Kobe Bryant, un anno senza Black Mamba

Esattamente un anno fa, il 26 gennaio 2020, è scomparso il campione dell’Nba Kobe Bryant. E mentre la città dove è cresciuto, Reggio Emilia, lo omaggia intitolandogli una piazza, Wired fa il punto sulla sua eredità.

È passato un anno esatto da quando Kobe Bryant, il volto simbolo della pallacanestro, se ne andava tragicamente, insieme alla figlia Gianna e ad altre sette persone. Trecentosessantacinque giorni dopo ci chiediamo quale sia la sua eredità, che cosa significa oggi rivedere le immagini di lui con la maglia dei Los Angeles Lakers chiusa tra i denti che diventa un’icona sportiva trasversale, un punto di riferimento oltre la sua disciplina, oltre l’NBA che partorisce campioni a ritmo continuo.
Per noi italiani è stato sempre diverso dagli altri assi della palla a spicchi. Perché, dai sei ai 13 anni ha seguito il padre Joe, giocatore professionista, a Rieti, Reggio Calabria, Pistoia, Reggio Emilia… Quindi, aveva imparato da noi a stare in campo. Gli avevamo insegnato innanzitutto i fondamentali, come gestire il pallone, usare i blocchi, tagliare fuori la parte più legata allo show e all’esibizionismo che oltreoceano tanto piaceva. Innumerevoli volte avrebbe ringraziato la sorte per quel dono. Ma l’NBA era il suo sogno, e per lui l’NBA (come per tutti) in quegli anni significava soprattutto il 23 di Chicago, His Airness: Michael Jordan. Pur di poterlo affrontare, aveva rinunciato alle offerte di alcune tra le più grandi università degli States, era passato dai trionfi dell’High School a Filadelfia al draft NBA; poi è stato preso al primo giro dagli Hornets per finire ai Lakers in cambio di Divac. Il resto, come si suol dire, è storia. Ed è la storia di un ragazzo che ha guardato negli occhi il più grande la prima volta il 17 dicembre 1996. In realtà, ha giocato poco quel giorno, solo 10 minuti, ma ha segnato cinque punti. L’anno dopo si sono ritrovati ancora l’uno di fronte all’altro. Kobe ha iniziato a prendere sempre più lo spazio che sognava di avere: i Bulls di Jordan erano in vantaggio, +12, poi Kobe ha afferrato la palla, sfidato direttamente MJ e infilato due canestri. Alla fine ha fatto 33 punti, ma Chicago ha stritolato comunque i Lakers per 104 a 83, solo Black Mamba si è salvato nel marasma. Durante una pausa, Kobe ha chiesto al più grande di sempre come fare per un certo movimento. “Devi sentire con le gambe la posizione del difensore”, è stata la risposta. Ecco: in quel piccolo istante, e nessuno lo sapeva, un testimone è passato di mano. Il 24 che veniva dopo il 23.
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L’anno scorso al funerale, Michael Jordan in lacrime ha raccontato che cosa ha voluto dire far entrare Kobe Bryant nella sua vita: accettare telefonate alle ore più assurde; discutere all’infinito di tecnica, di possesso, del Triangolo che lui a Chicago aveva reso immortale; avere un pupillo, un fratellino, con una certa idea di leadership e una certa etica del lavoro, che è passato dall’essere amato come il nuovo che avanzava a essere sovente detestato. Non solo dai tifosi avversari, che vedevano anno dopo anno quel ragazzo guidare i Lakers a trionfi e successi, ma anche da chi non digeriva il suo modo di stare in campo, di essere un capo. Di essere Black Mamba. La sua filosofia di stare addosso al basket 24 ore su 24 era simile al #23 di Chicago, però diversa per applicazione e teatralità, così come è stata diversa la sua vita. Bryant era un bad boy per molti: duro e spietato, non esitava ad esserlo con i compagni, anche a costo di rovinare i rapporti personali, di farlo di fronte alle telecamere pur di ottenere il massimo. Usava spesso parole forti con chi non era in linea con il suo racconto, che lui stesso ha concepito e scritto fin da ragazzino.
In Kobe, molto più che in Jordan, era palese la doppia personalità, il suo essere ora Bryant ora Black Mamba. Se vi impressionano i racconti sui sacrifici, gli allenamenti, la dimensione fanatica nella ricerca della perfezione di Cristiano Ronaldo, quelli del numero 24 vi lasceranno di stucco. Per esempio: si portava dietro il personal trainer e la guardia del corpo per una biciclettata di 40 miglia dopocena; veniva beccato da Ron Artest allenarsi da solo due ore prima della sessione collettiva e fare 400 tiri alla fine di ogni giornata. Con lui, il sogno americano, è diventato l’ossessione americana.

“La gente”, ha detto una volta “semplicemente non capisce quanto io sia  ossessionato dalla vittoria”. Insomma, una fedeltà totalizzante al basket, al perfezionismo. Michael Jordan sovente è stato trascendenza. “Chi è come Dio?” è il significato del suo nome in ebraico. La fatica, i sacrifici, gli sforzi, gli errori che ha fatto sono scomparsi spesso nella sua epica vincente, nel miracolo dei Bulls, nella dimensione di essere semi-divino del basket, a cui tutto pareva accessibile. Kobe, invece, rivendicava la fatica e il dolore, li palesava, li mostrava come ricetta del successo mentre faceva muro contro muro con l’indolente Shaquille O’Neal o faceva impazzire Phil Jackson. Per il grande pubblico Kobe era la belva immortalata in immagini fantastiche, guidata da una ferocia agonistica totalizzante, un vincente spietato e indomabile.
Allora perché tutto questo amore? Perché tutte le lacrime degli ex compagni, degli avversari, degli amici, della gente comune a ogni latitudine un anno fa? Perché Kobe Bryant metteva tutto se stesso in quel pallone. Ed era sorretto da una coerenza infinita, da una disciplina da samurai, da una classe e da una maestria dirompenti. Il primissimo ad arrivare, l’ultimo ad andarsene, era l’uomo che abbracciava le responsabilità più scomode nelle partite più pesanti. Ma era solo una parte della sua complessa personalità. Kobe Bryant era anche il mentore disponibile per tante matricole, il compagno che ti consigliava nei momenti ostici, che ti mostrava apertamente la ricetta per diventare il numero uno. Più è andato avanti nella carriera, più si è mostrato aperto e morbido con le nuove generazioni, ha abbracciato una dimensione paterna. Il suo essere di erede di Michael Jordan, a cui si è avvicinato più di tutti senza però eguagliarlo, lo ha portato a diventare l’uomo simbolo dell’NBA a cavallo del 2000, a monopolizzare l’attenzione mediatica così come monopolizzava il gioco. Non a caso, anche Kobe si è cimentato con successo nella narrazione cinematografica: Dear Basketball, anno 2018, Oscar per il Miglior corto d’animazione.

Al netto di tutto questo, è rimasta però l’ombra dell’accusa di stupro del 2003, quella notte in Colorado su cui ancora oggi non c’è chiarezza. La statua di perfezione che ha vacillato, le bugie che si sono accavallate, da parte di Kobe e della ragazza; alla fine tutto è finito con una causa civile. Nessuna verità finale, nessuna condanna ufficiale dai tribunali: Bryant ha pagato un risarcimento e, anche se la cosa è stata liquidata come un “misunderstanding situazionale”, è rimasta una crepa profonda nell’immagine impeccabile di Black Mamba. Che si è scoperto essere stato spesso infedele alla moglie Vanessa. Nel 2011 lei ha chiesto il divorzio, era esausta. Dopo due anni anni la riconciliazione, la terza e poi la quarta figlia. A molti è parsa la conferma della sua capacità di lavorare su se stesso. Nessuno si sarebbe saputo riprendere da uno scandalo simile. Lui, invece, a dispetto di tutto è rimasto lassù in cima.
Già allora, di fronte a quell’oscuro momento in cui Kobe è parso andare in pezzi, si è discusso a lungo se idolo sportivo e persona andassero divisi. Oggi, la risposta che possiamo dare, bene o male, è la stessa che si dà quando si parla di Diego Maradona: Bryant, il più giovane di sempre a vincere tre titoli di fila (cinque in totale), una sfilza di record infiniti e di primati, il ragazzo prodigio che è diventato il nuovo profeta del canestro, ha oggettivamente significato tantissimo per milioni di persone. Ha colmato un vuoto, è stato il simbolo di una gloria fatta di sangue e sudore, ha regalato magie in campo, vinto e superato record su record; è stato speranza per i tanti ragazzini persi nei ghetti, mettendo in mostra un carisma e personalità uniche. Insomma, per la Generazione Y è stato più presente, più importante di His Airness. E per i tanti assi dell’NBA venuti dopo, l’ideale a cui aspirare. Un esercito di bambini e bambine ha preso un pallone da basket grazie a lui, e ha anche abbracciato l’etica del sacrificio che lui portava come uno stendardo. Kobe Bryant non è mai apparso come un benedetto dagli Dei, non ha mai perso occasione per far capire che riuscire o fallire dipendeva dal mettere in gioco o meno ogni oncia della propria persona e anche per questo la sua tragica morte ha creato un vuoto incolmabile.
Fonte: Wired.it

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