Oggi, 4 novembre, una storia in divisa: la storia del maresciallo pluridecorato Antonino Rubuano

Nel carabiniere gli ideali di lealtà e onore e la normalità della vita quotidiana sono alla minima distanza e la divisa è una delle espressioni di questa continuità: rassicurante e riconoscibile quando vedi gli uomini che la indossano presidiare la nostra quotidiana normalità e nello stesso tempo simbolo secolare dei valori identitari e di appartenenza, fedeltà e impegno.

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Oggi, nel giorno dedicato alle Forze Armate e all’Unità nazionale, vogliamo ricordare coloro che, in divisa,  hanno perso la vita per difendere la legalità.

In particolare in questa giornata, ripercorriamo la storia di un uomo, un padre, un marito esemplare, un carabiniere e un triste episodio successo nella Tuscia nel 1980.

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Il maresciallo Antonio Rubuano, il cui vero nome è Antonino, è un papà in divisa e qualche volta fa provare il berretto al figlio Salvatore, che ha gli stessi occhi neri e che sogna di indossare un giorno quell’ uniforme. Antonio viene dalla Sicilia.

Appena uscito dalla scuola sottufficiali, fa parte dei famosi gruppi del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Durante il terremoto della valle del Belice, Antonio comanda la stazione di Poggioreale dove viene decorato con la medaglia di Bronzo al Valor Civile, Medaglia d’Oro e cittadinanza onoraria del Comune per aver salvato un carabiniere dalle macerie e fatto evacuare l’intera popolazione senza alcuna vittima. Il figlio Salvatore, che in quel periodo ha solo cinque anni, ricorda perfettamente l’immagine di suo padre in divisa, tra la polvere delle macerie, con il carabiniere ferito, appena salvato, fra le braccia.

Nel 1966 Antonio riceve un encomio solenne dal Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri per aver salvato una ragazzina che sta annegando durante un’alluvione.

Trasferito per motivi di servizio alla caserma di Montefiascone, in provincia di Viterbo, l’uomo che, per vocazione ha scelto di garantire agli altri la normalità e di difendere la legalità, sogna anche lui la sua normalità: una casa con vista sul lago, vedere i propri figli crescere, sistemarsi e diventare nonno. Sa che fare il carabiniere può voler dire uscire un giorno in servizio e non rientrare più ma gli hanno anche insegnato a convivere con questo pensiero; questo gli permette di garantire ai suoi famigliari il loro diritto alla normalità.

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Quelli attraversati da Antonio sono gli anni di piombo del terrorismo rosso e nero, del rapimento di Aldo Moro e della mafia più aggressiva e molti sono i carabinieri, poliziotti e magistrati che cadono in servizio, nell’adempimento del loro dovere. Antonio questo lo sa  ma è bravo a nasconderlo alla moglie Giuseppina (detta Pina) e ai tre figli: due  adorabili ragazze adolescenti e un maschio 19-enne; ormai un uomo. La famiglia di Antonio è una famiglia serena.

Antonio è anche un buon collega e un buon amico e conosce tutti i “veterani” della provincia che, come si usa nell’Arma, chiama per cognome, proprio come faceva il maresciallo Rocca: Cortellessa, Cuzzoli, Stefanini, Rubeca, Squarzolo, Leonetti etc.

Per quanto può, contribuisce alla normalità di tutti gli uomini del Comando Provinciale.

Alcuni hanno quasi la stessa età: Cortellessa (50 anni ), Stefanini (48), Rubuano (50).
Cuzzoli è  più giovane di loro.

Quell’11 agosto 1980 è una normalissima torrida giornata estiva che invita a pensare alle ferie e nessuno immagina che quel giorno la normalità deraglierà come un treno impazzito.

Nel capoluogo viterbese, in via della Pace, come si è soliti fare fra colleghi, si prende un caffè  velocemente allo spaccio della caserma, prima di iniziare il servizio. Ippolito Cortellessa dice a  Secondino Stefanini, collega che conosce da anni e amico di famiglia:
“Secondì, fra qualche giorno finalmente andrò in ferie, tornerò al mio paese, a Vivaro Romano a trovare i parenti, se Dio vuole”.

Due automobili  partono dalla caserma di via della Pace per un normale servizio di perlustrazione del territorio; in una salgono Cortellessa e Cuzzoli, nell’altra il capitano Moscatelli e Stefanini. Avviene una rapina alla filiale del Pilastro della  Banca del Cimino di Viterbo. Viene lanciato l’allarme e vengono diffusi gli identikit dei rapinatori. Cuzzoli e Cortellessa a Ponte di Cetti chiedono i documenti a due individui sospetti. Pochi istanti. I due carabinieri vengono freddati.
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A Montefiascone intanto Antonio si trova in caserma quando all’improvviso, come per un cortocircuito dell’esistenza, la normalità viene improvvisamente lacerata da un messaggio via radio: “C’è stata una sparatoria a Ponte di Cetti. Due carabinieri sono morti ammazzati”. Il colore osceno del sangue sull’asfalto bollente è un pugno nello stomaco per i primi soccorritori. A Montefiascone Antonio corre un attimo a casa; la naturale cortina di normalità che sempre innalzava tra sé, il suo mestiere e la sua famiglia non c’è più e il suo aspetto stravolto è più eloquente delle sue parole. Il breve passaggio in famiglia gli fa bene, si mette un po’ sul letto a riposare e, quando rientra in caserma, il quadro della situazione comincia a farsi più nitido: il commando che ha assassinato i due militari appartiene al gruppo di “Prima Linea” e si sospetta che stia procedendo in auto in direzione di Orvieto. Una delle vie più brevi per Orvieto passa proprio per Montefiascone e Antonio e un collega autista si mettono in strada su quello che presumibilmente potrebbe essere il percorso degli assassini o dei loro complici. Procedono ad alta velocità ma quel giorno il destino ha allineato una curva, un trattore lento e una macchina in senso contrario sulla corsa dei carabinieri; l’autista cerca di evitare l’impatto ma lo schianto è inevitabile e violentissimo e il mitra che Antonio teneva pronto per l’uso gli perfora l’addome causando lesioni mortali.

L’ autista riporta ferite gravi ma si salverà.

Da quel momento per una famiglia e per i colleghi il lutto, la perdita, il dolore e la memoria diventano una tragica, continua normalità.

La notizia fa rapidamente il giro della provincia e coglie il figlio di Antonio, Salvatore, in uno dei più consueti riti della normalità: una partita a tennis sente dire: “Hai sentito? A Viterbo sono morti due carabinieri”; “Non sono due ma tre; uno è di Montefiascone”. La normalità di Salvatore va in frantumi come il vetro di una finestra sfondato da una pietra e percepisce letteralmente il sangue gelare nelle vene. Telefona trafelato a casa; la madre lo ragguaglia: “È andato in servizio. Mi hanno chiamata dalla caserma, hanno detto che è successo qualcosa, un incidente forse è ferito”. Chiama in caserma: “Tuo padre è morto”. A lui spetterà il tragico compito di vederlo per l’ultima volta in obitorio.

Suo padre al collo ha la piastrina in metallo che riporta incisi nome,  cognome, data di nascita,  matricola e gruppo sanguigno.
I carabinieri la indossano per il riconoscimento in caso di ferimento o morte.

Quella divisa, diventata la sua normalità di tutti i giorni, che scandisce le stagioni passando dal colore chiaro estivo allo scuro invernale,  è lì davanti al figlio, rossa di sangue.

Ma quella divisa Antonio, Ippolito, Pietro, non l’hanno mai sporcata.

Antonio la indossa ancora là, dove è sepolto.

Il giorno 11/04/2011 viene conferita al maresciallo Antonino Rubuano l’onorificenza con la seguente motivazione:

“Per gli alti valori morali espressi nell’attività prestata presso l’Amministrazione di appartenenza nell’evento occorso in Montefiascone l’11 agosto 1980, quando rimase ucciso in un incidente stradale nel corso di indagini su alcuni terroristi.”

Antonio sarebbe  fiero di vedere la divisa indossata da suo figlio Salvatore,  capitano, ora coordinatore provinciale di Viterbo dell’Associazione Nazionale Carabinieri.

allievi carabinieri

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