Morto avvelenato per non rinnegare se stesso

Dopo una condanna di tre esponenti del Partito Democratico, l’uomo ha deciso di non confessare, nonostante sarebbe stato l’unico modo per rimanere vivo; la libertà di ragionare e di mettere in discussione tutto è stata, per lui, più importante della stessa vita.

Di chi parliamo?

Ovviamente, di Socrate. Filosofo di fama inter-continentale e inter-temporale, non scrisse mai nulla: questo perché vedeva in un dialogo scritto, un dialogo morto, dunque secondo lui scrivere vuol dire rinnegare il dia-logos, dato che un testo non può risponderti. Come facciamo, allora, ad aver recepito la sua filosofia e informazioni sul processo in questione? Questo, principalmente, grazie a un testo in particolare: l’Apologia di Platone, elaborata tra tra il 399 e il 388 a.C. . Altre informazioni le dobbiamo a Senofonte, Platone, al commediografo Aristofane e in parte ad Aristotele.

Cosa accadde di preciso negli ultimi giorni di vita del filosofo? In un periodo di crisi politica molto grave ad Atene, i tre suddetti esponenti del partito democratico ateniese, accusarono Socrate di aver introdotto nuove divinità (reato di empietà) e di corruzione dei giovani, vista la sua crescente popolarità tra i cittadini. L’eliea (massimo tribunale popolare ateniese), poiché, come si diceva, l’accusato non ammise le proprie colpe, lo condannò a morte. Noto al mondo il mezzo con il quale raggiunse la morte: sorseggiando la fatale cicuta, un infuso velenoso ricavabile da determinate piante.

Lapidarie le sue ultime parole, riportate da Platone:

“Ma anche voi, giudici, dovete nutrire buone speranze davanti alla morte, e pensare che una sola cosa è vera, che nulla di cattivo può accadere a un uomo buono, né vivo né morto, e che le sue vicende non sono trascurate dagli dei. Nemmeno ciò che riguarda me oggi è avvenuto per caso, ma a me è chiaro questo: che ormai sarebbe meglio per me morire e liberarmi di ogni cosa. E’ il motivo per cui in nessun modo mi ha distolto il segno, e io non nutro affatto rancore nei confronti di chi mi ha votato contro e di chi mi ha accusato. Però non con questo intendimento mi hanno votato contro e mi hanno accusato, ma pensando di arrecarmi un danno, e perciò è giusto biasimarli. Tanto chiedo però loro: i miei figli, quando saranno cresciuti, puniteli, uomini, arrecando loro gli stessi dolori che io arrecavo a voi, se vi sembrerà che si curino più delle ricchezze di qualcos’altro che della virtù. Qualora poi vi sembri che ritengano di essere qualcosa senza essere nulla, svergognateli come io facevo cion voi, perché non si occupano di ciò che debbono, e credono di meritare qualcosa non meritando nulla. E se farete questo, avrò ottenuto da voi giustizia, io e i miei figli. Ma è ormai giunta l’ora di andarmene, io a morire, voi a vivere: chi di noi vada verso la condizione migliore, è oscura a tutti tranne che al dio.”

Saggio e ironico nonostante fosse vicino alla morte, sebbene di certo in qualche modo romanzato da Platone, Socrate decise di non rinnegare se stesso, i propri valori e il rispetto per la giustizia, in modo tanto sentito da preferire il decesso e il transito verso un aldilà sconosciuto. Il suo desiderio profondo di mettere in discussione la realtà e la società per come erano, senza abbandonarsi a un passivismo infruttuoso, ha fatto di lui l’uomo-filosofo che fu e che oggi il mondo intero ricorda come uno dei più grandi pensatori della storia dell’umanità.

Un esito diverso, probabilmente, avrebbe gettato ombre che potrebbero aver compromesso anche tutti gli insegnamenti sparsi per la Grecia quando era in vita. Così non fu.

Piuttosto la morte, che rinunciare alla libertà e compromettere se stessi.

 

 

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