Senza Enea e senza Anchise

L’epidemia o le generazioni mutilate, sottratte alla Pietas.
Per ragioni biografiche non mancherebbero motivi di riflessione ed angoscia sul futuro e sul senso di una vita nella pandemia.
I quarantenni e cinquantenni d’Italia, anche se beneficiati da buona salute e discreta busta paga, non dormono e non si svegliano troppo sereni con la minaccia di un’eventuale terapia intensiva e la realtà di una regressione economica disastrosa che pare risolvibile solo in scenari cinesi.
Penalizzati rispetto ai loro padri dall’entrata in vigore dell’euro e poi dalla crisi mai superata del 2008, i nati negli anni ‘70 ed ‘80 mai hanno, è vero, sperimentato sulla loro pelle le grandi tragedie collettive non risparmiate alle generazioni precedenti. L’11 settembre, le guerre del Golfo e gli atti di terrorismo in Europa non sembrarono poi molto differenti dai prodotti hollywoodiani che li avevano cresciuti, in aggiunta vi era solo il bonus extra di una possibilità di indignazione o di tifo partigiano a cena con gli amici.
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La pandemia li ha trovati dunque impreparati; era ed è una cosa troppo seria, la prima in esistenze graziate per troppo tempo da un’adolescenza prolungata oltre i limiti moralmente accettabili. Eccoli allora chiedersi se permettersi la corsetta mattutina o la passeggiata col cane a mezzanotte, cercare un bar aperto nell’imminenza del coprifuoco col brivido del resistente parigino mentre per le strade si aggira la Gestapo.
Eccoli leggere i bollettini col numero di contagiati, intubati, morti, vaccinati ed impensierirsi per il crollo del Pil nazionale. Eccoli deprecare un governo che mette in scena senza pudori il disastro di pensiero, sentimento e volontà di una generazione che è la loro. No, non mancano motivi di preoccupazione e di angoscia.
Dovrebbero però preoccuparsi di ben altro, uscendo dalle loro vite per entrarvi in realtà ancor più profondamente. Potrebbero farlo meditando un’immagine, una delle
immagini archetipiche del nostro Occidente: Enea che lascia Troia in fiamme portando sulle spalle il vecchio padre Anchise e tenendo per mano il figlioletto Ascanio. Col riverito fardello del passato e accompagnando il futuro, il pio Enea, principe di una civiltà ancora sacerdotale, lascia quel lembo d’Asia ormai abbandonata dagli Dei, come il greco Neottolemo annuncia sprezzante ad un altro vecchio e venerando, il re di Troia Priamo, prima di ammazzarlo ai piedi della statua di Zeus.
Il corso della storia si stava spostando altrove, ad ovest, nella nostra Europa mediterranea. Enea avrebbe portato padre e figlio proprio lì nel nuovo mondo, per far nascere una nuova civiltà, erede dell’antica sacerdotale ma dotata di un’inedita capacità di pensiero e di conquista della realtà terrena.
L’immagine di Enea nel crepuscolo accelerato di una civiltà e l’incertezza del futuro dovrebbe forse far interrogare più che sul senso della propria presente condizione sul destino e sul trattamento che stiamo riservando ai pesi sulle spalle e ai fanciulli che tendono la mano.
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Ai vecchi e ai giovani. Che ne è di vecchi e giovani, nella pandemia?
Gli anziani son rinchiusi in casa, impauriti ed intontiti dalla televisione che spesso è per loro unica fonte di informazioni, in file tremanti davanti a negozi e poste, segregati in ospizi senza nemmeno il fugace sollievo della visita settimanale dei parenti. Anche i dottori cominciano a negar loro attenzioni e inviano ricette via mail ai figli o direttamente alla farmacie dopo un consulto telefonico, pronti per la tele-medicina che esclude il contatto umano, base ovvia di ogni cura. Nell’attesa che di tutto ciò si occupino le intelligenze artificiali con algoritmi che sommando matematicamente i sintomi sforneranno la prescrizione precisa di un farmaco efficace.
I vecchi son lasciati soli dai medici del corpo. Che dire di quelli dell’anima? Anche i preti si fanno diafani, scompaiono. Per mesi non hanno celebrato il culto o lo hanno celebrato a numero chiuso. L’eucarestia, con la potenza del virus, è diventata un rischio come ai tempi delle catacombe. Sappiamo che tanti morti non hanno avuto una cerimonia funebre decente. Il papa argentino affetto da sciatalgia sa dare consolazioni non dissimili dalla retorica dei volti noti della tv, senza profondità spirituale e certezze sull’esistenza dopo la morte.
I nipoti, poi, un nonno non li può più abbracciare. È già stata una grazia se si sono seduti alla stessa tavola almeno per il pranzo di Natale. Anche se impauriti dalla prospettiva della morte perché “soggetti a rischio”, forse non pochi anziani si stanno chiedendo se è vita quella a cui sono obbligati. Forse si stanno chiedendo se non sia preferibile rischiare la morte per un bacio dalla nipotina, per aver gettato la mascherina mentre si arranca lungo il marciapiede con le buste della spesa. E una volta morti, cosa si porteranno dietro, nell’aldilà? In un aldilà, per chi ci crede, che ha anche effetto sulla realtà terrena, sul nostro al di qua?
Timore, solitudine, rabbia impotente, rassegnazione.
Si porteranno la certezza di esser stati abbandonati nell’incendio di Troia. Siano clementi con noi, se avranno realmente un qualche potere dal cielo sulla terra. La clemenza dei giovani nei nostri confronti sarà comunque meno scontata. Soprattutto se cerchiamo di immaginare che adulti diventeranno.
È cosa ardua riporre fiducia negli adulti d’oggi, che si barricano in casa per un nemico invisibile (i bombardamenti erano fin troppo concreti e dai rifugi sotterranei finalmente si usciva e si spalavano le macerie), che fanno la spesa solo on line per il timore del contagio da supermercato, che stanno attaccati al pc o allo smartphone ore ed ore per lavoro, che s’interrogano pensosi sul colore della loro regione per capire se ci si può concedere l’elementare libertà di una gita fuori porta. Ai più piccoli, bimbi in passeggino, si spalanca un panorama di uomini e donne mascherati, senza sorriso, senza strette di mani, baci e abbracci.
È lecito chiedersi quanto siano invogliati a crescere, che tipo di socialità svilupperanno.
Un capitolo a parte, su cui molto si è scritto ma sicuramente non abbastanza, andrebbe aperto sul disastro educativo in atto, sulla fine della scuola, sui danni della didattica a distanza. Preme comunque ricordare quanto l’invito a trasferire la vita nel mondo digitale non fosse affatto sano per generazioni già fin troppo lì proiettate. La deprivazione sensoriale e la mancanza di contatto reale con coetanei ed adulti accorti sta provocando tragedie quotidiane segnalate nella cronaca. Psicologi, psichiatri e pedagoghi sperimentano quotidianamente il fatto che pigrizia insana, depressione, autolesionismo, pensieri o gesti suicidi sono il risultato anche della scuola a distanza e della selva oscura dei social, dove si nascondono altri minorenni aggressivi ed orchi adulti. Gli adolescenti organizzano risse senza reali cause scatenanti, si tagliano la pelle e si soffocano per ridare un senso al loro corpo intrappolato negli schermi, per sondare la soglia del dolore, per un contatto fisico reale in un mondo sempre meno reale. Il rischio che diventino individui maturi ma deboli, insicuri, depressi, docili ad ogni potere, incapaci di affetto o peggio violenti come nei videogiochi con gli altri e con loro stessi è realissimo.
Arduo immaginarli mentre caricano sulle spalle i nostri corpi vecchi quando ci sarà il prossimo incendio.
Che dovrebbero fare, allora, quarantenni e cinquantenni che ben rappresentano il presente ma sentono un passato da salvare sulle spalle e vogliono accompagnare il futuro
tenendolo per mano?
Hanno una meta, una terra dove portare i vecchi e i giovani?
Hanno la speranza nel fiorire di nuova civiltà in un qualche altrove?
Se in piena pandemia non esiste terra sicura né isola felice, la meta dovrebbe essere una cosciente pietas, il ridestarsi del loro Io, di riconoscenza, devozione, responsabilità, coraggio e amore.
di Luca Negri
Fonte: La Confederazione Italiana.it

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