I sintomi di una democrazia malata

Una malattia ha due fasi. Una iniziale dove i sintomi sono impercettibili al punto che nessuno li identificherebbe come correlati al male, l’altra dove invece i sintomi esplodono, rendendo difficile la vita al paziente. Quando mio padre era ancora relativamente giovane e nulla dava da pensare che si sarebbe gravemente ammalato, per quegli strani e perversi meccanismi che ogni tanto animano la mia mente, mi chiedevo se si sarebbe ammalato e di cosa. E curiosamente, non immaginavo né tumori, né infarti né altre cose. Mi immaginavo due cose: un incidente stradale, avendo il piede pesante, o che si sarebbe ammalato di Parkinson, cioè proprio la malattia di cui si ammalò. Quando, amaramente confidai la cosa al suo neurologo, lui mi disse che in realtà non gli avevo portato sfortuna ma che istintivamente avevo già intuito qualche segnale. E infatti il Parkinson, prima di esplodere, ha una fase latente in cui il paziente sta benissimo, pur avendo alcune piccole cose. Cosa che non è esclusiva del Parkinson. La temutissima AIDS, per esempio, ha una fase acuta che avviene subito dopo il contagio, in cui i sintomi sono quelli di una normale influenza, per poi andare in letargo e svegliarsi anni dopo, con gli esiti che tutti tristemente conosciamo. E così è difficile anche capire le malattie che infestano una comunità. Il problema non è che le malattie siano asintomatiche. I sintomi li danno eccome. Ma spesso non siamo in grado di distinguerli, per esempio, da una normale influenza.

La malattia che sta uccidendo la democrazia non si è manifestata con la guerra in Ucraina e neanche col covid. Ha origini ben remote. Ha una patogenesi in parte genetica, dunque rappresenta un difetto di fabbricazione del nostro paese, in quanto che i geni sono esemplificati da una Costituzione disegnata per costruire governi instabili e ricattabili. In parte è figlia di problemi ambientali, dovuti per esempio ad un paese che non ha mai superato la guerra civile tra fascisti e antifascisti. Infine è esplosa, stupendo tutti. Come è potuto succedere che le classi politiche siano divenute i carcerieri dei propri cittadini? Come è possibile che si espellano i professori dalle università? Quesiti ingenui per chiunque abbia vissuto a sufficienza da ricordarsi com’era il nostro paese prima e dopo il covid e dunque testimoniare la difficoltà di opporsi alle narrazioni ufficiali, che peraltro in una democrazia non dovrebbero esserci. E quando il potere impone una narrazione tale da rendere difficile la vita a chi la contesta, non è compiutamente libero. In un paese sano, di fronte ad idee ritenute poco ortodosse, ne nasce un dibattito. Si dialoga, si discute. Poi magari scopro che forse le mie idee sono un po’ troppo estreme e allora le ammorbidisco. A questo servono i dibattiti. Nei paesi democratici. In quelli antidemocratici, il perbenista – che si atteggia a democratico e in realtà è un fanatico – se sente dire certe cose, si indigna. Chiude la porta in faccia. Espelle l’avversario dialettico dalle sue amicizie. Come se la cosa lo riguardasse personalmente. Mentre un paese democratico non ha verità ufficiali. Ha verità che si affermano sulle altre attraverso il dibattito, la dialettica, ma senza pretendere che le altre vengano taciute. Che si esprimano pure. Se sono valide, soppianteranno quelle ufficiali. Si chiama democrazia.
Un altro sintomo è il rinfacciamento di riconoscenza di fronte ai dubbi sulla narrazione dominante. Specialmente con la guerra in Ucraina, molti dicono che dobbiamo essere riconoscenti all’Occidente per averci dato la democrazia e che se contestiamo qualcosa, allora siamo amici di Putin. E qui c’è da trasecolare. E’ senza dubbio vero che in caso di conflitto, un cittadino che voglia definirsi tale, dovrebbe combattere per il proprio paese, anche prendendo le armi. Ma proprio per questo, e cioè perché ne va del suo prezioso sedere, ha tutto il diritto di contestare le scelte del suo governo. Altro sintomo ancora: la scuola che si trasforma da trasmettitore di conoscenze e formatore culturale, in indottrinatore di partito. E qui ho un aneddoto personale da riferire. Si era nel lontano 1998 e un mio tema dove si parlava dell’Euro, molto critico, fu punito dalla professoressa pidiessina del tempo con un giudizio che è rimasto scolpito nella mia mente: “Tema stilisticamente perfetto ma dove si sente l’odore dell’olio di ricino. Voto 6”. Cosa che mi lasciò interdetto, dal momento che io il fascismo non l’avevo nominato manco di sbieco. Quando diversi anni dopo ebbi modo di incontrarla, ormai pensionata e oltretutto saltata dall’altra parte, in Forza Italia, le chiesi scherzando “Cara prof. Ma lei si ricorda di quando mi mise 6 solo perché non era d’accordo con me?” e lei allargando le braccia mi fece “Certo che mi ricordo, e ti andò pure bene. Perché anche se quel tema valeva molto di più, io in realtà ti avrei dovuto mettere 4. Perché se fosse stato letto da qualcuno in alto, io avrei addirittura rischiato di perdere il posto”. Certificando così il regime.

Se ho riferito questo aneddoto (ma ne avrei decine da raccontare, personali e non) è solo per far presente a chi ancora oggi si chiede come sia possibile che siamo sprofondati in una dittatura, che il nostro paese già negli anni scorsi era affetto da una cappa devastante, che premeva contro ogni pensiero libero, contro ogni vera spinta anticlericale, intesa come opposizione a qualsiasi forma di clero religioso o laico, contro ogni forma di pensiero liberale. Erano sintomi latenti (in verità neanche tanto latenti) che denunciavano una malattia pericolosa. Che oggi è scoppiata in tutto il suo fragore. E contro cui non c’è difesa, se non una cura dolorosissima, un’autentica “denazificazione” che, come una chemioterapia, inevitabilmente dovrà uccidere anche alcune cellule sane. Ma che non ha alternative. Se non la fine della cultura democratica. Non è vero che una malattia non dia sintomi quando è ancora benigna. Semplicemente li sottovalutiamo, pensiamo che in fin dei conti non è grave se ci mettono un brutto voto nei temi perché non lodiamo l’Euro, non è grave se un virologo chiama somari tutti quelli che non credono nei vaccini, non è grave se ci cacciano di casa perché diciamo di aver votato Casapound (cosa che successe a me alcuni anni fa) non è grave se si consente ad una giornalista e blogger di farsi forza del suo seguito e insultare chiunque le capiti a tiro, perché in fondo sono cose di poco conto. E invece no. A furia di aver sottovalutato la malattia quando era benigna, adesso è diventata maligna. Prima bastava una pomata, ora occorre una dolorosa chemioterapia, forse un’amputazione.
E potrebbe persino non bastare.

FRANCO MARINO
Fonte: Il Detonatore.it

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