Stefania Andreoli e il caso della bambina uccisa a Catania: «Ignorati i segnali di allarme della madre»

di Carlotta Lombardo

La psicoterapeuta: «La figlia usata come medium per provocare dolore agli altri, ma attenzione a non cadere nella solita e infondata teoria del raptus. Resiste il mito della maternità sotto il segno esclusivo dell’esperienza bellissima, il problema è che il malessere ci spaventa»

Stefania Andreoli, lei è psicoterapeuta ed esperta di genitorialità. Cosa può portare una mamma a uccidere il proprio bimbo (come nel caso di Catania)?

«L’infanticidio e il figlicidio sono esiti drammatici di cause multifattoriali, che dipendono dal profiling del genitore, si intersecano con fattori di rischio ambientali e vengono infine classificati in base al movente: ci sono mamme che uccidono in modo “colposo”, a seguito di maltrattamenti reiterati; altre che lo fanno in preda al delirio psicotico; altre ancora che agiscono in nome di un intento fintamente altruistico, pensando con la morte di liberare il figlio da una presunta sofferenza o patologia, o addirittura da se stesse. Quello della piccola Elena parrebbe essere un omicidio compiuto secondo il cosiddetto complesso di Medea: la madre uccide per vendetta, rivolta generalmente verso il coniuge o l’ex coniuge. Sono i casi classificati come più rari, tra le ragioni di figlicidio materno: in queste circostanze, il figlio viene usato come medium per provocare dolore a colui che è percepito come il reale nemico, ovvero il padre nella sua veste di compagno o ex compagno».

Quali sono i fattori che possono scatenare un gesto così estremo?
«Sono diversi: l’isolamento e la solitudine di una madre lasciata nei meandri del suo dolore non riconosciuto e non curato, sono fattori di rischio ricorrenti. La giovane età anagrafica del genitore, spesso può costituire una criticità proprio per questo motivo: non perché si sia inadeguate qualora si sia partorito più precocemente della media, quanto perché non sempre si è sufficientemente sostenute e supportate. Scarsa tolleranza alla rabbia e alla frustrazione. Abusi o maltrattamenti subiti da bambine, che non consentono di costruirsi un’idea interiorizzata dell’infanzia come diritto dei piccoli che gli adulti devono tutelare. Difficoltà coniugali e relazionali, precarietà economica o lavorativa e scarse risorse cognitive, si riscontrano spesso sullo sfondo».

Ci sono delle avvisaglie a cui fare attenzione?
«È fondamentale non inciampare nella solita, infondata, teoria del raptus: la probabilità che, completamente dal nulla, questa notte una madre uccida suo figlio senza avere dato segnali di profonda sofferenza e difficoltà comportamentali e relazionali, è semplicemente impensabile – per quanto comprensibilmente episodi del genere ci sconvolgano perché smuovono le nostre pulsioni più fosche e mostruose: 1) il peggio che potremmo arrivare a fare quando siamo furiosi. 2) l’antica paura infantile che le minacce dei nostri genitori quando eravamo bambini potessero trasformarli nella matrigna e nell’orco delle fiabe più nere».

In che modo l’ambiente, la formazione culturale, può influenzare la persona che arriva a commettere un infanticidio?
«L’ambiente influenza anche nella misura in cui nega, minimizza e non supporta i segnali di sofferenza. Atti di violenza estremi che diventano l’omicidio del proprio figlio sono anticipati da segnali di disagio psichico, comportamentale e relazionale (chiusura, isolamento, scatti d’ira, percosse) che la nostra cultura non sempre riconosce e responsabilmente affronta. Il malessere ci spaventa, resiste il mito della maternità sotto il segno esclusivo dell’esperienza bellissima e appagante per la donna (quando invece è un evento sconvolgente e disgregante, sia della propria vita che degli equilibri neurobiologici), si ritiene che tra genitori e figli non sia opportuno intervenire perché il figlio è “proprietà” del genitore a cui non vada insegnato il mestiere, dunque non sia lecito intromettersi… l’ambiente insomma può sia essere a sua volta malato, che voltare lo sguardo dall’altra parte di fronte ai segnali di richiesta più o meno implicita di aiuto».

Esiste l’ineffabile nella realtà come quella di oggi in cui abbiamo la presunzione di poter controllare tutto?

«Psicotizzarci collettivamente sarebbe una reazione piuttosto folle e insensata: se vogliamo cercare di averne una rispettosa della dignità della vita e della morte di Elena, rendiamoci responsabilmente conto come adulti e come società civile che queste cose non dovrebbero accadere, ma accadono. Si stima qualche decina di casi l’anno, non tutti raggiungono le cronache. Concepiamo di pensare l’impensabile, sì da non ignorare che l’ineffabile esista nella realtà, non solo nella tragedia greca, e come tale andrebbe cercato di prevenire».

Nel caso della piccola Elena, gli inquirenti hanno parlato di «gelosia» dell madre per la nuova compagna del papà della bimba. Come dobbiamo pesare questo termine?
«Pensiamo a quanto possa essere percepito come fragile, un legame tra madre e figlia che si teme possa essere scalzato dall’arrivo sulla scena di un’altra donna. Quanto ci si possa sentire inconsistenti, sostituibili, perdibili. Nel gesto delittuoso, si mette tutta la propria onnipotenza».

Cosa la colpisce del caso di Elena?
«L’età della bambina. A 5 anni il legame con il figlio dovrebbe essere strutturato, la relazione ha una sua durata significativa e — si presupporrebbe — una sua qualità: l’affetto, la costruzione di un volersi bene, la conoscenza reciproca, i ricordi dovrebbero essersi instaurati. con un bambino di questa età l’adulto parla e interagisce in modo soddisfacente, diversamente dai casi di infanticidio in cui la piccola vittima è un partner relazionale meno partecipe e interattivo del bambino che ha già raggiunto tutta una serie di tappe di sviluppo. Porre fine a questo tipo di rapporto, farlo con un’arma da taglio, apre a riflessioni simboliche: la cesura, la separazione esercitate attraverso un’arma che pretende, per essere usata, di stare molto vicini».

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