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I cani randagi di Chernobyl, sopravvissuti al disastro nucleare (VIDEO)

i cani di CHernobyl

Il 26 aprile 1986 due esplosioni squarciarono la centrale nucleare di Chernobyl (CNPP), allora nell’Ucraina sovietica, casando il più grande disastro nucleare civile che costrinse migliaia di persone a fuggire dall’area più contaminata, lasciandosi dietro case, cose e  gli animali domestici. Nei giorni successivi al disastro, le squadre di intervento  - i famosi liquidatori - hanno cercato i cani abbandonati e randagi per ucciderli ed evitare che diffondessero la radioattività.
Ma alcuni di quei cani sembrano essere sopravvissuti e il nuovo studio “The dogs of Chernobyl: Demographic insights into populations inhabiting the nuclear exclusion zone”, pubblicato su Science Advances da un team di ricercatori statunitensi, ucraini e polacchi, è il risultato della prima ricerca genetica su cani di Chernobyl e, quindi, su un grande mammifero che vive nell'area vietata e il primo passo di un progetto più ampio per determinare come i cani si sono adattati per sopravvivere in uno dei luoghi più radioattivi della Terra. Gli scienziati sperano di utilizzare le conoscenze acquisite per comprendere meglio gli effetti dell'esposizione alle radiazioni a lungo termine sulla genetica e sulla salute umana.
Intanto dallo studio pubblicato su Science Advances emerge che «Il DNA raccolto dai cani rinselvatichiti che vivono oggi vicino alla centrale elettrica rivela che sono i discendenti di cani che erano presenti al momento dell'incidente o che si erano stabiliti nell'area poco dopo».
I ricercatori evidenziano che «In questo studio, caratterizziamo la composizione genetica dei cani riproduttori liberi che vivono all'interno e intorno al sito del disastro nucleare di Chernobyl del 1986. Precedenti studi hanno dimostrato che i due più grandi disastri nucleari della storia, verificatisi al CNPP nel 1986 e alla centrale nucleare di Fukushima Daiichi nel 2011, hanno entrambi portato a enormi conseguenze ecologiche per la fauna selvatica e gli animali domestici (16-18 ) . Tuttavia, a Chernobyl è stata rilasciata molta più radioattività che a Fukushima, compreso circa sei volte più cesio-137, un radionuclide di lunga vita con un'emivita di oltre 30 anni».
Una delle autrici dello studio, Elaine Ostrander del National Human Genome Research Institute del  National Institutes of Health Usa, sottolinea in un’intervista a Nature che «Abbiamo così tanto da imparare da questi animali. Questa è un'occasione d'oro per vedere cosa succede quando generazioni di grandi mammiferi vivono in un ambiente ostile».
Gli impatti immediati dell'incidente di Chernobyl sono stati evidenti: circa 30 persone che lavoravano alla centrale elettrica e vigili del fuoco e liquidatori sono morti per avvelenamento da radiazioni entro pochi mesi dalla catastrofe, ancora di più per cancro negli anni successivi. Nelle zone intorno alla centrale esplosa i pini sono appassiti e molte specie di insetti sono scomparse, incapaci di sopravvivere nel suolo radioattivo.
Quello che è meno chiaro è come i bassi livelli di materiale radioattivo persistente dopo il disastro colpiscano oggi le piante e gli animali che vivono nei dintorni di Chernobyl. Una manciata di studi ha riportato tassi di mutazione genetica insolitamente elevati nelle rondini e nei moscerini della frutta nelle vicinanze del reattore, che ora è sepolto in un sarcofago di acciaio e cemento. «Ma – ricorda David Brenner, un biofisico delle radiazioni alla Columbia University che non ha partecipato al nuovo studio - gli effetti sulla salute dei bassi livelli di radiazioni sono ancora oggetto di accesi dibattiti. Questo è importante perché le persone rischiano l'esposizione a basse dosi di radiazioni in tutti i tipi di contesti, anche attraverso determinate scansioni mediche o mentre lavorano in centrali nucleari. E’ davvero difficile capire gli effetti di questo tipo di esposizione, ma è piuttosto importante che lo facciamo».
E’ stato questo uno dei fattori che nel 2017 ha portato l’autore senior dello studio, Timothy Mousseau, Department of biological sciences dell’università della South Carolinaa unirsi a una missione di volontariato per fornire assistenza veterinaria alle centinaia di cani randagi che vivono nella zona di esclusione, un'area di 2.600 Km2 attorno alla centrale nucleare dove è limitato l'accesso per motivi di sicurezza e da dove i militari russi che hanno invaso l’Ucraina nel 2022 si sono ritirati rapidamente dopo che i soldati hanno cominciato ad ammalarsi in massa.
In tre anni di viaggi nell'area di Chernobyl, Mousseau e i suoi colleghi hanno raccolto campioni di sangue da circa 300 cani che vivevano accanto alla centrale nucleare e intorno alla città di Chernobyl e l'analisi del DNA dei cani ha rivelato che, a differenza di lupi e orsi e di altri animali che sono ritornati nell’area dalla quale erano scomparsi prima del disastro, i cani randagi «Non erano nuovi arrivati ​​nella zona».
Confrontando i profili genetici dei cani di Chernobyl con quelli di altri cani randagi che vivono nell'Europa orientale, il team ha scoperto che «I canidi nelle vicinanze della centrale elettrica, alcuni dei quali sono imparentati con razze da pastore, sono rimasti isolati da altre popolazioni canine per decenni» e che, nonostante le preoccupazioni dei funzionari sovietici che i cani di Chernobyl migrassero e diffondessero materiale radioattivo, «La maggior parte di questi animali non si era spostata lontano: quelli che vivono più vicino alla centrale elettrica sono geneticamente distinti dai loro parenti che vivono a pochi chilometri di distanza».
I ricercatori sottolineano anche un altro aspetto: «Coerentemente con studi precedenti, i nostri risultati evidenziano la tendenza dei cani semi-selvatici, proprio come i loro antenati canidi selvatici, a formare branchi di individui imparentati. Tuttavia, i nostri risultati rivelano anche che all'interno di questa regione, piccoli gruppi familiari o branchi di cani in libertà coesistono in stretta vicinanza l'uno con l'altro, un fenomeno in contrasto con la natura generalmente territoriale del più vicino antenato del cane domestico, il lupo grigio. I cani in libertà nelle aree urbane tendono ad adattare la loro territorialità e il movimento quotidiano in risposta agli esseri umani nella regione; generalmente il loro home range è costituito da un piccolo nucleo, dove dormono, e da una zona cuscinetto, dove cercano il cibo. La combinazione dei comportamenti osservati nei cani di Chernobyl e delle loro complesse strutture familiari suggerisce che le popolazioni di cani di Chernobyl violano il presupposto dell'accoppiamento casuale che è inerente a molti modelli genetici di popolazione. Quando si aumenta la specificità del solo luogo di campionamento, ad esempio, considerando solo i cani del CNPP o della stessa città di Chernobyl, rimane l'osservazione della complessa struttura familiare».
Ostrander  fa notare che «La continua presenza dei cani nell'area dimostra che sono stati in grado di sopravvivere e riprodursi, anche mentre vivevano vicino al reattore. Il che è notevole. L'incidente del 1986 ha depositato il micidiale isotopo radioattivo cesio-137 a livelli da 10 a 400 volte più alti vicino alla centrale che nella città di Chernobyl, a soli 15 chilometri di distanza. I campioni di DNA canino sono incredibilmente preziosi perché i cani tendono a condividere molti degli stessi spazi e diete degli esseri umani. Non abbiamo mai avuto l'opportunità di fare questo lavoro su un animale che ci rispecchia così come i cani».
Ma Brenner  avverte che «Scoprire quali cambiamenti genetici nei cani sono causati dalle radiazioni e quali sono causati da altri fattori, come consanguineità o inquinanti non radioattivi, non sarà facile». Il team è consapevole di questi problemi, ma i ricercatori sostengono che «La nostra conoscenza dettagliata degli antenati di questi cani, così come la conoscenza dei livelli di radiazioni a cui diversi cani sono stati storicamente esposti, fornisce un focus group ideale per i nostri studi futuri».
Lo studio conclude: «In modo univoco, ogni singola popolazione [di cani]nella regione di Chernobyl ha sperimentato livelli differenziali di contaminazione che sono ben registrati, fornendo ulteriori vantaggi nella progettazione sperimentale. La nostra identificazione di aplotipi genomici condivisi e l'istituzione di origini moderne rispetto a quelle ancestrali rappresentano un obiettivo per futuri studi genetici sulle firme delle radiazioni. La popolazione di cani di Chernobyl ha un grande potenziale per informare gli studi sulla gestione delle risorse ambientali in una popolazione in ripresa. Il suo più grande potenziale, tuttavia, risiede nella comprensione delle basi biologiche della sopravvivenza animale e, in ultima analisi, umana in regioni ad alto e continuo impatto ambientale».
Intanto, guerra permettendo, Mousseau ha in programma un'altra spedizione di campionamento a giugno. Se la guerra non ha fermato la ricerca, meno turisti “della catastrofe” visitano l’area della centrale nucleare e quindi non lasciano avanzi di cibo e i cani di Chernobyl stanno lottando per cavarsela. Quindi il team di scienziati sta lavorando con l’ONG Clean Future Fund per fornire cibo ai randagi, salvaguardando la sopravvivenza dei cani di Chernobyl - e la loro eredità radioattiva – anche negli attuali durissimi tempi di guerra e nella penuria che seguirà la guerra.
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Elon Musk lancia il Tesla Model Pi, il telefono connesso al cervello

Musk Tesla Model Pi

Elon Musk sta sviluppando una tecnologia innovativa per smartphone che potrebbe rivoluzionare il settore, in parallelo con la “Tesla Model Pi“. Una delle aziende più famose del 21° secolo è senza dubbio Tesla, guidata dal carismatico CEO Elon Musk. La società tecnologica ha stabilito tendenze negli ultimi anni grazie allo sviluppo di motori elettrici e […]
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Dall’Ue nuove limiti all’arsenico negli alimenti per ridurre il rischio di cancro

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L'arsenico è un elemento chimico presente in natura a basse concentrazioni nelle rocce, nel suolo e nelle acque sotterranee: gli alimenti e l'acqua potabile sono le principali vie di esposizione umana a questo inquinante, in grado di aumentare il rischio cancerogeno.
Per questo la Commissione europea ha adottato nuove norme per ridurre la presenza di arsenico nei prodotti alimentari, considerando che le emissioni industriali dovute all'estrazione e alla combustione di combustibili fossili, come anche l'uso di fertilizzanti, preservanti del legno, insetticidi o erbicidi che contengono il contaminante, possono contribuire a livelli più elevati di arsenico nell'ambiente.
«Adottiamo nuove misure per ridurre ulteriormente il rischio di esposizione a un contaminante cancerogeno nella filiera alimentare. I cittadini vogliono sapere che gli alimenti che consumano sono sicuri e queste nuove norme sono un'ulteriore prova del fatto che le regole di sicurezza alimentare dell'Ue rimangono le più rigorose al mondo», commenta la commissaria per la Salute e la sicurezza alimentare, Stella Kyriakides.
La decisione, basata su una relazione scientifica dell'Efsa del 2021, è stata adottata dopo che gli Stati membri erano stati invitati a monitorare la presenza di arsenico negli alimenti; finora i tenori massimi di arsenico nei prodotti alimentari erano stati stabiliti nel 2015 sulla base di un parere dell'Efsa, secondo cui l'arsenico inorganico può provocare il cancro della pelle, della vescica e dei polmoni.
In particolare, la nuova misura riduce la concentrazione di arsenico inorganico consentita nel riso bianco e fissa nuovi limiti per l'arsenico in molti alimenti a base di riso, formule per lattanti, alimenti per la prima infanzia, succhi di frutta e nel sale.
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Accordo Ue da 264 milioni di euro per finanziare 26 centrali fotovoltaiche (255 MW) in Italia

264 milioni di euro per finanziare 26 centrali fotovoltaiche

La Banca Europea per gli Investimenti (BEI), Crédit Agricole Corporate and Investment Bank filiale di Milano (Crédit Agricole CIB), Natixis Corporate and Investment Banking (Natixis CIB) e Reden hanno concluso un'operazione di project financing da 264 milioni di euro per finanziare uno dei più grandi portafogli fotovoltaici in Italia.  La BEI spiega che «Il finanziamento sosterrà la costruzione e la gestione di un massimo di 26 centrali fotovoltaiche con una capacità installata totale fino a 255 MW in tutta Italia. 11 di queste  saranno realizzati nel sud del Paese, 8 nel nord e 7 nel centro Italia. Tutte le centrali saranno operative entro il primo trimestre del 2025 e produrranno circa 470 GWh all'anno di energia elettrica rinnovabile, sufficienti a soddisfare la domanda di oltre 190.000 famiglie italiane».
Un’operazione contribuirà al raggiungimento degli ambiziosi obiettivi di RepowerEU della BEI e degli obiettivi di produzione di energia rinnovabile dell'Italia. Inoltre, si prevede inoltre che questi investimenti nel fotovoltaico eviteranno l’emissione di circa 3,3 milioni di tonnellate di CO2 nel corso della durata della vita utile degli impianti. La Bei specifica che «La maggior parte degli impianti beneficerà della tariffa incentivante prevista dal Decreto FER 1 in quanto sorgerà su terreni industriali e genererà quindi ricavi convenzionati per 20 anni. Per il resto, che sarà costruito su terreni agricoli, il mutuatario - Reden Development Italy - dovrebbe firmare contratti di acquisto di energia elettrica a lungo termine o vendere l'elettricità sul mercato».
Si tratta di un finanziamento classificato come prestito verde secondo i  Green Loan Principles della Loan Market Association e per i partner dell’accordo «E’ un punto di riferimento importante per il settore, in quanto è uno dei più grandi portafogli fotovoltaici greenfield in Italia che combina tariffe incentivanti, contratti di acquisto di energia elettrica a lungo termine e entrate di mercato».
La vicepresidente della BEI  Gelsomina Vigliotti ha commentato: «In qualità di banca climatica dell'Ue, siamo lieti di cofinanziare la costruzione di uno dei più grandi portafogli fotovoltaici greenfield in Italia, che genererà energia rinnovabile sufficiente a soddisfare la domanda di oltre 190.000 famiglie italiane. Questa operazione dimostra ancora una volta il forte impegno della BEI a sostenere il piano REPowerEU e a rendere l'Europa il primo continente a emissioni zero al mondo».
Thierry Carcel, AD di Reden Solar, ha ricordato che «Dopo la nostra decisione strategica di entrare nel mercato italiano nel 2021, questo primo finanziamento per Reden in Italia conferma la nostra forte ambizione di sviluppare la nostra presenza nel Paese e di contribuire attivamente alla crescita verde e alla transizione energetica dell'Italia. Con il supporto del gruppo, il nostro team, con sede a Roma e guidato da Luca Crisi, gestirà la costruzione e la gestione di questo portafoglio. Stanno inoltre già lavorando su ulteriori progetti avanzati per raggiungere più di 1 GW di capacità installata in Italia entro il 2027».
Jamie Mabilat, Country Head di Crédit Agricole CIB in Italia, ha sottolineato che «In qualità di banca di relazione chiave di Reden, siamo lieti di supportare l'espansione dell'azienda nel mercato italiano e i suoi ambiziosi piani di crescita. Questa transazione dimostra il forte impegno di Crédit Agricole CIB per la transizione energetica e la nostra posizione di leader nel mercato dei prestiti verdi. Vorremmo anche ringraziare il management di Reden per la fiducia dimostrata nell'affidare a Crédit Agricole CIB la guida di questa operazione molto importante.
Guido Pescione, Country Head della filiale milanese di Natixis CIB, ha aggiunto: «Siamo orgogliosi di essere stati incaricati come unico sottoscrittore della prima iniziativa greenfield di Reden in Italia. Questa straordinaria transazione dimostra ulteriormente gli sforzi di Natixis per sostenere lo sviluppo delle energie rinnovabili nella transizione verde e i suoi valori ambientali e di sostenibilità».
Tutti gli impianti saranno interamente di proprietà di Reden Development Italy Srl, che fa parte del Gruppo Reden Solar recentemente acquisito dal Mandel Consortium, la cui maggioranza è detenuta dal principale fondo di investimento globale Macquarie. La filiale italiana di Reden si occuperà anche dei lavori di costruzione e delle attività di gestione e manutenzione.
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Senza politica industriale a rischio il 48% della produzione italiana di batterie

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Mentre l’Unione europea continua a reinviare il via libera definitivo ad una mobilità a emissioni zero – per auto e furgoni – a partire dal 2035, anche grazie alle pressioni messe in campo dal Governo italiano, la nascente industria delle batterie guarda alle opportunità garantite sull’altra sponda dell’Atlantico.
Una nuova analisi di Transport & Environment (T&E) documenta infatti che quasi la metà (48%) della produzione di batterie agli ioni di litio pianificata oggi in Italia rischia di andare incontro a ritardi, di essere ridimensionata o addirittura cancellata.
Emblematico il caso di Italvolt: «Il progetto inizialmente previsto a Scarmagno vicino Torino potrebbe subire ritardi o venire ridimensionato a favore del suo gemello Statevolt in California. Al momento sullo stabilimento che dovrebbe sorgere in Piemonte persistono incertezze in merito ai finanziamenti e ai permessi necessari alla costruzione».
Ma non si tratta di rischi che riguardano solo l’Italia, anzi. In tutta Europa sia a rischio il 68% della capacità produttiva di batterie agli ioni di litio prevista per i prossimi anni. A determinare questa situazione è soprattutto  l’Inflation reduction act (Ira), la legge approvata da Washington per attirare la produzione di tecnologie verdi, in assenza di equivalenti strumenti comuni di sostegno finanziario da parte dell’Ue.
T&E ha analizzato la situazione delle 50 gigafactory annunciate in Europa, mostrando come 1,2 TWh di produzione europea di batterie, in grado di equipaggiare 18 milioni di auto elettriche, sia attualmente ad alto o medio rischio di interruzione o delocalizzazione.
A rischiare maggiormente di veder svanire la capacità industriale attualmente prevista sono Germania – Tesla ha già dichiarato che concentrerà la fabbricazione di celle negli Stati Uniti per sfruttare gli incentivi dell’Ira, piuttosto che nella gigafactory di Berlino – Ungheria, Spagna, Italia e Regno Unito.
«I piani industriali per la produzione di batterie nella Ue sono sotto il fuoco incrociato di Stati Uniti e Cina – commenta Carlo Tritto, policy officer di T&E Italia – Per competere efficacemente, l'Unione Europea deve dotarsi subito di una politica industriale verde incentrata sulle batterie, fornendo un robusto sostegno per aumentarne i volumi di produzione. In caso contrario si rischia di accumulare un ritardo che potrebbe tradursi in una pesante sconfitta industriale».
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I leader delle nazioni più povere: i nostri Paesi impoveriti e saccheggiati dalle potenze occidentali

nazioni piu povere

Il paradosso è già nel fatto che la quinta United Nations Conference on the Least Developed Countries (LDC5) sia ospitata a Doha, la capitale di uno dei Paesi più ricchi del mondo.  Aprendo ieri il summit che durerà fino al 9 marzo e che dovrebbe accelerare lo sviluppo sostenibile dove l'assistenza internazionale è più necessaria per sbloccare il pieno potenziale dei Paesi più vulnerabili del mondo e aiutarli ad avviarli verso la strada della prosperità, il segretario generale António Guterres ha ricordato che «Tre anni dopo che il mondo ha iniziato la sua epica lotta contro il Covid-19, i Paesi meno sviluppati (LDC) – già alle prese con gravi ostacoli strutturali allo sviluppo sostenibile e altamente vulnerabili agli shock economici e ambientali – si sono trovati bloccati in mezzo a una crescente ondata di crisi , incertezza, caos climatico e profonda ingiustizia globale. I sistemi, dalla sanità e dall'istruzione alla protezione sociale, alle infrastrutture e alla creazione di posti di lavoro, sono limitati o inesistenti. E sta solo peggiorando. Il sistema finanziario globale, creato dai Paesi ricchi per servire i propri interessi, è estremamente ingiusto nei confronti dei Paesi meno sviluppati, che devono pagare tassi di interesse che possono essere 8 volte superiori a quelli dei Paesi sviluppati. Oggi, 25 economie in via di sviluppo stanno spendendo oltre il 20% delle entrate pubbliche esclusivamente per pagare gli interessi sul debito».
E i leader delle nazioni più povere del mondo hanno espresso  tutta la loro delusione e amarezza per il trattamento riservato ai loro Paesi da parte delle c

Non solo Nimby: al via la quarta edizione del premio Pimby green

Immagine Premio Pimby Green

Nel nostro Paese le sindromi Nimby (not in my back yard, non nel mio giardino) e Nimto (not in my termo of office, non nel mio mandato elettorale) spiccano tra le principali difficoltà a mettere a terra gli impianti necessari a sostenere la transizione ecologica – da quelli per la gestione rifiuti a quelli per la produzione di energia rinnovabile –, ma un’alternativa esiste: quella Pimby, please in my back yard, che quest’anno verrà celebrata ancora una volta da Assoambiente con la IV edizione del premio Pimby green.
«Il nostro Paese sta cambiando: raccontare l'Italia che cresce, in cui la cultura del fare soppianta quella del no a tutto, è l'obiettivo del premio Pimby green – spiega Chicco Testa, presidente Assoambiente – Il Pnrr rappresenta una straordinaria opportunità per mettersi alle spalle ritardi e colmare lacune, dando vita a una crescita economica più sostenibile e inclusiva. Ripensare con innovazione settori come l’energia, la mobilità, la gestione dei rifiuti, il rinnovamento del manifatturiero richiede necessariamente una cooperazione efficace tra pubblico e privato, indispensabile se si vogliono finalmente affrontare e risolvere criticità e gap territoriali, come la carenza di infrastrutture in molte aree del Paese».
Da oggi sono aperte le candidature alla quarta edizione del premio che, come da tradizione, intende valorizzare le opportunità espresse dalla realizzazione di opere di pubblica utilità, scardinando le convinzioni, spesso pregiudiziali, legate alle contestazioni Nimby.
Possono candidarsi al premio Pimby green 2023 Pubbliche amministrazioni, imprese, associazioni e giornalisti impegnati a promuovere il rilancio industriale dell'Italia con: la progettazione e realizzazione di infrastrutture strategiche per i territori e impianti industriali tecnologicamente avanzati; il confronto, il dialogo e la partecipazione per creare coinvolgimento positivo e responsabile nei cittadini; la pubblicazione di articoli e contenuti scientifici che contribuiscano a diffondere un'informazione trasparente volta a contenere il fenomeno dell'opposizione aprioristico a qualsiasi opera.
È possibile presentare la candidatura al premio scrivendo a assoambiente@assoambiente.org entro il 25 maggio 2023. Le proposte verranno valutate da una giuria che decreterà i vincitori, che saranno premiati nel corso di un evento promosso dall’associazione il 18 luglio a Roma. Il regolamento e tutte le informazioni per poter presentare le candidature sono disponibili su https://assoambiente.org/entry_p/News/news/14124/.
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Agricoltura in crisi climatica: a rischio 300mila imprese italiane

siccita

Non solo l’Italia ma anche gran parte dell’Europa, dalla Francia centrale e sud-occidentale alla Spagna settentrionale fino alla Germania meridionale, è stretta nella morsa della siccità.
«Solo in Italia sono circa 300mila le imprese agricole che si trovano nelle aree più colpite dall’emergenza siccità – spiegano dalla Coldiretti, la più grande organizzazione degli agricoltori italiani – Ma la situazione è preoccupante soprattutto per le forniture alimentari con la siccità che ha colpito le principali economia agricole dell’Unione Europea, già in difficoltà per gli elevati costi di produzione spinti dalla guerra in Ucraina. In Italia ad essere assediate dalla sete sono soprattutto le aree del centro nord con la situazione più drammatica che si registra nel bacino della pianura padana dove nasce quasi 1/3 dell’agroalimentare made in Italy e la metà dell’allevamento».
Dalla disponibilità idrica dipende la produzione degli alimenti base della dieta mediterranea, ma risultano già colpite anche le tipicità in altri Paesi come in Francia, dove crescono le difficoltà per le produzioni di fiori fino alla Spagna dove per la mancanza di precipitazioni soffrono le esportazioni di ortofrutta, fino alla Gran Bretagna dove il connubio con la Brexit ha portato all’avvio di alcuni razionamenti nei supermercati.
«Gli agricoltori italiani – commenta il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini – sono impegnati a fare la propria parte per promuovere l’uso razionale dell’acqua, lo sviluppo di sistemi di irrigazione a basso impatto e l’innovazione con colture meno idro-esigenti, ma non deve essere dimenticato che l’acqua è essenziale per mantenere in vita sistemi agricoli senza i quali è a rischio la sopravvivenza del territorio, la produzione di cibo e la competitività dell’intero settore alimentare. Abbiamo elaborato con Anbi il progetto laghetti per realizzare una rete di piccoli invasi diffusi sul territorio, senza uso di cemento e in equilibrio con i territori, per conservare l’acqua e distribuirla quando è necessario ai cittadini, all’industria e all’agricoltura».
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Al via nuovi studi per mappare il reticolo idrografico di Toscana e Liguria

mappa idrografica toscana

Mentre la siccità continua ad imperversare, l’Autorità di bacino distrettuale dell’Appennino settentrionale ha avviato le attività per effettuare nuovi rilievi topografici e per le modellazioni idrologiche e idrauliche sul reticolo principale di Toscana e Liguria.
Particolare attenzione verrà dedicata all’Arno, al Serchio, al Magra e all’Ombrone Pistoiese per quanto riguarda la Toscana e al bacino del Centa e dell’Entella per la Liguria. Si tratta di corsi d’acqua, individuati insieme alle Regioni territorialmente competenti, per i quali è necessario un aggiornamento modellistico e di aree in cui, a causa della forte urbanizzazione, gli approfondimenti sulle dinamiche del corso d’acqua risultano di particolare importanza.
«La collaborazione consentirà di portare avanti estese campagne di rilievo topografico delle sezioni idrografiche e delle aree alluvionali – spiegano dall’Autorità di bacino – E al contempo di aggiornare in modo omogeneo le modellazioni idrologiche e idrauliche sul reticolo principale. Le attività di rilievo e modellazione sono sinergiche, riferendosi agli stessi corsi d’acqua e risultando strettamente interconnesse tra di loro, e permetteranno di disporre, in tempi certi e coerenti con le scadenze della direttiva europea in materia di alluvioni, di un set di informazioni aggiornato, che tenga conto anche dei cambiamenti climatici in atto, e di nuovi modelli su cui impostare l’aggiornamento delle mappe di pericolosità e di rischio del Pgra».
Le attività in corso costituiranno inoltre un valido supporto per la progettazione delle misure di Piano e per il quadro conoscitivo degli strumenti di pianificazione urbanistica dei Comuni e quindi saranno messe a disposizione dei soggetti attuatori delle opere di difesa idraulica e delle amministrazioni comunali.
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Come si è evoluto il senso di equità. I macachi e l’ingiusta ricompensa

Come si e evoluto il senso di equita

Nonostante a volte non sembri, gli esseri umani hanno un forte senso di equità. Se riteniamo che le risorse vengano distribuite in modo iniquo o errato, di solito protestiamo. Questo comportamento di controllo promuove una cooperazione di successo e spiega in parte perché la cooperazione sia stata una strategia vincente nell'evoluzione umana. Per molto tempo, il senso di equità è stato considerato un attributo esclusivamente umano, poi gli scienziati hanno scoperto che anche gli animali reagiscono con frustrazione se una prestazione viene ricompensata in modo diverso, senza una ragione apparente, come nel famoso video in cui delle scimmie buttano via il cetriolo offertole dal loro addestratore mentre un loro conspecifico riceve uva dolce come ricompensa per lo stesso compito. Ma i ricercatori hanno osservato reazioni altrettanto frustrate di fronte a ricompense ingiuste nei lupi, ratti e corvi. I modelli comportamentali caratteristici possono essere riprodotti in modo affidabile in esperimenti su varie specie di uccelli, roditori e scimmie. Però, gli scienziati continuano a discutere sulle ragioni di questo comportamento: la frustrazione deriva davvero da un'avversione per la disparità di trattamento o c'è un'altra spiegazione?
Il nuovo studio “Social disappointment and partner presence affect long-tailed macaque refusal behaviour in an “inequity aversion” experiment”, pubblicato su Royal Society Open Science da un team di ricercatori  del Deutsches Primatenzentrum (DPZ), della Georg-August-Universität Göttingen e dell’Université Sorbonne Paris Nord, ha osservato il comportamento di macachi cinomolghi  (Macaca fascicularis, chiamati anche macaco di Buffon, di Giava e dalla coda lunga) utilizzando un approccio esplicativo alternativo in un progetto collaborativo. Il team di   Rowan Titchener, della Georg-August-Universität Göttingen ed etologo del DPZ, ha dimostrato che «I macachi cinomolghi rifiutano più frequentemente una ricompensa inferiore se viene selezionata e assegnata da una persona. Al contrario, se la ricompensa è fornita da un alimentatore automatico, l'accettano». I ricercatori concludono che «Le scimmie rifiutano la ricompensa per delusione sociale nei confronti dello sperimentatore, e non perché si sentano in svantaggio rispetto a un conspecifico».
Nel nuovo studio, i ricercatori hanno testato tre spiegazioni alternative per il comportamento di protesta a seguito di un trattamento ineguale. La prima ipotesi ipotizza "l'avversione all'ineguaglianza" e presuppone il confronto sociale con i conspecifici e un senso di equità e si basa sull'idea che il modello delle ricompense viene confrontato tra se stessi e gli altri in modo che possa essere percepito come ingiusto. La seconda ipotesi, "aspettativa di cibo", presuppone la visibilità del cibo attraente come fattore scatenante della frustrazione. Pertanto, se è visibile una ricompensa di alta qualità, l'animale si aspetta di riceverla. La terza ipotesi si basa sulla "delusione sociale" per la decisione del formatore di fornire una ricompensa inferiore.
I risultati del nuovo studio sui macachi cinomolghi  sono in linea con un precedente studio sugli scimpanzé e la Titchener sottolinea che «I modelli di risposta degli animali sono spiegati meglio dalla frustrazione per le decisioni dell'addestratore umano. Pertanto, i risultati attuali parlano a favore della terza ipotesi, basata sulla delusione sociale». Un’interpretazione supportata in particolare dal fatto che i macachi accettavano più spesso una ricompensa inferiore da un alimentatore automatico che da un essere umano.
Nell'esperimento i ricercatori hanno confrontato le scimmie in 4 diversi scenari ma con la stessa procedura: all'azionamento di una leva seguiva la ricompensa di cibo di bassa qualità consegnato da un piccolo nastro trasportatore. Sono state mostrate ricompense di alta qualità, ma sono rimaste fuori portata dei macachi. Il progetto sperimentale è stato variato in due modi: nel primo la ricompensa veniva fornita da un essere umano o somministrata da un alimentatore automatico; nel secondo l'animale era solo o un conspecifico ha risolto lo stesso compito mentre poteva vederlo, ma ha ricevuto ricompense di qualità superiore.
Le scimmie non hanno quasi mai rifiutato la ricompensa quando veniva fornita dall'alimentatore automatico, ma lo hanno fatto in oltre il 20% degli esperimenti in cui un essere umano ha offerto loro il cibo di minore qualità. Al  DPZ  dicono che «Questo modello comportamentale è coerente con la delusione sociale nei confronti dell'umano che decide di dare loro la ricompensa inferiore». La Titchener aggiunge: «Le scimmie non hanno aspettative sociali nei confronti di un distributore automatico e quindi non restano deluse».
Stefanie Keupp, leader dello studio al DPZ conclude: «Una combinazione di delusione sociale nei confronti dello sperimentatore umano e un certo grado di competizione alimentare spiega meglio il comportamento dei macachi dalla coda lunga nel nostro studio».
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