La solitudine dei bambini ai tempi del Covid. Ammaniti: “Sindrome da deprivazione sociale”

Niente feste di compleanno, niente giochi di gruppo e scarsi rapporti coi coetanei: la socialità spezzata dei bambini durante la pandemia. Lo psicoanalista Ammaniti: “L’esplorazione e la ricerca del mondo sono venute meno”.

Cristian frequenta la terza elementare e in questi mesi ha imparato che “il coronavirus è una malattia che ti fa stare molto male” e che “per non prenderla bisogna stare lontani”. “Per questo durante la primavera abbiamo fatto la quarantena, che mi ha stancato e annoiato tanto – dice – facevamo le lezioni sul computer e io non mi ci trovavo molto bene: vedevo le maestre e i miei amici sullo schermo e mi mancavano. Un’altra cosa che ancora mi manca tanto è la libertà di uscire quando voglio, di giocare con gli altri bimbi al parco, di andare dai miei cugini che hanno la mia stessa età e abitano lontani”. Cristian è uno dei tanti bambini che nei mesi della pandemia sono stati, come noi adulti, costretti a casa, privati della loro quotidianità, di spazi e rituali, dei rapporti scolastici.
I più piccoli, ma anche gli adolescenti, hanno vissuto tra le mura domestiche in un clima difficile, tra incertezze quotidiane e preoccupazioni di mamma e papà per il virus e per il lavoro. Bambini cresciuti senza altri bambini, soprattutto: la generazione che sta vivendo il Covid è stata privata delle feste di compleanno, degli incontri di gioco e, in qualche caso di età prescolare, perfino dell’asilo per i timori di contagio provati dai genitori.
“A scuola siamo tutti lontani e senza il compagno di banco. Durante la ricreazione mangio seduto e con gli altri gioco poco, perché le maestre ci hanno spiegato che dobbiamo sempre mantenere la distanza e quindi non ci possiamo muovere molto”, dice ancora Cristian. E sul suo Natale: “Quest’anno sarà diverso dagli altri perché io, mamma e papà non lo potremo festeggiare coi nonni, gli zii e i miei cugini. Vorrei abbracciarli e divertirmi insieme a loro, ma non si può”.
“Noi genitori cerchiamo di proteggere i nostri figli, ma sappiamo bene che per i bimbi non esiste solo il rischio legato al Covid: tenerli in una ‘bolla’ forse ci rassicura, ma li espone a una forma di isolamento sociale”, racconta Claudia, 34 anni, mamma di Cristian e della piccola Mia, che ha spento la sua terza candelina proprio durante il lockdown di primavera, senza poter festeggiare con gli amichetti. “Durante questi mesi, la mia figlia minore ha avuto spesso crisi di pianto, mostrando disturbi del sonno mai avuti prima e scarsa propensione a parlare. Quando io e mio marito dobbiamo uscire di casa sembra addirittura impaurita. Era una bambina abituata a stare all’aria aperta e a divertirsi coi coetanei, ora pare costantemente alla ricerca di rassicurazioni e dello sguardo di mamma e papà”.
A raccontare una storia di socialità spezzata giunge anche Alessandro, papà di Gaia, che di anni ne ha 5: “Nei mesi del confinamento mia figlia ha lamentato spesso la mancanza della sua amichetta del cuore, con la quale era solita incontrarsi nel parco del nostro quartiere. Ricordo ancora quando ad aprile, in pieno lockdown, l’ho scoperta a disegnare in bianco e nero, senza pastelli, un parco giochi deserto e triste in cui al posto dei bambini c’erano grandi fiori e alberi distanziati”.
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Per comprendere meglio la condizione dei bambini dalla vita sociale sospesa a causa del Covid, abbiamo parlato con Massimo Ammaniti, psicoanalista dell’età evolutiva, professore onorario di Psicopatologia dello sviluppo presso la facoltà di Medicina e Psicologia dell’Università di Roma e membro della International Psychoanalytical Association.
Ammaniti, reduce dalla pubblicazione del saggio E poi, i bambini. I nostri figli al tempo del coronavirus (Solferino, 2020), afferma che “il lockdown, con le scuole per l’infanzia chiuse e i bambini rimasti in casa, ha rappresentato un periodo di sacrificio che ha posto numerosi problemi. Prima di tutto, è stato complicato spiegare ai bambini perché non potessero più uscire, andare a scuola o al parco, incontrare i loro amici o anche solo giocare sul marciapiede davanti casa. In particolare non è stato semplice spiegarlo ai bambini in età prescolare: a tre anni non è facile capire perché da un giorno all’altro ci si ritrovi costretti in casa. Nella migliore delle ipotesi, si può provare a dire che fuori è pericoloso, ma c’è il rischio che il bambino inizi a vedere il mondo esterno come una minaccia”
“In secondo luogo – sottolinea il professor Ammaniti – sono mancati esperienze e stimoli sociali fondamentali: svegliarsi la mattina, prepararsi, essere accompagnati dai genitori, incontrare gli insegnanti e i coetanei. L’identità dei bambini è molto legata ai ritmi, alle abitudini, ai riti della vita quotidiana e ai suoi ambienti, per cui, venendo meno questi elementi, i rischi sono il disorientamento e l’insicurezza. La quotidianità, infatti, rassicura i bambini e li conferma nella loro identità e nel fatto di vivere in un ambiente mediamente prevedibile. Queste mancanze, insieme all’assenza di altri stimoli importanti (il confronto con altri bambini, i giochi di gruppo, le attività scolastiche), hanno creato una vera e propria sindrome di deprivazione sociale”.
“Sappiamo che, soprattutto in età prescolare, per i bambini è importante l’attaccamento ai genitori, che però è anche base per l’esplorazione e la ricerca del mondo, venute meno durante la pandemia. Questo genera conseguenze sia sul piano psicologico che su quello cerebrale, perché il cervello dei bambini è molto sensibile agli stimoli esterni e trae giovamento dalle esperienze” sottolinea Ammaniti aggiungendo che “alcune ricerche hanno messo in luce le difficoltà insorte nell’infanzia durante il periodo della pandemia: circa il 30% dei bambini ha avuto difficoltà e disturbi della regolazione emotiva, disturbi del sonno, irritazione, alti e bassi dell’umore, fino a comportamenti di opposizione, crisi di rabbia, ecc. Il cervello dei bambini è ‘plastico’, quindi è chiaro che con la ripresa della vita normale molti di questi disturbi passeranno, ma una parte relativamente consistente delle difficoltà resterà”.
“Va aggiunto – evidenzia lo psicanalista – che nei più piccoli è fondamentale quello che definiamo “Io Motorio”: andare a scuola, per esempio, implica attività che mettono al centro corpo e motricità. Nei primi anni di vita la cognizione corporea è fondamentale perché non rappresenta mero esercizio fisico, ma un modo per entrare in rapporto con gli altri e per conoscere il mondo”.
Kathryn Hirsh-Pasek, direttrice dell’Infant Language Laboratory della Temple University di Philadelphia, ha recentemente sottolineato come la mancanza di interazione sociale tra bambini possa addirittura influenzare negativamente lo sviluppo del linguaggio e di alcune abilità cognitive. È un rischio?
Sì. Il linguaggio e le abilità cognitive dei bambini, in particolare dei più piccoli, si sviluppano sia nel rapporto coi genitori che con i coetanei, gli insegnanti, ecc. Sappiamo inoltre che l’incontro coi coetanei crea possibilità di mentalizzazione, ovvero di comprensione del punto di vista altrui e di costruzione di una teoria della mente degli altri. Il rischio generato dall’assenza di contatti è che i bambini siano più concentrati su loro stessi. Con la crescita, questo può tradursi in un atteggiamento maggiormente autocentrato da parte del soggetto.
Prima della pandemia, eravamo abituati a sentir parlare di una generazione di bambini che viveva molto poco con i genitori, a causa di impegni lavorativi e quotidiani. La famiglia, insomma, era vissuta all’insegna di incontri meno frequenti e prolungati. Il confinamento ha cambiato le carte in tavola: il rapporto più stretto genitori-figli può essere un bene?
Solo in parte. Va sottolineato che i genitori in lockdown avevano problemi legati allo smartworking, all’affollamento domestico, alla sfera economica, alla paura del virus. Questo ha inevitabilmente fatto sentire i suoi effetti sui bambini, in maniera differente a seconda dell’età. Fino ai 3 anni, hanno colto di più il cambiamento dei ritmi quotidiani, hanno capito che il mondo esterno non era più raggiungibile, vivendo la condizione a livello implicito: lo hanno compreso, senza esserne consapevoli. I più grandi, invece, hanno percepito gli stati di animo e le emozioni dei genitori, assorbendone ansie, incertezze, timore del contagio.
C’è qualche indicazione da poter dare ai genitori in questa fase così delicata?
Per quanto possibile, bisogna fare in modo che i bambini in età prescolare frequentino la scuola dell’infanzia, anche se molti sono preoccupati per il contagio e preferiscono tenere i figli a casa. E poi accordarsi con altri genitori, favorire gli incontri tra i piccoli per salvaguardare la loro vita sociale.
Fonte: HuffPost.it

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