri Rousseau introducono i gioielli modernisti di Henri Matisse, Pablo Picasso, Alberto Giacometti, in un viaggio attraverso il meglio dell’arte del Novecento che includerà Mark Rothko, Andy Warhol, Francis Bacon, Louise Bourgeois, fino a icone del contemporaneo come Marlene Dumas, Anselm Kiefer, Roni Horn, Felix Gonzalez-Torres, Tacita Dean, Rachel Whiteread, Wolfgang Tillmans. Lungo tutto il percorso della mostra, le sculture iperrealistiche dell’artista statunitense Diane Hanson sorprenderanno i visitatori da posizioni impreviste, instaurando dialoghi inattesi con i tesori e gli spazi della Fondation Beyeler.Fondation Beyeler, Jubilaeums Ausstellung. Photo Mark Niedermann I Courtesy Fondation Beyeler Il risultato è un’esplorazione a tutto tondo di una delle più prestigiose raccolte europee di arte moderna e contemporanea, messa insieme in 50 anni da una coppia di collezionisti che a questo progetto ha dedicato la vita. Circa 400 pezzi compongono oggi la collezione di Ernst e Hildy Beyeler, che nel 1997 hanno deciso di renderla accessibile a tutti con un’idea molto chiara: creare un museo aperto e vivace che potesse trasmettere la passione per l’arte al pubblico più vasto possibile. Tra alberi secolari e stagni di ninfee, il gioiello architettonico creato da Renzo Piano ai piedi della Foresta Nera coniuga natura e cultura in un mondo di luce e di bellezza. Il successo non si è fatto attendere: oggi la Fondation Beyeler è il museo d’arte più visitato in Svizzera ed è considerato uno dei più belli al mondo.Fondation Beyeler, Jubilaeums Ausstellung. Photo Mark Niedermann I Courtesy Fondation Beyeler

L’Ombra di Caravaggio – La nostra recensione

134029 Riccardo Scamarcio L Ombra di Caravaggio DSC5211 credits Luisa Carcavale 01
Un uomo tormentato, sovversivo nell’aspetto, pronto a sfoderare la spada dal fianco per scatenare la rissa, la barba, i velluti un po’ consunti, i capelli scarmigliati dal taglio un po’ anarchico, cerca e ritrova nel proprio volto lo sguardo di Golia. Di mestiere fa il pittore, i pantaloni aderenti come un paio di jeans, le scarpe sporche di fango, una camicia cosparsa di ogni vernice, spesso di sangue, colore incrostato sulle mani, sotto le unghie. E lui stesso, Caravaggio lo “scornacchiato”, assomiglia a una tela, come i personaggi che il suo sguardo rapisce dalla Suburra romana - e dalla Chiesa di Santa Maria in Vallicella, dove Filippo Neri toglie la fame ai tanti derelitti - per trasferire nei quadri quella realtà putrida fatta di ladri e prostitute pronti a prestare i loro volti alle madonne e ai santi più celebri della storia dell’arte. Rissoso frequentatore di taverne e donne di strada, il Caravaggio di Michele Placido è l’espressione più autentica di quel “vero” che da sempre ossessiona l’artista che depone sulla tela i tanti cristi in croce trovando nella realtà quei Vangeli che conosce a memoria e alla cui lettura si commuove. Dal 3 novembre L’Ombra di Caravaggio, una co-produzione italo-francese siglata da Goldenart Production con Rai Cinema e per la Francia Charlot, Le Pacte e Mact Production porta al cinema la complessa esistenza di Michelangelo Merisi (interpretato da Riccardo Scamarcio) con Michele Placido a firmare il suo quattordicesimo film da regista, Sandro Petraglia, Fidel Signorile e lo stesso Placido alla sceneggiatura, e un cast di grandi nomi. Riccardo Scamarcio (Caravaggio) e Isabelle Huppert (Costanza Colonna) nel film L'Ombra di Caravaggio | Foto: © Luisa CarcavaleRibelle e inquieto, devoto e scandaloso, indipendente e trasgressivo, il Caravaggio 2.0 che Placido porta al cinema è un artista pop venuto a Roma, a quell’epoca centro del mondo, per attingere da quell’universo di immigrati, preti, prostitute, pellegrini, cardinali, principi e malviventi, e che oggi vivrebbe la sua vorticosa esistenza in uno studio qualunque di Londra o New York. A fronte di una chiesa controriformista che chiede statue, cupole e dipinti per celebrare la propria opulenza in un gigantesco cantiere delle meraviglie, Caravaggio, al pari di un regista neorealista ante litteram, vicino all’ala pauperista della chiesa, cerca invece un ritorno ai valori evangelici. Lo trova in Filippo Neri e nelle donne della sua vita, nella marchesa Costanza Colonna (Isabelle Huppert), molto più di un’amica, che lo protegge fin dall’infanzia, in Lena (Micaela Ramazzotti), una delle prostitute più famose di Roma, rappresentata spesso come Maria, la madre di Gesù, e poi in Annina, il volto di uno dei suoi più grandi capolavori, La morte della Vergine, oggi al Museo del Louvre di Parigi, “la morte più viva che sia mai stata dipinta”.Micaela Ramazzotti (Lena), L'Ombra di Caravaggio | Foto: © Luisa CarcavaleColpisce l’intensità con la quale il regista allestisce la scena della Morte della Vergine, e non solo, con una teatralità che commuove. Una teatralità alla quale il Placido “parolaio” e uomo di teatro non poteva rinunciare. Piacciono questi echi di teatro che affiorano dall’allestimento della spettacolare festa del Cardinal Dal Monte allestita a Villa Aldobrandini, nell’apparecchiamento della Conversione di San Paolo e della Crocifissione di San Pietro, nel dialogo potentissimo con Giordano Bruno. Nel sublime confronto tra Caravaggio e il frate domenicano (Gianfranco Gallo), girato nei sotterranei di Napoli a rappresentare le prigioni nella Roma del tempo, c’è tutta la ricerca della verità agognata da due uomini. Come il filosofo degli infiniti mondi anche Caravaggio gioca a dadi con la morte da quando pesa su di lui la terribile condanna. Michelangelo Merisi da Caravaggio, Crocifissione di San Pietro, Cappella Cerasi, Santa Maria del Popolo, RomaNel film i protagonisti diventano opere d’arte viventi. Se per Caravaggio la realtà viene prima di ogni cosa, anche il regista fa sì che la pelle, i piedi, le pulsioni, i vizi, il sangue, gli sguardi dei suoi soggetti scompiglino le corde dello spettatore prima di depositarsi sulla tela. Lo studio dove il pittore realizza i suoi capolavori, ambientato nel film a Cinecittà, è un via vai di bottegai, prostitute, nobili e prelati grandi collezionisti d’arte come il Cardinale Francesco Del Monte. Così Placido, ed è questo uno dei punti di forza del film, snocciola una serie di personaggi, solitamente poco considerati, ma contemporanei di Caravaggio, emblematici per annusare il contesto storico del pittore e forse un po’ anche la sua arte, oltre che i fermenti di un’epoca, il Seicento, dove a Roma la Vallicella diventa la variegata fucina della sua verità. La Roma di Caravaggio è anche la Roma di Orazio e Artemisia Gentileschi e ancora di Filippo Neri, di Scipione Borghese e del Cavalier d’Arpino. Michele Placido, Riccardo Scamarcio (Caravaggio) e Louis Garrel (l'Ombra) ne L'Ombra di Caravaggio | Foto: © Luisa CarcavaleLungi dall’essere protagonista di una scena laccata, scolasticamente delineata da una sfilza di opere corredate da didascalia, il Caravaggio di Michele Placido vive alimentandosi dalla realtà, dalla veracità degli accenti romaneschi che esplodono dalla bocca di Ranuccio (Brenno Placido) e di suo fratello (Michelangelo Placido). La sfida che consisteva nella ricerca dell’aderenza storica e in una ricostruzione d’epoca che non mirasse alla spettacolarizzazione retorica ma piuttosto alla sostanza materica degli ambienti risulta vinta. Come probabilmente anche la trovata dell’Ombra (Louis Garrel) un agente segreto del Vaticano, a tratti nel film un po’ troppo statico, al quale Papa Paolo V decide di commissionare una vera e propria indagine che mette sul banco degli imputati Caravaggio e la sua arte. Sarà lei a decidere se concedere o meno la grazia che il pittore chiedeva dopo la sentenza di condanna a morte per aver ucciso in duello un suo rivale. E sarà l’Ombra, l’unico personaggio di fantasia del film, ad avviare le sue attività di spionaggio sul pittore che, con la sua vita e con la sua arte, affascina, sconvolge, sovverte. Al termine del film sarà questo stesso personaggio di fantasia a decretare un finale che potrebbe apparire antistorico. Ma la licenza d’autore può anche concedersi di giocare con il mistero fittissimo che si cela intorno alla fine di Caravaggio.Riccardo Scamarcio nel film L'ombra di Caravaggio I Courtesy 01 DistributionMolto attento risulta nel film il lavoro sugli arredi e gli oggetti di scena, dai libri ai quadri di Caravaggio, che rispecchia la volontà di superare una rappresentazione iconografia già vista. Le opere sono state preparate su tela con basi materiche che al momento della stampa sono state patinate proprio per rendere le texture dei quadri molto più veritiere rispetto alle semplici riproduzioni fotografiche. Seguendo l’incessante peregrinare di Caravaggio da un posto all’altro lo spettatore incontra diverse location che frantumano gli stereotipi dei luoghi del maestro, in un’ambientazione sporca, decisamente lontana dalla tentazione di una rappresentazione iconografica o patinata. La presenza dei luoghi nel film si fa potente e trascina dagli sfarzosi palazzi pontifici e nobiliari come Villa Chigi, dove è stata ambientata parte della dimora dei Colonna, alle osterie popolari, tra le chiese e le fortezze, lungo i sotterranei di Caracalla trasformati in strade cittadine piene di sporcizia, brulicanti di cloache e mendicanti. Ritroviamo Napoli con le sue chiese del Rinascimento e inizio Barocco napoletano, dove sono state ricostruite la Cappella Contarelli e la Cappella Cerasi, ma anche Sant’Agostino (la Curia di Roma non ha permesso che le riprese venissero effettuate all’interno delle chiese romane). A Castel Dell’Ovo prendono invece vita i sotterranei di Malta con la Decollazione di San Giovanni, una delle ultime opere di Caravaggio prima del ritorno a Napoli. Michelangelo Merisi Da Caravaggio, Decollazione di San Giovanni Battista, 1608, Olio su tela, 361x320 cm, Concattedrale di San Giovanni, La Valletta, MaltaIn questa sfida priva di patinature retoriche, finalizzata a restituire tutta la dimensione terrena, umana, dolorosa e carnale del pittore e del suo tempo, convincono i costumi per i quali Carlo Poggioli si è ispirato agli abiti che Caravaggio amava indossare, sottolineando talvolta il legame tra l’abbigliamento e i cambiamenti nell’esistenza del pittore che, dagli abiti molto semplici e poveri nella prima fase della sua vita, passa a un guardaroba un po’ più vario e colorato quando la sua fama comincia ad affermarsi. Al netto di salti temporali un po' troppo altalenanti che riflettono l’incessante peregrinare del maestro, ma che in alcuni momenti fanno un po’ smarrire lo spettatore rallentando un po’ il focus sul protagonista, la fotografia di Michele D’Attanasio convince, il finale sorprende. E se davvero l’amore è sinonimo di verità - un po' come l'universo di Giordano Bruno realizzato da un Dio altrettanto infinito, da amare infinitamente - il messaggio finale consegnato da Placido attraverso la frase di Virgilio, ripresa da Caravaggio, Omnia vincit amor, è davvero l'epilogo perfetto di quella ricerca del vero che Caravaggio ha difeso con convinzione fino alla fine dei suoi giorni.Michelangelo Merisi da Caravaggio, Amor vincit Omnia, Gemäldegalerie, Staatliche Museum, Berlino Leggi anche:• Michele Placido racconta il suo Caravaggio, il "regista" solitario che cercava la verità nella pittura• Nove splendidi dipinti da riconoscere nel film L'Ombra di Caravaggio• L'Ombra di Caravaggio, dal 3 novembre solo al cinema• Riccardo Scamarcio è Caravaggio nel nuovo film di Michele Placido

Michele Placido racconta il suo Caravaggio, il “regista” solitario che cercava la verità nella pittura

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All’ombra della statua di Giordano Bruno a Campo de’ Fiori, alimentate dal vento del Sessantotto che consegnava al cinema di Pasolini il mondo autentico delle borgate, le vicende del frate filosofo disegnavano nella mente di un giovane Michele Placido sogni di progetti futuri che avevano come cornice quella Roma in fermento teatro del mondo. Tre secoli prima, in quella stessa Roma di rivolte e rivoluzioni, anche Caravaggio, contemporaneo di Giordano Bruno, aveva cercato il suo spazio nel mondo trovandolo nella Suburra, tra prostitute, ladri, vagabondi, trasfigurati sulla tela in santi e madonne immortali. “Mi fa molto sorridere il fatto che Caravaggio nei suoi quadri sia riuscito a trasformare uomini e donne della Suburra in santi e madonne ancora oggi venerati nelle chiese. Molti di coloro che ammirano i suoi capolavori non sanno che non si trovano di fronte a personaggi di fantasia, ma a uomini e donne realmente esistiti. Sei anni fa con l’amico sceneggiatore Sandro Petraglia, con il quale avevamo già scritto Romanzo Criminale e altri lavori, abbiamo deciso di affrontare questo sogno impossibile”. Michele Placido, Riccardo Scamarcio (Caravaggio) e Louis Garrel (l'Ombra) ne L'Ombra di Caravaggio | Foto: © Luisa CarcavaleIl sogno impossibile del quale Michele Placido parla, mentre lo raggiungiamo al telefono in una delle località dove è impegnato a promuovere il suo film, si chiama L’Ombra di Caravaggio, una co-produzione italo-francese siglata da Goldenart Production con Rai Cinema e per la Francia Charlot, Le Pacte e Mact Production che arriverà nelle sale il 3 novembre. Il film, scevro di patine scolastiche o accademiche, è un viaggio insolito nell’intricata esistenza di Michelangelo Merisi, raccontato nelle sue profonde contraddizioni e nelle oscurità del suo impenetrabile tormento. Se fosse un nostro contemporaneo oggi questo Caravaggio sarebbe probabilmente un artista pop di base a New York o a Londra, i pantaloni aderenti come un paio di jeans, le scarpe infangate, una camicia sporca di ogni vernice. E lui stesso sarebbe una tela, colore incrostato sulle mani, sotto le unghie, tra la barba, lo sguardo alle donne della sua vita: una marchesa, una delle prostitute più famose di Roma, e un’altra pronta a prestare il volto a uno dei suoi più grandi capolavori. Dal suo laboratorio contemporaneo proiettato nel futuro, il Caravaggio 2.0 sarebbe un uomo ossessionato dalla voglia di raccontare attraverso la sua pittura una visione religiosa rivoluzionaria, che si origina nella strada, in una sorta di neorealismo ante litteram. Mentre parla del suo film Placido ci coinvolge nella danza che dal grande schermo conduce al "suo" teatro, come quando interpreta, dall’altra parte del filo, alcune pagine di Yannick Haenel o quando ripropone qualche battuta del Cardinal del Monte. Seguire la genesi del film diventa così un piacere doppio.Micaela Ramazzotti (Lena) ne L'Ombra di Caravaggio | Foto: © Luisa CarcavaleL’ombra di Caravaggio arriva dopo cinquant'anni di carriera e vede la luce dopo quattro anni di studio. Come nasce l’idea di questo film? “Sono arrivato a Roma da un paesino molto piccolo che non aveva né un cinema né un teatro. Nasco come parolaio, ero affascinato dalla parola, nel senso più bello del termine, sognavo di diventare attore. La voglia, il piacere la passione di far conoscere Caravaggio ha origini lontanissime. Quando ero ancora allievo dell’Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" correva il 1968, un anno rivoluzionario un po’ dappertutto. Si percepiva il fermento dei giovani figli che volevano cambiare il mondo, diventando protagonisti e non più succubi dei padri. Furono a mio avviso anni straordinari. Volevamo essere protagonisti, andavamo nelle piazze, partecipavamo alle manifestazioni. In questo clima attecchisce la mia educazione culturale. I miei compagni di viaggio all’Accademia erano scenografi, attori, e molte notti bivaccavamo a piazza Campo de’ Fiori dove c’era la statua di Giordano Bruno...” E poi cos'è successo?“Giordano Bruno è stato per me una sorta di ponte per arrivare all’arte e a pittori come Caravaggio. Oltre ad aver scardinato in ambito scientifico il sistema astronomico aristotelico fu uno scrittore di opere teatrali. Mi affascinava. E poi sempre in quegli anni, su suggerimento di amici più colti di me nel campo della pittura e della scultura, abbiamo cominciato a visitare le chiese romane. E il pittore che più ci trasmetteva emozioni proprio per il periodo storico era Caravaggio che, a suo modo, è stato anche un pittore politico, magari inconsciamente”.Riccardo Scamarcio (Caravaggio) e Isabelle Huppert (Costanza Colonna) nel film L'Ombra di Caravaggio | Foto: © Luisa CarcavaleCon una trovata accattivante ricorre alla figura dell’Ombra, interpretata nel film da Louis Garrel. Si tratta dell’unico personaggio di fantasia nel film, ma con una plausibilità storica riconducibile all’Inquisizione. Questo enigmatico investigatore avrà in mano il potere assoluto, di vita o di morte, sul destino di Caravaggio. L’ombra è, assieme alla luce, una componente fondamentale nell’arte di Caravaggio. Ed è curioso come questa stessa ombra che avvolge parte della vita di questo artista cerchi di far luce sulla sua esistenza. Chi è l’Ombra? L’Inquisizione, la Chiesa, la censura…O forse tutti noi? "(Ride) Forse sì, siamo tutti noi. Mi chiedo quanti di coloro che oggi apprezzano Caravaggio, a quei tempi sarebbero stati d’accordo con la sua scelta di trasformare gli ultimi in santi e madonne ancora oggi venerati”.Nel film incontriamo diversi outsider oltre a Caravaggio. Tra questi Filippo Neri, interpretato da Moni Ovadia. La Chiesa di Santa Maria in Vallicella, legata a questa figura, è stata, con i suoi derelitti, una fucina per l’arte di Merisi. Qui si concentravano le figure abiette che, come dice lo stesso Caravaggio “diventano il suo dio”. Che ruolo hanno avuto Filippo Neri e la Vallicella per il pittore? “Caravaggio cerca una luce nuova e, come il film racconta, la trova alla Vallicella. È lì che lui trova la sua strada. Filippo Neri era una grande personalità e rappresentava all’epoca un’altra chiesa che andava verso gli umili e non verso i nobili. Caravaggio credo fosse un grande mistico che, specie all’inizio, ha vissuto molto la solitudine, ed è forse per questo che ha trovato in Filippo Neri la persona giusta per andare avanti in questa sua prospettiva artistica”. Michelangelo Merisi da Caravaggio, Crocifissione di San Pietro, Cappella Cerasi, Santa Maria del Popolo, RomaInsomma Caravaggio la affascina... “Sto leggendo un bellissimo libro di Yannick Haenel intitolato Solitudine Caravaggio. Ho iniziato a leggerlo durante il montaggio, non quando lo abbiamo girato. Dice l'autore...(subentra Placido attore ndr) Contrariamente a quello che può aver detto Poussin Caravaggio non è venuto al mondo per distruggere la pittura, ma Caravaggio non amava altro che la pittura. E ancora...Caravaggio si è forse impegnato per battere strade più serene della sua arte? La saggezza sembra estranea all’emozione di Caravaggio...Mai nessun artista si è tanto logorato i nervi nel tentativo di cogliere la verità in pittura. Mi piace”. Oltre a firmare la regia lei interpreta il Cardinal del Monte, grande mecenate e collezionista, ma soprattutto il più grande sostenitore di Caravaggio. Nel film vediamo il cardinale in una veste insolita, nel bel mezzo di una festa spettacolare girata a Villa Aldobrandini. Che cosa ha scoperto di questo personaggio? “Quando l’Ombra gli domanda come giudichi Caravaggio essendo un uomo di chiesa il cardinal Del Monte risponde: Sì, sono un uomo di chiesa, ma sono anche un uomo che ama l’arte. E questo la dice lunga sul suo percorso. In fondo il suo sogno era quello di diventare papa. Frequentava anche lui la Suburra, di notte partecipava spesso a festini, ma soprattutto all’interno di Palazzo Madama c’era una vera e propria scuola d’arte di pittura e scultura. Lui fu il primo, tramite rappresentazioni teatrali, a inventarsi l’opera cantata dai castrati, voci straordinarie. Era un po’ fuori dal percorso ecclesiastico e in molti scrivono che fosse omosessuale. Tutto questo gli impedì di diventare papa e l’aver scoperto Caravaggio fu anche la sua condanna”. Caravaggio, Morte della Vergine, 1604-1606, Olio su tela,  245 x 369 cm, Parigi, Museo del LouvreChe cos’è che più la accomuna a Caravaggio oltre al nome? A quale quadro si sente più legato? “Credo che il quadro che più mi rappresenta sia La morte della Vergine. Venendo io dal teatro credo che Caravaggio sia stato un grande regista”. In che senso regista? “Sono convinto che nel suo studio, che si trovava nel quartiere Campo Marzio, avesse una vera e propria succursale della chiesa della Vallicella. Per preparare un quadro impiegava giorni e giorni, non tanto per la ricerca della luce, ma perché amava “provare” quegli attori. Questo avviene anche in teatro. Sono stato a lezione da Strehler e anche lui faceva le prove della messa in scena e solo dopo trovava la luce a seconda della costruzione drammaturgica del quadro. Questo era possibile perché Caravaggio aveva una conoscenza non solo della grande pittura italiana di quel periodo, ma anche del Vangelo. A teatro si cerca di rivelare la verità della vita e la drammaticità del percorso umano. Ecco perché, da questo punto di vista, mi sento molto legato alla Morte della Vergine”. Uno dei momenti più intensi del film è quello in cui le figure si fanno tela e La morte della Vergine diventa un vero e proprio allestimento teatrale. Ci racconta come è stata costruita questa scena? “Durante la preparazione del film siamo andati in una piccola chiesa vicino Roma e abbiamo provato per giorni per cercare di capire come rappresentare quel momento in cui Caravaggio è arrivato al quadro. È una messa in scena molto contemporanea, moderna, scarna, affatto opulenta”. Parliamo del finale, molto coraggioso, dove lei si prende qualche licenza artistica...Cosa c’è dietro questa fine apparentemente antistorica? (No spoiler) “Su questo abbiamo riflettuto molto con gli sceneggiatori. Storicamente ci sono varie supposizioni sulla fine di Caravaggio. Molti dicono sia morto di malaria, altri di consunzione, qualcun altro ritiene sia stato assassinato con il taglio della testa. Ma il suo corpo non si è mai trovato. Ma soprattutto su di lui pesava una condanna a morte i cui mandanti potevano essere in molti, dalla famiglia dei due Tomassoni ai nemici all’interno della chiesa”. Caravaggio, Scudo con testa di Medusa, 1595-1598, Olio su tela, 60 × 55 cm, Firenze, Galleria degli UffiziDove avete girato? Nelle chiese di Roma avete trovato le porte chiuse...“La Curia romana non ci ha dato la disponibilità di girare nelle chiese di Roma, o meglio nelle Cappelle che custodiscono i quadri più famosi di Caravaggio. Abbiamo mandato alla Curia il nostro copione e loro lo hanno rispedito al mittente dicendo che non potevano collaborare. Tuttavia, conoscendo molto bene Napoli , dove ci sono chiese similari a quelle barocche romane, abbiamo chiesto consiglio alla Curia napoletana e ci sono state segnalate alcune chiese affidate ad associazioni culturali napoletane che si occupano del decoro di questi luoghi non più attivi spiritualmente. Sempre a Napoli il Museo di Capodimonte ci ha dato una mano. Nei sotterranei di Napoli abbiamo inoltre ambientato la scena con Giordano Bruno”. E a Roma? “Il comune di Roma ci ha concesso la disponibilità dei sotterranei di Castel Sant’Angelo. Grazie allo scenografo Tonino Zera abbiamo ricostruito a Cinecittà la Suburra romana, ma anche la bottega di Costantino, la bottega del Cavalier D’Arpino dove Caravaggio mosse i primi passi nel periodo romano, la Casa di Lena e lo studio di Caravaggio”.Quest’anno ricorrono i cento anni dalla nascita di Pasolini, anche lui, come Caravaggio un outsider, ma della penna. Che cos’è che accomuna Pasolini al suo Caravaggio? “Sono due artisti che sono venuti a Roma e che a Roma hanno trovato il palcoscenico ideale, la Suburra, ma anche gli splendori della città. Come Caravaggio Pasolini ha frequentato i grandi palazzi della cultura romana, ma alla fine la sua ispirazione spirazione l’ha trovata tra la gente delle borgate”.L'Ombra di Caravaggio I Courtesy of 01 Distribution Leggi anche:• Nove splendidi dipinti da riconoscere nel film L'Ombra di Caravaggio• L'Ombra di Caravaggio• Riccardo Scamarcio è Caravaggio nel nuovo film di Michele Placido

Da Guido Reni ai misteri di Tutankhamon, la settimana dell’arte in tv

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Nel 1922, dopo un sonno durato tre millenni, la tomba di Tutankhamon emergeva intatta dal sottosuolo della Valle dei Re con il suo immenso tesoro, consegnando al mondo il fascino del Golden Boy. Non c’è solo l’archeologia, con un docufilm a ripercorrere questa straordinaria scoperta, nel palinsesto televisivo dal 31 ottobre al 6 novembre. Dalla rivoluzione silenziosa dei fratelli Carracci alla prima volta in tv di Guido Reni, ecco gli appuntamenti con l’arte sul piccolo schermo. Art Rider in Friuli | Courtesy Rai 5Su Rai 5 Andrea Angelucci sulle tracce di Attila Questa settimana il viaggio di Rai 5 tra le meraviglie del belpaese ha inizio in compagnia del giovane archeologo Andrea Angelucci. Mercoledi 2 novembre alle 21.15 la seconda puntata della nuova serie di Art Rider, il format alla ricerca dei luoghi d’arte meno conosciuti d’Italia, accompagna il pubblico da Torcello, uno dei più antichi e prosperi insediamenti della laguna veneta settentrionale, a Monte San Michele, un rilievo del Carso a cavallo tra i comuni di Sagrado e Savogna d'Isonzo, in provincia di Gorizia. Da sempre affascinato dal personaggio di Attila, Andrea si mette sulle tracce del sedile di pietra calcarea chiamato “il trono di Attila”, a ricordare le turbolente vicende legate al “Flagello di Dio” che sconvolse il nord-est d’Italia. Insieme a lui lo spettatore si metterà in cammino alla volta di una “porta” un po’ speciale che ha consentito l’accesso delle popolazioni nordiche in Italia. La puntata, con la regia di Francesco Principini e i testi di Paolo Fazzini e Chiara Vannoni e dello stesso Andrea Angelucci, toccherà varie location, inoltrandosi tra sentieri poco noti e meno battuti. I misteri di Tutankhamon in prima visione su Su Sky Arte Giovedi 3 novembre alle 17.10 un viaggio fatto di incontri speciali e di scoperte in compagnia dell’art advisor Marco Riccomini conduce a tu per tu con l’arte rivoluzionaria dei fratelli Carracci. Carracci - la rivoluzione silenziosa racconta l’essenza di quello che potremmo considerare il primo collettivo artistico della storia. Molto più che semplici pittori, li ritroviamo a Bologna dove fondarono l’Accademia degli Incamminati, una scuola nella quale gli allievi imparavano a concentrarsi sulla riproduzione del reale anziché del verosimile. Nel suo viaggio concepito come un road-mentary, Marco Riccòmini svela i luoghi dove i Carracci o le loro opere sono approdati, in un susseguirsi di incontri in caffè, librerie, musei, strade e palazzi. Partendo dai quattro angoli del mondo occidentale approderemo a Bologna, dove i tre Carracci lavorarono insieme nella seconda metà del Cinquecento, in particolare a Palazzo Magnani e Palazzo Fava. Basta rimanere sintonizzati su Sky per non perdersi, giovedì 3 novembre alle 21.15, una prima visione firmata Sky Original che conduce tra i pennelli di Guido Reni. Per la serie Grandi Maestri - un percorso affascinante che racconta la vita dei maestri dell'arte italiana attraverso i loro capolavori - incontriamo il pittore bolognese. La perfezione delle forme e la visione ultraterrena sono i motivi dominanti della sua arte che tende verso un mondo metafisico, astratto, conducendo il pittore più rigoroso e classicista di tutto il Seicento italiano a risultati sorprendenti. A presentarlo al pubblico accompagnandolo tra capolavori grandiosi come l’Aurora, la Gloria di san Domenico, affresco della Basilica di San Domenico a Bologna, o la Strage degli Innocenti, esposto nella Pinacoteca Nazionale di Bologna, saranno lo scrittore Daniele Benati e Barbara Ghelfi, dottoressa in storia dell’arte. Tutankhamon. L'ultima mostra, Cofanetto canopico intarsiato dedicato a Imseti e Isis | © Laboratoriorosso ProductionsDalla pittura all’archeologia. A un secolo esatto dalla scoperta della tomba di Tutankhamon, venerdi 4 novembre in prima visione alle 21.15, la voce di Manuel Agnelli ci porta in viaggio in Egitto nel dietro le quinte dell'ultima mostra dedicata al faraone. Diretto da Ernesto Pagano Tutankhamon. L’ultima mostra riporta in vita sul piccolo schermo la magia di una scoperta che ha cambiato la storia dell’archeologia. Punto di partenza del racconto cinematografico è la mostra King Tut. Treasures of the Golden Pharaoh, che nel 2019 ha visto le meraviglie rinvenute attorno al re fanciullo partire per l’ultima volta in una tournée internazionale. Le spettacolari immagini del fotografo Sandro Vannini, il solo in anni recenti ad aver avuto accesso al tesoro esposto eccezionalmente fuori dalle vetrine, testimoniano come gli oggetti danneggiati durante la rivoluzione del 2011 abbiano ritrovato il loro antico splendore grazie ai restauri. Dalle sale dal Museo Egizio di Piazza Tarhir, al Cairo, e dai laboratori del Grand Egyptian Museum di Giza si vola al Metropolitan Museum di New York e al Griffith Institute di Oxford, sulle tracce delle ricerche archeologiche che, nel tempo, hanno cercato di fare luce su una figura dai contorni incerti. Vincent van Gogh, Sunflowers, 1889, Olio su tela, 95 x 73 cm, Amsterdam, Van Gogh Museum / Vincent van Gogh Foundation | Courtesy Van Gogh MuseumLa settimana dell’arte su Sky si conclude tra i borghi. Domenica 6 novembre alle 21.15 in prima visione Una Boccata d'Arte accompagna il pubblico in 20 borghi di venti regioni italiane in compagnia di 20 artisti, protagonisti del progetto di arte contemporanea diffuso che valorizza l'incontro tra patrimonio artistico, storico e paesaggistico del belpaese. Su Arte tv Van Gogh superstar Van Gogh non dipingeva di getto, ma era molto metodico e si ispirava soprattutto alle stampe giapponesi, di cui era un grande collezionista, e alla “crosta” su tela di Adolphe Monticelli. Non è vero che non avesse mai venduto quadri mentre era in vita. Quanto alla pistola ritrovata in un prato di Auvers-sur-Oise e acquistata all’asta per 130.000 euro, non vi è alcuna prova scientifica che l’abbia usata per uccidersi. Sono alcune delle chicche svelate dal documentario Vincent Van Gogh superstar. La vera storia del pittore olandese, che prende spunto dalla mostra presso l'Het Noordbrabants Museum di 's-Hertogenbosch (Olanda) per sfatare diversi miti che non sempre rendono giustizia all’opera del pittore. La vita reale del maestro Van Gogh racconta una persona di famiglia borghese, pragmatica, capace di adeguarsi ai cambiamenti del mercato dell’arte, ma anche di un commerciante che creò con il fratello Theo un’autentica “corporation” in grado di generare incassi da ormai 130 anni.

La Città del Leone: il Medioevo a Brescia in una grande mostra

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Una grande mostra al Museo di Santa Giulia inaugura la festa di Brescia e Bergamo Capitale italiana della Cultura 2023. Per l’occasione la Leonessa d’Italia ha scelto di indagare un periodo poco battuto ma fondamentale della sua storia. Dopo le radici romane, i Longobardi e gli splendori del Rinascimento, Brescia punta i riflettori sul Medioevo, un’epoca di affascinanti trasformazioni che daranno forma all’architettura e all’identità profonda della città. A cura di Matteo Ferrari, ricercatore all’École Pratique des Hautes Études di Parigi, La città del Leone. Brescia nell’età dei comuni e delle signorie indaga gli anni che vanno dalla seconda metà del XII secolo, quando compaiono le prime istituzioni civiche, fino al 1426, inizio della dominazione di Venezia. A mettere in scena il racconto da domani, 29 ottobre, fino al prossimo 29 gennaio, sarà una selezione di opere ricca e vivace come la vita della città: sculture, dipinti, manoscritti miniati, ma anche preziosi oggetti di oreficeria, monete e rari documenti d’archivio, inclusi prestigiosi prestiti da musei italiani e internazionali. Come la splendente Madonna dell’Umiltà di Gentile da Fabriano, conservata al Museo Nazionale San Matteo di Pisa, che un tempo ornava la perduta Cappella di San Giorgio al Broletto, la residenza dei signori di Brescia. Per soddisfare il gusto raffinato dei Visconti, il maestro umbro impreziosì l’intero ambiente con sfarzose decorazioni, suscitando l’ammirazione di ospiti e visitatori, ma oggi di questo gioiello restano solo pochi frammenti. Gentile da Fabriano (Fabriano, 1370 c. - Roma, 1427), Madonna dell'Umiltà, 1425 circa. Tempera e oro su tavola. Pisa, Museo Nazionale di San Matteo“Raccontare Brescia medievale in una mostra è un’impresa ardua”, spiega il curatore Matteo Ferrari: “Molto è andato distrutto, molto altro è attestato soltanto attraverso testimonianze d’archivio, molto ancora non può essere esposto per ragioni d’ingombro o di conservazione. Attraverso una selezione di pezzi diversi per natura e formato (diplomi imperiali e registri amministrativi, pitture murali e su tavola, monete e sigilli, sculture e oreficerie), molti dei quali ignoti al grande pubblico, è stato però possibile tessere, per la prima volta, un suggestivo percorso attraverso tre secoli di storia, mettendo l’accento tanto sugli avvenimenti di cui la città è stata protagonista, quanto sugli uomini e le istituzioni che, attraverso la loro attività di governo e di committenza artistica, ne hanno forgiato la fisionomia e l’identità”. Imprese leggendarie danno inizio al racconto al Museo di Santa Giulia: siamo negli anni Settanta del XII secolo e nelle lotte contro Federico Barbarossa si gioca l’autonomia della città. Nell’Ottocento dipinti e disegni celebreranno i fermenti e le vittorie di questa stagione: in mostra la rivivremo come in un romanzo per immagini, dal Giuramento di Pontida di Giuseppe Diotti (Pinacoteca di Brera) a Il carroccio. La battaglia di Legnano di Massimo Tapparelli d’Azeglio (GAM di Milano), fino alla Pace di Costanza di Giuseppe Bossi (Gabinetto dei Disegni del Castello Sforzesco). "La città del Leone. Brescia nell’età dei comuni e delle signorie", un'immagine dalla mostra al Museo di Santa Giulia © Archivio Fotografico Musei di BresciaLungo il percorso incontreremo personaggi come Arnaldo da Brescia e Pandolfo Malatesta, artisti come Pisanello, Gentile da Fabriano o il Maestro di Sant’Anastasia, e scopriremo l’origine di simboli e tradizioni cittadine, dallo stemma del leone rampante al culto delle Sante Croci, mentre documenti raramente esposti racconteranno la vita della città nei suoi aspetti più insoliti e curiosi. Ma il Medioevo è anche l’epoca in cui si forgia l’identità architettonica di Brescia, quando la cattedrale e il palazzo comunale vengono innalzati sulla piazza: con l’aiuto di una web app creata per l’occasione da EasyGuide, l’itinerario di visita si espanderà perciò oltre le mura del museo alla scoperta delle testimonianze della città medievale. “Questa mostra straordinaria getta luce nuova su un periodo formidabile per la storia della città e per la formazione dell'identità civica”, afferma il direttore di Fondazione Brescia Musei Stefano Karadjov: “Una mostra multi-oggetto dal raffinato allestimento e con pezzi raramente accessibili, che ci permette anche di creare un ponte con la sezione dell'età comunale del Museo di Santa Giulia, di cui il progetto espositivo è una fortissima appendice temporanea. Un processo di valorizzazione delle nostre Collezioni che, oltre alla grandezza romana, longobarda e rinascimentale, finalmente ritorna a parlare dei secoli medievali in modo avvincente e formativo, alla vigilia dell'anno in cui Brescia sarà Capitale Italiana della Cultura”. Luca Mannelli, Compendium moralis philosophiae, ante 1346. Parigi, Bibliothèque nationale de France © Bibliothèque nationale de FranceLeggi anche: • Antico o contemporaneo? Isgrò cancella (e riscrive) la storia di Brescia• La grande pittura di Bergamo e Brescia va in scena a Palazzo Martinengo• Capitale della Cultura 2023: Bergamo e Brescia svelano la “Città Illuminata”

Faccia a faccia con la morte, a casa di Hugo van der Goes

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Uno dei massimi capolavori dei Primitivi fiamminghi nasce a nuova vita grazie a un intervento di restauro durato cinque anni. Splendente di colori mai visti a memoria d’uomo, La morte della Vergine di Hugo van der Goes torna al pubblico in una grande mostra nell’antico Ospedale di Bruges, oggi sede del Museo Memling. Dal 28 ottobre al 5 febbraio, oltre settanta opere riunite da tutta l’Europa dialogheranno con il gioiello di van der Goes: dipinti di grandi maestri dell’epoca - Hans Memling, Jan Provoost, Albrecht Bouts, Petrus Christus - ma anche sculture, preziosi manoscritti miniati e perfino brani musicali, selezionati per condurre i visitatori in una suggestiva esperienza di Faccia a faccia con la morte, che dà il titolo all’esposizione. Jan Provoost, Dittico con Cristo portacroce e ritratto di frate minore (retro), 1522, Musea Brugge © Musea Brugge - Art in Flanders - Hugo MaertensSei capitoli, ciascuno con un tema diverso, scandiranno il percorso della mostra che si muove in equilibrio tra passato e presente, attualizzando il dipinto van der Goes con il contributo di sei “nuovi maestri”. L’artista Berlinde De Bruyckere, il poeta e autore di bestseller Ilja Leonard Pfeijffer, la scrittrice e medico Sholeh Rezazadeh, il regista e direttore dell’International Theatre di Amsterdam Ivo van Hove, la coreografa e danzatrice Anne Teresa De Keersmaeker sono stati chiamati a esplorare un dipinto che, ancora oggi, ha il potere di commuovere, intrigare e ispirare chiunque lo guardi. "Faccia a faccia con la morte", allestimento al Museo Memling I Courtesy VisitFlandersDopo il restauro, La morte della Vergine si svela in tutta la sua bellezza, rendendo giustizia a un artista, Hugo van der Goes, di cui si sa molto poco, ma che ai suoi tempi è stato tra i più richiesti nelle Fiandre insieme a Jan van Eyck e Hans Memling. Finalmente libero dalla patina del tempo, il dipinto offre allo sguardo i suoi mille dettagli: dai volti degli apostoli, meravigliosamente caratterizzati uno per uno, all’ambientazione architettonica, fino alla vibrante tavolozza. Ma non finisce qui. Hugo van der Goes, Morte della Vergine Maria. Photo Dominique Provost I Courtesy Musei di BrugesI lavori di restauro hanno rappresentato un’occasione per approfondire la conoscenza dello stile, dell’iconografia e dei processi creativi del maestro fiammingo. Le scoperte emerse da queste ricerche sono parte integrante della mostra, dove le ultime acquisizioni sulla Morte della Vergine si nutriranno di un innovativo confronto con importanti opere in prestito da prestigiosi musei internazionali.  Hans Memling (1433 circa - 1494), Dittico di Maarten van Nieuwenhove, 1487, Olio su pannello di quercia, 41.5 x 52 cm (Ciascun pannello), Bruges Sint Jaanshospitaal-MemlingmuseumLeggi anche:• I capolavori di Hans Memling con l'esperto Till-Holger Borchert• Il più antico ospedale d'Europa: il Museo Memling a Bruges• Bruges da scoprire: dai Primitivi fiamminghi ai silenziosi giardini• Quando Bruges era la capitale del commercio internazionale, come oggi New York

La Collezione Mattioli al Museo del Novecento: il racconto dei protagonisti

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Il momento è arrivato: da domani la straordinaria Collezione Mattioli, tra le prime al mondo per le opere del Futurismo, sarà esposta al Museo del Novecento. Per anni gli eredi di Gianni Mattioli hanno cercato di collocarla in un museo di Milano e di realizzare così il desiderio del collezionista, ma non è stato semplice. Poi l’accordo, siglato nel settembre 2021 tra Giacomo Mattioli e Palazzo Marino: le 26 opere della raccolta, dichiarata indivisibile già nel ’73 perché “di eccezionale interesse artistico e storico”, sono state concesse in comodato per cinque anni al Museo del Novecento.  Finalmente, potremo ammirare dal vivo dipinti come Mercurio passa davanti al Sole di Giacomo Balla, L’amante dell’ingegnere di Carlo Carrà, Bottiglie e fruttiera di Morandi, e la strepitosa Ballerina blu di Gino Severini dialogherà la Ballerina bianca, già nelle raccolte del museo dell’Arengario. Nella Galleria del Futurismo riallestita per l’occasione, un posto speciale è riservato alle opere di Umberto Boccioni: il percorso di visita si aprirà infatti con la scultura Forme uniche della continuità nello spazio e si chiuderà con Materia, rivoluzionario ritratto della madre dell’artista. Ed è proprio durante la lavorazione del documentario FORMIDABILE BOCCIONI, scritto da Eleonora Zamparutti e Piero Muscarà, diretto da Franco Rado e prodotto da ARTE.it Originals con ITsART e Rai Cultura, ora disponibile sulla piattaforma ITsART, che abbiamo incontrato due protagonisti centrali di questa vicenda: Giacomo Mattioli, nipote del grande collezionista Gianni, e Danka Giacon, curatrice del Museo del Novecento. Ecco che cosa ci hanno raccontato. Da sinistra: Fortunato Depero, il giovane Gianni Mattioli (al centro con il berretto) e Filippo Tommaso Marinetti I Public Domain Wikimedia Commons“Mio nonno iniziò a comprare quadri nel secondo dopoguerra, ma fu amico dei Futuristi per tutta la sua giovinezza”, ricorda Giacomo Mattioli: “Era un ragazzo povero, scappato di casa a 16 anni. Nei Futuristi, e in particolare in Fortunato Depero, trovò quasi la figura di un padre. Amava i Futuristi perché rappresentavano la modernità, la rottura con i valori borghesi tradizionali che lui non sopportava in quanto protestante e figlio di genitori separati. Ma non aveva soldi per comprare i dipinti, faceva fatica a mangiare. Nel dopoguerra cominciò come tanti collezionisti milanesi: erano appassionati d'arte, erano amici degli artisti, e investivano in opere d’arte. A differenza di altri, tuttavia, Mattioli pensava che una collezione dovesse avere anche uno scopo sociale”. Come mai?“Era un'idea che aveva maturato durante la guerra insieme a Fernanda Wittgens, sua cugina, amica e in seguito soprintendente di Milano, con la quale era riuscito a salvare diversi ebrei dalla deportazione. Mattioli era rimasto profondamente colpito dalle stragi dei nazisti, specie da quella di Meina che visse in modo molto drammatico. Pensava che l'arte potesse aiutare le persone a rimanere più umane, più vere. Così con Fernanda accesero quella che chiamavano ‘la fiaccola dell’arte’. Mattioli prese in affitto un appartamento in via Senato, che apriva personalmente al pubblico il sabato, la domenica o su richiesta, per mostrare alle persone cose che non erano ancora nei musei . Aveva capito che il Futurismo e la Metafisica sarebbero stati i due movimenti protagonisti dell'arte moderna italiana. Non a caso costruì la collezione in pochissimo tempo, segno che aveva le idee molto chiare sulla storia dell'arte all’inizio del Novecento”.Suo nonno ha compreso il valore del Futurismo prima dei critici e degli storici dell’arte…“Mio nonno aveva capito che il Futurismo poneva una domanda teorica fondamentale: che cosa è arte? Che cosa significa fare un'opera d’arte? I Futuristi erano stati i primi a chiederselo, anticipando un po’ tutte le avanguardie del Novecento. Mattioli aveva iniziato come giornalista ed era interessato al rapporto dell'arte con il pubblico, con la società. Il Futurismo era la modernità perché parlava a tutti, aprendo l’arte a nuove domande”.Un'immagine del documentario "FORMIDABILE BOCCIONI": Giacomo Mattioli con un dipinto della collezione del nonnoTra i capolavori della Collezione Mattioli c’è Materia, il dipinto di Umberto Boccioni che da domani chiuderà la Galleria dei Futuristi al Museo del Novecento…“Mio nonno comprò Materia perché lo considerava il grande capolavoro, l’opera simbolo di Boccioni. Fu un'operazione molto difficile ed economicamente impegnativa. Poi comprò quei Boccioni legati alla grande esposizione nel 1912 a Parigi. Cercò di acquistare almeno un'opera di ciascuno degli artisti che avevano esposto alla Galerie Barnheim Jeune: Solidità nella nebbia di Russolo, la Ballerina di Severini…”. Dopo un lungo percorso, la Collezione Mattioli ha trovato casa a Milano. Nelle sale del Museo del Novecento potrà finalmente parlare a un vasto pubblico come desiderava il suo fondatore…“Ne sono molto contento, perché mio nonno fu anche protagonista dell’arrivo del primissimo nucleo di opere dei Futuristi nei musei pubblici milanesi. Sto parlando della raccolta di Felice Azzari, un futurista vicino a Depero che morì suicida. Negli anni Trenta Mattioli fece da intermediario nell’operazione tra il padre di Azzari, il Comune di Milano e l’industriale di Torino Ausonio Canavese, che accettò di comprare le opere e di donarle alla città”. “Oltre a essere la città di Mattioli, Milano ha giocato un ruolo da protagonista nell’arte del XX secolo, in particolare delle avanguardie a partire dal Futurismo”, osserva Danka Giacon, curatrice del Museo del Novecento. E per una fortunatissima coincidenza, Piazza Duomo - dove ha sede il museo - è stata il cuore della vita dei Futuristi in città. “Intorno a Piazza Duomo”, prosegue la curatrice, “c’erano i principali luoghi di ritrovo degli artisti del movimento: il Caffè Salvini e la Pasticceria Marchesi, dove si riunivano a discutere animatamente, le prime gallerie, la Società della Famiglia Artistica, che supportava gli artisti non ancora affermati. In Piazza Duomo si trovava anche lo studio di Gaetano Previati, che per la generazione dei Futuristi fu un grande maestro e un punto di riferimento. Sappiamo per esempio che Umberto Boccioni era solito frequentarlo…”.Dal documentario "FORMIDABILE BOCCIONI": la curatrice Danka Giacon nella Galleria del Futurismo del Museo del NovecentoIl Museo del Novecento dispone da sempre di una raccolta di opere futuriste di eccezionale valore…“Il Museo del Novecento ha la fortuna di raccogliere una collezione unica al mondo di opere d’arte futuriste, in particolare di Umberto Boccioni: è la collezione pubblica che conserva il maggior numero di opere dell’artista. La raccolta, in realtà, ha iniziato a formarsi all’inizio del XX secolo, ben prima della nascita del museo. Il primo dipinto fu il Ritratto della signora Virginia, proprio di Boccioni, acquisito per la GAM intorno al 1916. Un’opera dai modi ancora divisionisti, perché era sì, audace, comprare a quel tempo i quadri di un artista d’avanguardia, ma si preferiva ancora la pacatezza di un soggetto riconoscibile. I veri capolavori futuristi entreranno in collezione negli anni Trenta grazie al lascito Canavese. Nello stesso periodo, con l’intermediazione di Marinetti, il Comune di Milano acquisisce due bronzi fondamentali di Boccioni: Forme uniche della continuità nello spazio e Sviluppo di una bottiglia. Marinetti, che aveva ereditato i modelli in gesso delle sculture, era riuscito grazie a una sovvenzione pubblica a realizzare le fusioni nella fonderia Battaglia di Milano. Degli anni Novanta e dei primi anni Duemila, infine, sono l’acquisto dell’importante collezione di Riccardo e Magda Jucker, con opere fondamentali come Elasticità e il Bevitore, e la donazione di Pina Antonini, con il capolavoro di inizio Novecento Il crepuscolo“.Quale sarà il valore aggiunto dalla Collezione Mattioli nel percorso di visita al Museo del Novecento?“La Collezione Mattioli è una raccolta molto ricca e importante, che aggiunge al patrimonio del Museo del Novecento grandissimi capolavori futuristi. Andrà a dialogare con un’altra importante collezione dello stesso periodo, quella messa insieme da Riccardo Jucker appunto nel secondo dopoguerra”. Umberto Boccioni, Dinamismo di un ciclista, 1913. Collezione Mattioli I Jackrosso, CC BY-SA 4.0 , via Wikimedia CommonsLeggi anche:• I gioielli di Gianni Mattioli: una collezione milionaria in arrivo al Museo del Novecento• Gino Agnese racconta Boccioni, il talento bocciato in disegno che vinse la sfida del Novecento• Boccioni e Vittoria, il futurista e la principessa. Cronaca di un amore fuori dagli schemi• Quella volta che i futuristi, sconosciuti e incompresi, esposero alla Galleria Barnheim-Jeune (vendendo un solo quadro)• "FORMIDABILE BOCCIONI": il genio futurista in un docufilm• I capolavori di Boccioni da vedere in Italia• In viaggio con Boccioni. I capolavori da ammirare nel mondo