Quel folletto che mirava al cuore

Lucio Dalla sparì giusto dieci anni fa, lasciando il dubbio che non fosse mai davvero esistito, quasi un bozzolo brioso con lo zuccotto in testa e che abitasse in un mondo parallelo di elfi, maghi e fatine. L’ultima impressione di Dalla nella sua ultima apparizione al grande pubblico fu quella di un folletto anziano e bambino che si aggirava furtivo alla festa patronale della canzone, a Sanremo, sotto mentite spoglie, come separato dal palcoscenico e dai viventi, oltre il confine fiorito. Pareva postuma e surreale la sua partecipazione al Festival; sotto il palco, con quei capelli inverosimili, in un atto di vistosa sotto-valutazione, una voluta subordinazione/umiliazione sotto il palcoscenico. Ma come, c’è Dalla e sta lì a fare il badante, l’aiutante di retrovia a un ragazzo che canta? Ma come, non canta, non dice, non duetta con Morandi o con De Gregori? Mi parve distaccato, nel suo golfo mistico, giocava a fare l’intruso, venuto da un altrove verso cui invece stava andando.
A volte Dalla ti portava tra gli angeli con la leggerezza di una piuma, lui così peloso e buffo, leggendario come un hobbit. A volte cantava puntando diritto al cuore, e ci arrivava subito, come pochi. Tre note, due parole ed era già lì. Semplice, lieve. Apriti cuore, ti prego, fatti sentire. La sua verace umanità era dentro la sua spiccata italianità che era dentro la sua vistosa bolognesità che era dentro la sua elettiva meridionalità, da Tremiti a Caruso, l’inno più struggente della musica leggera. Una volta ero in terrazza in Marocco a fumare il mio sigaro meditativo della sera e il padrone di casa mise la sua musica preferita che la sera accompagnava il suo fumo: era proprio Caruso di Dalla, la mia prediletta, al punto che una volta volli dormire proprio in quella terrazza sul golfo di Sorrento per sentire tramite Dalla Caruso o viceversa.
E poi i suoi miracoli tra i vicoli di Roma, in Trastevere, e per la piazza Grande di Bologna, nella casa in riva al mare, il sogno di Futura e l’incanto lieve di Felicità, quel treno della notte che passa veloce e furtivo come una carezza nel sogno, la bellezza eterea e irriverente di “Se fossi un angelo”. Dalla emanava una religiosità cosmica e puerile, che si identificava con Gesù bambino, come nel suo autobiografico 4 marzo 1943. E anziché augurare stupidamente “in bocca al lupo” e poi dover rispondere “crepi il lupo”, o ancora più stupidamente replicare “viva il lupo”, accettando così che ci divori pur di non far male al lupo, Lucio tornava alla saggezza antica e ci avvertiva come nelle favole di stare “attenti al lupo”.
Poco interessato alla politica, amante del lato surreale e personale della vita, in un’intervista su la Repubblica del 2008 si definiva di sinistra, ma diceva di non amare la mentalità della sinistra, ed esortava a leggere e pensare con la propria testa, e non delegare i cambiamenti al collettivo. E aggiungeva: “si deve essere liberi intellettualmente. Invece ancora oggi, quando ho detto che Julius Evola è un artista degno di interesse, ho suscitato scandalo in una certa stampa di sinistra, in modo prevenuto e superficiale. Ecco, alla nostra sinistra è mancata la capacità di gestire e capire le inquietudini».
La prima volta che vidi Lucio Dalla fu al mio paese. Era venuto per quei veglioni degli anni sessanta; non si chiamavano concerti ma proprio veglioni. Per anni mio fratello Antonio mostrò orgoglioso la foto di quella sera con lui, vestito ancora in modo convenzionale, da personcina borghese con panciotto, di giovane età, credo 24 anni; io non capivo perché tutto quell’orgoglio, non era mica Mina, Celentano o Modugno con cui conservo una foto in braccio a lui in uno dei veglioni di fine anni cinquanta. Scoprì dopo la grandezza favolosa di Lucio Dalla che nel frattempo aveva cambiato modo di cantare e di vestirsi. Capì che anche la sua bruttezza aveva un preciso perché. Dalla diventò portatore sano di bellezza, ma mai si lagnò del suo aspetto fisico, lo accettò con amor fati, anzi lo considerò un dono.
Giocoso come un clown, poeticamente pagliaccio, stravagante negli scherzi e nelle trovate, oltre che nei generi musicali. Aveva a volte movenze inaspettate, la sua voce sapeva essere nostalgica e giocosa, intensa, lirica e metallica, sussurrante e imperativa, tenera e “urlettante”.
Il gran vantaggio di artisti come Lucio Dalla è che non hanno bisogno di vivere per parlare alla gente; basta la musica, che vola ma resta: quando le canzoni riescono a toccare così acutamente l’anima, essere così universali e pure così intime e personali, come se parlassero solo a te e alla tua vita, escono dalla biografa di chi le canta ed entrano nel mito, in quella specie di anfratto labile e perenne tra il gioco e il sentimento, irriducibile alla vita che finisce. Il mito non è finzione e non è realtà, è un’altra cosa, che porta alla verità passando dalla fiaba. E la musica, quando non è rumore, riempie il mondo ma non è di questo mondo. Dalla donò la favola alla musica.
In fondo le sue canzoni, come lo specchio di Dorian Gray, non patiscono il tempo, non invecchiano mentre lasciano andare l’autore lungo la via dei canti, senza interrompere negli altri l’emozione che suscita il suo passaggio. Dalla ha lasciato il suo tesoro al riparo dal tempo, traslocando tra le armonie celesti nel paradiso della musica. Sarà tre volte Natale e festa tutto l’anno…e senza tanti discorsi qualcuno sparirà. Ma sparire, come dice il verbo, significa solo smettere di apparire… “Adesso spengo la luce e così sia”.
MV, La Verità (27 febbraio 2022)
Fonte: Marcello Veneziani.com

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