Contro la pausa pranzo
Li vedi in fila sui marciapiedi grigi, grigi pure loro, gli impiegati in libera (mica tanto) uscita per la pausa pranzo, dall’una alle due, non si può sgarrare, c’è il cartellino, l’agenda, la call. Li vedi in fila, quegli uomini incappottati o scravattati (d’estate, negli uffici sempre grigi, pare sia concesso), e quelle donne messimpiegate e impiuminate (d’inverno, rigorosamente in lungo). Mentre scrivo queste incrudelite righe, è l’una e diciassette, ed è dicembre, e giù per strada li vedo per davvero, e sono precisamente così, quegli uomini e quelle donne, come in quella serie di Ben Stiller – Scissione – solo che loro la scissione non la fanno mai, la pausa pranzo è, difatti, un’estensione del grigiore impiegatizio. E li immagino parlare, farsi l’eterna domanda: “Dove andiamo oggi?”. È, quella, la domanda che, alle tredici in punto, nessuno (io) vorrebbe mai ricevere, e io principalmente per questo ho fatto di tutto per non diventarlo mai, l’impiegato della pausa pranzo coatta e contratta, e quando m’è disgraziatamente capitato mi son sempre disperato moltissimo, perché non ci si può abbrutire così.
Ecco, l’uscita
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