La professoressa e il neopuritanesimo social

Si può essere severi nella critica dell’azione pubblica. Ma la persona di buonsenso cerca di essere maggiormente tollerante quando il peccato attiene alla vita privata. Non soltanto “siamo umani e nulla di umano ci è alieno” ma, una volta o l’altra, tutti potrebbero aver bisogno di vedersi perdonato qualcosa. Proprio per questo, non è difficile sentirsi così a disagio nell’era in cui, puntando la pagliuzza nell’occhio altrui ed evitando di guardare la trave nel proprio, molti affidano la propria sentenza al tribunale di Facebook. Partner che un tempo si dedicavano elegiache dichiarazioni d’amore magnificando la sfolgorante bellezza della propria relazione, non di rado ne sanciscono la fine attraverso rabbiosi epitaffi che raccontano per filo e per segno di quella volta che lui ha guardato un’altra donna o ha fatto cilecca tra le lenzuola. Questo se si ha la fortuna di essere dei signori nessuno. Se poi si ha un ruolo pubblico, può bastare quell’unica volta in cui il malcapitato è stato beccato, negli anni ottanta, a ravanarsi il naso durante una lezione di filosofia, per vedersi dileggiato da qualche scherano del partito o dell’azienda avversaria. Scanzi, per esempio, per denigrare il Renzi uomo, ci racconta che il Renzi bambino – è noto che i bambini siano impeccabili modelli comportamentali – veniva soprannominato “Il Bomba” perché diceva qualche balla autocelebrativa che nell’era neopuritana è divenuto un supremo reato equiparabile alla pedofilia e all’associazione mafiosa. E in piena pandemia, in particolare, il neopuritanesimo è associato ad una nuova ondata moral-statalistica, al punto che basta davvero niente per mettere un piede in fallo e finire impalati in una gogna. Che, per essere “sul pezzo”, chiameremo “shitstorm”, letteralmente tempesta di merda, per i cultori del Galateo.
L’ultima vittima è uno studente padovano, prossimo alla maturità, che, accusato di aver copiato un tema da Internet, si è visto recapitare un significativo “1”: voto che, nella sua negatività, non lascia spazio a repliche. Certamente copiare è una truffa e lo studente ha meritato una punizione che si sarebbe trasformata anche in una denuncia se per caso il tema fosse servito per un concorso pubblico. Se si fosse fermata qui, nessuno avrebbe potuto biasimare la professoressa. Che, invece, è andata oltre, pubblicando sul proprio profilo Facebook la copia del compito col voto finale. Passando dalla parte del torto. La docente ha cercato di discolparsi asserendo di non aver pubblicato il nome dell’alunno ma sono giustificazioni irricevibili. Intanto, la calligrafia è molto personale. La mia, per esempio, che batte ogni primato di bruttezza, è facilmente riconoscibile. Inoltre, dal momento che sicuramente in classe tutti sapranno chi si è visto dare quel voto, sarà sufficiente che uno dei compagni divulghi la notizia per provocare al malcapitato la distruzione della propria reputazione, perlomeno nel contesto del suo istituto.
Infine, last but not least, quanto commesso dalla professoressa è reato.

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Dal momento che è stata denunciata dalla famiglia dell’allievo, sulla sorte della docente si esprimerà un giudice. E l’accaduto non meriterebbe ulteriori attenzioni se non si prestasse ad alcune riflessioni perfettamente “a fagiolo” col tipo di società civile che stiamo vedendo emergere negli ultimi anni.
Lord Acton è famoso per queste parole immortali, pronunciate nel 1887: “Power tends to corrupt, and absolute power corrupts absolutely”, il potere tende a corrompere [chi lo detiene], e il potere assoluto corrompe assolutamente”. Le autorità, in uno stato etico a regime statalistico, si credono spesso figure genitoriali e si comportano come tali. Hanno una certa idea del bene che cercano di inculcare ai loro sottoposti, che siano d’accordo o no. Pur considerando gli agenti della Polizia Stradale benemeriti per il lavoro duro e pericoloso che svolgono, accade che, in perfetta buona fede, a volte essi possano strafare. Indimenticabile per me fu, a tal proposito, una risposta stizzita che mio padre diede ad un agente che dopo averlo fermato per un’infrazione si mise a fargli la morale “Lei non è mio padre né il mio tutore. Il suo dovere, che non le contesto, è quello di farmi contravvenzione. Me la faccia ma mi risparmi la morale”. Aveva ragione mio padre. Che certamente aveva commesso un’infrazione – avendo alla guida il piede pesante – ma l’agente che aveva il potere giustamente di sanzionarlo non rappresentava il tutore del Bene ma semplicemente un signore messo lì per applicare una legge.
L’atteggiamento dell’agente – che peraltro viene invitato dai superiori ad educare i cittadini – aveva delle scusanti. Il fenomeno infatti ha una spiegazione di più vasto ambito: la tendenza umana ad identificarsi con l’autorità che si rappresenta. Altro caso esemplare, infatti, sono i magistrati. Alcuni di essi non comprendono che le sentenze non le emettono in base ad un personale potere come Salomone ma quale funzione pubblica dello Stato. Spesso – convinzione vellicata anche da alcune diseducative fiction – il magistrato si percepisce come oplita del bene, chiamato a “fare giustizia” in una perenne palingenesi morale mentre il suo dovere è solo quello di applicare la legge, anche qualora gli apparisse ingiusta. Sembra un’ovvietà ma non nel paese dove il giudice Corrado Carnevale, passato alla storia come “l’ammazzasentenze”, ancora oggi passa come fiancheggiatore dei mafiosi solo per aver assolto alcuni criminali da accuse che presentavano vizi di forma e talora persino di sostanza. In realtà quel giudice faceva semplicemente il suo dovere.
Non da meno, per tornare al titolo dell’articolo, sono i docenti. A scuola, ognuno di noi scopre ben presto che, salvo rari casi, non solo molti professori hanno una stima di se stessi raramente corrispondente alla realtà, ma mentre in pubblico esibiscono superiorità morale, in privato sovente raccomandano figli di amici e arrotondano i propri stipendi con lezioni private totalmente a nero, dimenticando che entrambe le cose costituiscono reato. E in fin dei conti, dato che tanti hanno qualche scheletro nel proprio armadio, nessuno li rimprovererebbe se non passassero tutto il tempo a salmodiare la propria superiorità morale.
Anche per questo, il moralismo della professoressa è insopportabile. Perché giunge dall’esponente di una delle figure più squalificate della pubblica amministrazione. Che, contrariamente alle credenze correnti, non ha alcun compito educativo ma detiene unicamente quello di insegnare, attraverso le nozioni, un metodo di studio e di approccio alla realtà.

Sembrerebbero cose scontate da dire. Invece, vedendo come sia sufficiente essere antipatici a blogger molto seguiti e potenti, per vedere qualsiasi incoerenza, contraddizione, debolezza, divenire pretesto per una gogna sommaria, si arriva alla conclusione che questi siano tutti discorsi inutili. Se i gerarchi del moralismo puntano il dito contro una città, una curva, un’azienda, una persona, essa sarà sempre colpevole e immeritevole di alcun tipo di difesa, in barba allo stato di diritto, ormai completamente soppiantato dallo stato reputazionale, che non fonda la sua autorità sul divieto ma sulla distruzione dell’autostima di chi trasgredisce.
E in una fase storica dove si crede che il male si annidi in qualche tifoso che espone qualche striscione politicamente scorretto o vocalizza qualche ululato razzista; nello studente che copia goffamente senza saperlo fare; nello sfigato che tocca il culo ad una giornalista dapprima misconosciuta e poi divenuta l’archetipo del neofemminismo isterico contrapposto al Bene, rappresentato dai cicisbei del perbenismo, si scopre in realtà che la civiltà neopuritana è orribile, violenta, bulla. Fino ad arrivare al paradosso che le lezioni di tolleranza, di educazione, di democrazia, di pacatezza, vengano sempre da intolleranti, maleducati, antidemocratici e violenti.

FRANCO MARINO
Fonte: Il Detonatore.it

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