“Ecco come si cura il Covid a casa”

Andrea Mangiagalli, medico di medicina generale dal 1987 e membro dell’Associazione Terapie domiciliari Covid-19, spiega come curare il Covid a casa.
Curare il Covid a casa non è un’assurdità. Il gruppo di medici raccolti dall’Associazione Terapie domiciliari Covid-19, fondato dall’avv. Erich Grimaldi, è impegnato, sin dall’esordio della pandemia, nella cura casalinga di malati Covid. L’Associazione si è scontrata con le linee guida AIFA, che consigliavano una vigile attesa all’esordio dei sintomi, e ha ottenuto che il Senato approvasse un Odg che impegna il governo a rivedere le linee guida.
Di tutto questo ne abbiamo parlato con il dott. Andrea Mangiagalli, medico di medicina generale dal 1987 e membro dell’Associazione Terapie domiciliari Covid-19.
Come funziona l’associazione Terapia domiciliare Covid?
“Il gruppo di medici, di cui faccio parte, viene contattato dalla pagina Facebook Terapie domiciliari Covid-19. In tempi abbastanza rapidi uno dei medici disponibili in quel momento viene contattato dalle moderatrici del gruppo e chi dà disponibilità prende in carico il paziente. Se si trova nell’ambito territoriale del paziente si riesce a fare anche una valutazione domiciliare”.
Come si cura il Covid a casa?
“Sembra quasi una bestemmia considerando quello che sentiamo dire ogni giorno. Fortunatamente la maggior parte dei pazienti ha una evoluzione benigna della malattia ma, per la legge dei grandi numeri, la quota piccola che sviluppa la malattia in maniera più severa è sotto gli occhi di tutti. Se i numeri di ricoveri e mortalità continuano ad essere elevati è evidente che c’è un rifornimento continuo di malati che si complicano e che arrivano in ospedale in fase avanzata. Questa malattia può essere intercettata precocemente non facendo, banalmente, una vigile attesa ma facendo una vigile operatività. Diciamo che il tempo medio di intervento per capire se iniziare una terapia e nell’ordine delle 24-48 o 72 ore se il paziente si mette in contatto presto. Tenga conto che noi spesso siamo contattati da pazienti che hanno sviluppato sintomi già da 6-7 giorni ma che non hanno assunto farmaci”.
Che quindi hanno aspettato facendo una vigile attesa come suggerito dalle linee guida Aifa.
“Il consiglio di effettuare una vigile attesa andrebbe stratificato per fasce di rischio, cosa che Aifa non fa. Fare la vigile attesa per un soggetto mediamente in buona salute, giovane e senza patologie è sicuramente ragionevole. Nella fascia over 50 è importante stratificare il rischio con maggior attenzione. Se andiamo a guardare le fasce di mortalità vedremo che è dopo i 50 anni che il rischio aumenta e che c’è un aumento progressivo per ogni decade. Quindi l’età ed eventuali patologie preesistenti al Covid indicano i pazienti che non andrebbero messi in attesa. Non parlo solo di gravi patologie debilitanti ma anche di un diabete ben compensato, di una obesità addominale o di una iniziale perdita di funzionalità renale. Queste sono già condizioni ad alto rischio per il Covid”.
Rispetto a un anno fa com’è cambiata l’esperienza dei medici nella cura del Covid?
“Il nostro gruppo è partito il 27 febbraio di 2020. Un mese dopo, noi più esperti del gruppo, decidemmo di stabilire una terapia che è quella che pratichiamo ancora oggi. All’epoca riscontrammo subito una risposta positiva nei pazienti che trattavamo. Poi c’è stato lo stop dell’AIFA e degli organismi internazionali sull’utilizzo dell’idrossoclorochina. Stop arrivato dopo un lavoro pubblicato su Lancet e poi ritirato. Poi c’è stata la vittoria al Consiglio di Stato che ha riammesso, pur con dei limiti e con un consenso debitamente informato, l’utilizzo di questo farmaco. Poi sono uscite una serie di reprimende sul fatto che si dava il cortisone troppo presto, poi ci hanno rimproverato per l’uso di antibiotico… È stato tutto un tendere al limitare o a dare dei consigli sul non fare che ha creato difficoltà a chi ha provato a curare la malattia. Noi ci siamo resi conto che i risultati c’erano. Gli altri si sono attenuti alle regole che hanno dato e hanno fatto quello che hanno potuto”.
Il Senato ha votato un Odg che chiede che impegna il governo Draghi a variare “i protocolli e linee guida per la presa in carico domiciliare dei pazienti Covid-19 tenuto conto di tutte le esperienze dei professionisti impegnati sul campo”. È una vittoria per voi.
“Non vorrei che si trasformasse in una vittoria di Pirro. È una vittoria avere portato così in alto loco le nostre idee che, voglio specificarlo, non sono solo nostre. Qui si pensa che ci sia un gruppo di scalmanati che ha deciso di fare una cosa originale e fuori dalla logica medica ma invece ci sono fior di lavori nella letteratura internazionale che parlano di intercettare i malati precocemente e di non attendere inutilmente. Per altro la fisiopatologia di questa malattia è ben nota, per lo meno a chi ha voluto documentarsi, e c’è una fase in cui la malattia può virare da una fase tranquilla a una molto più grave che non è un tempo infinto, dall’esordio dei sintomi può essere la quinta o la sesta giornata. Da quando ci contatta il paziente può essere la terza quarta. Non è una malattia che ti consente di avere dei margini enormi di tempo da sprecare”.
Monoclonali e plasma iperimmune potrebbero davvero essere utili per la cura della malattia?
“Gli anticorpi monoclonali sì e no. Questi farmaci funzionano molto presto nella malattia e deve prescriverli il medico di famiglia. Però i monoclonali non sono presenti ovunque, non ci sono nel piccolo ospedale di provincia, isolato dal contesto urbano. Probabilmente i monoclonali ci sono nei grandi ospedali cittadini, in pochi di loro, e non sono nemmeno disponibili per i numeri dei pazienti che abbiamo oggi da trattare. È una procedura che deve essere fatta per endovena, se funzionano bene è un vantaggio per tutti ma portarli capillarmente ai primi sintomi a tutti i pazienti, magari fuori da grandi città, la vedo piuttosto difficile. Pensiamo ai paesi del centro Appenino dell’Italia, alla Sila profonda o al centro della Sardegna, raggiungere un ospedale dove ci sono i monoclonali è impossibile. Ma anche io qui a Milano non saprei dove indirizzare un mio paziente per andare a fare i monoclonali. A meno che non si pretenda, come si sta facendo dall’inizio, di dover portare tutti i pazienti per forza in ospedale. Quindi oltre a quelli che entrano per il pronto soccorso ci devono entrare anche quelli che vanno a fare i monoclonali. Non credo che gli ospedali siano pronti ad affrontare questa massa di persone”.
E il plasma iperimmune?
“Avrebbe dovuto essere raccolto prima, in tutti gli ospedali. Non so quanto sia stato raccolto. Tra tutte le persone che conosco, amici e pazienti che ho trattato e che hanno avuto il Covid-19, conosco solo una persona, in Liguria, che è stata chiamato e le è stato prelevato del plasma. Lo studio Tsunami italiano non sembra aver dimostrato una efficacia elevata. Quindi di fatto siamo al punto di partenza. Non sappiamo se funziona, non sappiamo chi ce l’ha, non sappiamo quali sono i pazienti che devono essere trattati. Ritorniamo alla casella del via”.
È possibile che gli ospedali siano così sovraffollati anche per una cattiva gestione di quei casi di malati che potevano essere curati a casa?
“Penso di sì, senza ombra di dubbio. Il problema è che non è stata preparata una rete territoriale per la gestione di questi malati. Lei pensi che se io volessi curare a casa dei malati che hanno bisogno di esami specifici come elettrocardiogramma, prelievo, ecografia e volessi farli a domicilio, io a Milano, nella provincia di Milano dove lavoro, non ho la possibilità di farlo. E parlo di esami molto semplici da eseguire a domicilio. Al momento si è preferito concentrare tutte le risorse negli ospedali, potenziando le rianimazioni, e smontando, di fatto, l’architettura di un ospedale per ricoverare i malati Covid”.
Lei si fida dei vaccini?
“La scienza non fa affidamento sulla fede ma sui dati. Se i dati che ci hanno dato fino ad adesso sono veri la protezione è quella che ci è stata comunicata. Il problema è che ora abbiamo una crisi di credibilità della sicurezza dei vaccini perché ci sono stati troppi cambiamenti, troppe variazioni, di classe di età e questo non fa bene alla scienza in generale e ai pazienti che si devono fidare, o meglio, affidare alle conoscenze che la scienza medica offre. È evidente che, per quanto studiato, un vaccino dispiega la sua efficacia solo nel corso dei mesi quando lo provi sul campo. Farlo in questo momento ci espone a qualche rischio ineliminabile”.
C’è una grande paura degli effetti avversi.
“Ogni giorno utilizziamo farmaci con eventi avversi anche importanti, e non ci diamo peso perché ci siamo abituati. Il vaccino non è esente da questo limite. Ovviamente c’è anche una guerra dal punto di vista commerciale tra paesi e tra vaccini che ha danneggiato la comunicazione. Prima dell’inizio della vaccinazione è stata fatta una corsa a dire che il vaccino ci avrebbe salvato e che saremmo stati tutti pronti per l’estate a fare una vita normale. La campagna vaccinale è stata caricata di un’aspettativa enorme sapendo che ci sarebbero state indubbie difficoltà perché portare il vaccino in tutta Italia a 60 milioni di persone nella maggior parte dei casi con doppia dose, nel giro di poco tempo era ragionevole attendersi che non sarebbe stato possibile. Quando poi ci sono stati i primi eventi avversi, enfatizzati dalla stampa, questo ha creato la più grande dose di incertezza”.
Secondo lei ce n’è uno più sicuro degli altri?
“Questo non lo possiamo dire. Quelli che abbiamo visto ora sono effetti avversi nell’immediato, verificatisi nei 15-20 giorni successivi alla vaccinazione. Ovviamente un farmaco come un vaccino la sicurezza deve garantirla nell’arco degli anni. Noi abbiamo avuto casi di farmaci rimasti sul mercato per molti anni, poi si è raggiunta una massa critica di eventi avversi che ha fatto capire che quel farmaco non andava bene e andava ritirato dal mercato. Non è una cosa nuova in medicina usare un medicinale per tanto tempo e poi scoprire che non è sicuro. Nemmeno i vaccini sfuggono a questa logica. Oltretutto il vaccino non incontra una condizione stabile come quella del farmaco che si dà per una specifica patologia che mediamente non cambia, qui impatta un virus che è in grado di modificarsi e cambiare la sua capacità di essere intercettato dal sistema immunitario. Quindi anche qui lavoriamo in una situazione che cambia continuamente”.
Lei l’ha fatto il vaccino?
“Sì, sono stato vaccinato rapidamente con Pfizer perché all’epoca c’era solo questo per i sanitari. Ma mi sarei sottoposto a vaccinazione in ogni caso. Tutti noi dobbiamo dare disponibilità per aumentare le conoscenze. Il rischio di accettare la vaccinazione possiamo farlo tutti. Poi capisco le posizioni di chi è contrario all’obbligatorietà perché secondo me non dovrebbe essere così ma, a parte questo, le vaccinazioni negli ultimi 50 anni hanno cambiato la storia dell’uomo, purtroppo non è così in tutto il mondo. I paesi poveri scontano difetti di protezione da vaccini che sono solo ad appannaggio dei paesi ricchi”.
E se rimarranno delle sacche di popolazione non vaccinate nei paesi poveri cosa succederà?
“Il virus continuerà a riemergere. Ho i mei dubbi che la popolazione del Mali o del Burkina Faso sarà vaccinata come quella di Rozzano. La vaccinazione sulle malattie funziona se larga parte del mondo è vaccinata. Quando tutti ci spostavamo in paesi tropicali eravamo costretti a fare la vaccinazione per la febbre gialla, l’epatite e quant’altro. Se si va in un territorio e lì non c’è alcun tipo di protezione e i batteri e i virus circolano in maniera normale il rischio di ammalarsi è molto alto. Il virus potrà arrivare dalle persone che non sono vaccinate. Bisognerà capire quanto durerà l’immunità del vaccino, dopo quanto tempo bisognerà fare il richiamo… insomma ci sono tanti aspetti non chiari della vaccinazione. Anche perché in quei territori la mortalità si vede meno perché sono abitati da persone mediamente più giovani che forse sviluppano la malattia in maniera asintomatica, e non abbiamo la percezione di una ecatombe come quella che vediamo nei paesi occidentali. Lì potrebbe esserci una condizione che non vediamo e non conosciamo perché ci mancano i macroeventi, le morti a decine di migliaia di persone”.
In che modo i medici di base possono collaborare alla campagna vaccinale?
“I medici potevano essere di aiuto, soprattutto all’inizio, nel selezionare le categorie e le persone meritevoli di una vaccinazione anticipata, invece di ricorrere al banale criterio anagrafico. Così non è stato fatto, ci si è affidati ad altri criteri (Legge 104 o assunzione di determinati farmaci, per esempio) e così facendo si sono perse per strada tante persone. Vaccinare nei nostri studi non sarebbe affatto facile perché avremmo il problema del rispetto del distanziamento, per esempio, oltre al fatto che i medici di base devono visitare i pazienti, controllare i loro malati Covid, rispondere al telefono. I vaccini vanno fatti in grandi hub, aperti tutto il giorno, superata l’emergenza ci sarà la possibilità di accedere liberamente, quella deve essere la strada maestra. Anche perché pensi a dover consegnare i vaccini a 44mila medici in tutta Italia con la catena del freddo, diventa un lavoro improbo, non ce la farebbe nemmeno Amazon con i droni. Non è che si può chiamare i medici famiglia solo quando le cose non funzionano, ognuno ha le sue competenze”.
di Maria Scopece
Fonte: Il Giornale.it

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