Categoria Arte

A Brescia la Russia dei dimenticati nei lavori dell’artista e dissidente sovietica Victoria Lomasko

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Artista professionista, prima ancora che dissidente, Victoria Lomasko sa che la sua prima mostra in Italia, accolta a Brescia, cambierà il suo destino. Arrivata in Italia a marzo scorso dopo una partenza rocambolesca dalla sua Russia - paese nel quale ha tentato fino all’ultimo di rimanere per portare avanti il proprio ruolo di testimone - Victoria ha fino ad oggi dovuto lottare per ottenere i documenti “spendendo molto tempo - come lei stessa afferma - a dimostrare di essere un’artista dissidente”. E adesso che l’ultima sua opera è stata completata la notte scorsa proprio all’interno del Museo di Santa Giulia - spazio che fino all’8 gennaio accoglierà la sua personale dal titolo The Last Soviet Artist a cura di Elettra Stamboulis - colei che è considerata dalla critica come la più importante artista sociale grafica russa può davvero dirsi felice. Russian Artists in The USA (Dartmouth College Sketches), 2019 Acquerello, acrilico, penna e inchiostro su carta 415 x 300 mm, ciascuno Courtesy Edel Assanti, London“A Brescia hanno ricreato l’atelier dei miei sogni” confessa Lomasko nel corso della conferenza stampa di inaugurazione del percorso espositivo voluto dal Comune di Brescia e dalla Fondazione Brescia Musei. “Mi piace pensare all’Italia come a un panino spalmabile di bellezza, ma talmente grande che non riesci a morderlo. Mi colpisce il modo in cui la gente si rapporta all’arte”. Presentata nell'ambito del Festival della Pace di Brescia, la mostra, visitabile gratuitamente per l’intera durata dell'iniziativa, segna il terzo atto della ricerca curata da Elettra Stamboulis, intrapresa da Fondazione Brescia Musei nel 2019, iniziata con la mostra di Zehra Doğan Avremo anche giorni migliori. Opere dalle carceri turche, e proseguita nel 2021 con la personale di Badiucao La Cina non è vicina. Opere di un artista dissidente. “Questo terzo episodio del progetto di Fondazione Brescia Musei - sottolinea Francesca Bazoli, presidente della Fondazione Brescia Musei - mostra come l’arte contemporanea sia uno strumento efficace per affrontare il tema della tutela dei diritti universali dell’uomo. Noi non siamo andati alla ricerca di dissidenti, ma di artisti che esprimessero questo tipo di messaggio. Cinquant’anni fa Brescia ospitò i primi dissidenti russi Mal'cev e Sinjavskij e ancora oggi accoglie e sostiene chi si fa portavoce dei diritti di tutti noi”.Victoria Lomasko | The Last Soviet Artist, Allestimento | Foto: © Alberto Mancini | Courtesy Fondazione Brescia MuseiIl percorso espositivo, ideato specificatamente per gli spazi di Brescia, sfodera una vasta produzione dell'artista russa che utilizza il disegno come strumento di cronaca e di resistenza. Lomasko ha realizzato lavori site-specific durante la sua residenza in città: cinque monumentali pannelli ideati e realizzati ad hoc negli atelier del complesso museale di Santa Giulia, nei due mesi che hanno visto l’artista ospite in residenza presso la Fondazione Brescia Musei. E oggi l’annuncio a sorpresa: “le cinque opere resteranno all’interno del museo, perché sono state create per voi” promette Victoria, con l’auspicio che, in caso di mostre temporanee allestite nei musei internazionali, possano essere generosamente prestate da Brescia per poi fare ritorno in città. La ricerca artistica di Lomasko è illuminante nell’aiutarci a ricostruire in modo minuzioso la storia sociale e politica della Russia dal 2011 a oggi, dalle manifestazioni anti Putin, che l'artista ha disegnato dal vivo, alle rappresentazioni della "profonda Russia", quella dei dimenticati e degli emerginati, da sempre i suoi soggetti prediletti. D’altra parte, come sottolinea Stefano Karadjov, direttore della Fondazione Brescia Musei, “La scelta di Fondazione di mostrare il lavoro che cartografa dal 2005 gli ultimi, i ribelli, i marginali di quell'immenso e complesso paese che è la Russia, risale a prima dell'avvio del conflitto con l'Ucraina. La nostra idea risale a circa due anni fa, quando imperversava una certa cancel culture in salsa russa. In quei mesi abbiamo avuto l’idea della mostra e abbiamo ricevuto subito lo scudo della politica cittadina che ha sempre protetto questo progetto. L'attacco dello scorso mese di febbraio ha reso ancora più urgente la narrazione visiva di Lomasko. È molto importante sottolineare come la ricerca degli artisti che sono stati protagonisti di questa trilogia dedicata al rapporto tra arte contemporanea e diritti non sia guidata dalle priorità di natura geopolitica, ma tesa alla scoperta di nuovi artisti, attivi interpreti della società del proprio tempo”. Victoria Lomasko | The Last Soviet Artist, Allestimento | Foto: © Alberto Mancini | Courtesy Fondazione Brescia MuseiCosì, come ribadisce la curatrice, The Last Soviet Artist diventa un viaggio storico-geografico-sociale con un allestimento pensato per far viaggiare il visitatore in uno spazio geografico a lui sconosciuto, al di là di ogni semplificazione, seguendo l’atlante di volti anonimi, quello degli ultimi che vivono nelle immense periferie dell'impero, dal Daghestan all’Inguscezia, con la sua popolazione di mezzo milione di abitanti, e 78 gruppi etnici. L’invito dell'artista è quello di entrare nelle geografie dei volti e dei pensieri di tutti quei mondi che per molte persone sono solo nomi sul mappamondo: Bishkek, Yerevan, Tblisi, Osh, Minsk. In Frozen Poetry, la prima sezione della mostra a Brescia, Poesia congelata permette di ripercorre e visualizzare le trasformazioni artistiche, sociali e intellettuali del paese di Lomasko. Ritroviamo lavori che passano attraverso la mediazione e la resilienza degli artisti come il padre di Lomasko che hanno dovuto disegnare per il regime sovietico pur essendone distante, fino ad approdare alla nuova generazione che disegna e testimonia le manifestazioni immaginando quello che verrà.Victoria Lomasko, A Trip to Osh #3, 2016 Inchiostro, pennarello e pastello a olio su carta 297 x 210 mm | Courtesy Edel Assanti Se a palpitare nella seconda sezione, Drawing Diary, è il tema generazionale con l’artista che ricorda quanto la dissidenza possa essere costituita anche da parole dette sottovoce, un effetto straniante tipico del teatro esplode nella terza sezione intitolata Changing of Seasons. Qui una parete cede all'enorme murales realizzato a Bruxelles subito dopo l’esilio forzato dell'artista. In questo lavoro straziante che mette in risalto la capacità dell’artista di creare mondi possibili, i monumenti diventano soggetti che operano senza pietà, continuando, seppure acefali, a sferrare la spada. Le persone assumono toni drammatici e disperati, mentre le voci di dissidenza creano ombre che le rendono deformi. L'unico atto concesso è il gesto di posizionare il lenzuolo sul corpo delle vittime di Bucha. La cifra più narrativa dell’intero percorso è invece incastonata nel quarto capitolo della mostra, intitolato Graphic Reportages, che racconta come la Russia sia arrivata a questo punto. Qui il pubblico avrà modo di sfogliare i lavori della serie Juvenile Prison, che testimoniano la realtà carceraria minorile della capitale e la cronaca della Resistenza caduta nell’oblio. La serie passa in rassegna anche la complessa realtà delle donne: le lavoratrici di strada e quelle dei locali, le lavoratrici per gli altri e le disilluse che tengono in piedi il paese catalizzando lo sguardo femminista dell’artista. Victoria Lomasko, Under Water, 2021, Acquerello, acrilico, penna e inchiostro su carta 590 x 415 mm | Courtesy Edel Assanti, LondonDalla solitudine di Mosca - isola sospesa nel vuoto già a partire dal 2021, nel lungo anno in cui le frontiere rimangono chiuse e riprendono le fibrillazioni in piazza durante le quali Lomasko disegna in diretta i partecipanti, senza filtri - la mostra sfocia nell’ultima sezione. Five Steps è una preghiera sul senso dell'esilio, sulla solitudine, sull'isolamento, ma anche sulla profonda fiducia nell'idea di umanità che accomuna tutti e che è in grado di attraversare i confini. Si tratta di cinque stazioni realizzate appositamente per Brescia che hanno visto l'artista impegnata per oltre un mese. “Queste cinque opere sono accompagnate da testi - anticipa Stamboulis -. Il testo è parte integrante dell’arte di Victoria Lomasko. L’opera la si vede solo se si legge il testo che l’accompagna”. Alla fine del percorso, assolutamente da non perdere The Last Soviet Artist, un film-documentario dedicato a Victoria Lomasko, realizzato dal regista e musicista inglese Geraint Rhys, sottotitolato per l'occasione. Leggi anche:• La città del Leone: il medioevo a Brescia in una grande mostra• La parola a Badiucao: la mia arte oltre la censura

L’arte controcorrente fa tappa a Palazzo Albergati

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L’ultima sua denuncia a colpi di stencil risalirebbe a qualche giorno fa, sulla parete di un edificio semidistrutto dai bombardamenti a Borodyanka, insediamento urbano nell' oblast di Kiev. Un bimbo judoka, che farebbe pensare all’Ucraina, stende al tappeto un adulto, con un richiamo a Putin, sospeso da presidente onorario della federazione internazionale di Judo. Mentre lo strale di Banksy raggiunge anche le strade dell’Ucraina, la voce dello street artist senza volto si unisce al coro dei colleghi controcorrente che si incontrano a Bologna in occasione di una mostra dedicata alle opere più provocatorie, anticonformiste e rivoluzionarie del nostro tempo. Dall’11 novembre al 7 maggio gli enfants terribles dell’arte, Jago, Banksy e TvBoy, si danno appuntamento a Palazzo Albergati per raccontare, attraverso 60 capolavori, alcune delle storie più trasgressive della public art italiana e internazionale, attraverso un dialogo tra il misterioso artista inglese e altri influenti colleghi italiani del momento. Seguendo il filo della provocazione, la mostra Jago, Banksy, TvBoy e altre storie controcorrente si presenta come una monografica delle opere più significative di ciascun protagonista. Così Girl with Baloon e Bomb Love di Banksy ammiccano all’ Apparato circolatorio e a Memoria di sé di Jago per cedere alla serie dei baci e a quella degli eroi di TvBoy. Banksy, Bomb Love, Litografia, 50 x 70 cm, 2003, Pop House GalleryA dialogare con i tre sono quegli artisti che da Jago, Banksy e TvBoy hanno preso spunto, o che semplicemente si inseriscono nel percorso “controcorrente” che li caratterizza. C’è Obey - in mostra con il celebre manifesto Hope, realizzato nel 2008 per sostenere la campagna presidenziale di Barak Obama - e c’è Ravo con La ragazza con l’orecchino di perla e poi Laika con il suo celeberrimo Not this “game” fino a Pau con la sua serie delle Santa Suerte. Un dialogo suddiviso in quattro sezioni invita il pubblico a cogliere corrispondenze, orientamenti e tendenze legate all’arte e alla street art europea. Si parte con Jago, classe 1987, il primo artista a inviare una scultura in marmo, The First Baby, sulla Stazione Spaziale Internazionale, per proseguire, nella seconda sezione, con Banksy. Il terrorismo, i crimini di guerra, la crisi economica, il bullismo, gli abusi sul lavoro si insinuano nelle sue figure con disincantato umorismo trasformando muri, pareti, scale, angoli di strade anonime in spazi di riflessione. Andrea Ravo Mattoni, Vermeer, La ragazza con l'orecchino di perla, Spray su tela , 100 x 100 cm, 2022, Pop House GallerySalvatore Benintende, in arte TvBoy, cresciuto a Milano, sangue siciliano, trasferitosi a Barcellona per amore, è al centro della terza sezione del percorso con i suoi baci ideali tra icone contemporanee e un linguaggio che fruga nel bombardamento televisivo subito dalla sua generazione e dal quale TVBOY, giocando su questo concetto fin dal nome, ci invita a smarcarci. Dalla produzione continua, esagerata, famelica di TVBOY la mostra ci proietta nella quarta sezione, tra i graffiti di Andrea Ravo Mattoni che animano i capolavori immortali dell’arte moderna normalmente esposti nei musei. TvBoy, Hope, Tecnica mista su tela, 146 x 144 cm, 2022 Pop Ho use GalleryIl muro, massima espressione della Street Art, con i cartelli stradali e le staccionate in legno, è al centro dei lavori di Thierry Guetta, alias Mr Brainwash, mentre un forte legame con la materia caratterizza le figure di Pau, in bilico tra sacro e profano. Una visione disincantata e ironica connota il linguaggio di Laika, artista sincronicamente indipendente, misteriosa e libera, con i suoi effimeri tableau vivant. L’ultimo messaggio è affidato a Hope, speranza appunto, la più efficace illustrazione politica americana dai tempi dello Zio Sam realizzata da Obey e che ha reso memorabile la vittoria di Barack Obama, il primo afroamericano a ricoprire la carica di Presidente degli Stati Uniti d’America. La mostra è aperta tutti i giorni dalle 10 alle 20 (la biglietteria chiude un’ora prima).

Peggy Guggenheim e Umberto Boccioni. Un incontro esplosivo nel racconto di Karole Vail

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Audace, eccentrica, dotata di un fiuto con pochi eguali, Peggy Guggenheim ha scoperto e valorizzato straordinari talenti cambiando, di fatto, i destini dell'arte del Novecento. Da grande collezionista e mecenate qual era, non ha mai esitato ad andare controcorrente. Come quando, dopo essersi stabilita a Venezia, si interessò alle opere dei futuristi, incurante del clima ostile che all'epoca circondava l'unica vera avanguardia italiana, tacciata di essere stata vicina al regime fascista. Durante la lavorazione del documentario FORMIDABILE BOCCIONI di Eleonora Zamparutti e Piero Muscarà, prodotto da ARTE.it Originals in collaborazione con ITsART e Rai Cultura, oggi disponibile su ITsART, abbiamo avuto modo di parlarne con Karole P. B. Vail, nipote di Peggy e da cinque anni direttore della Guggenheim Collection di Venezia. È sempre affascinante ascoltare una storia da chi l’ha vissuta da vicino, sia pur indirettamente. Perciò proponiamo qui l’intervista integrale a Karole P. B. Vail, un punto di vista prezioso su un’indimenticabile pagina d’arte e di collezionismo. Il racconto di un incontro tra giganti - Peggy e Boccioni - uniti da un talento comune: saper infrangere le regole e immaginare il futuro, anticipando idee e fenomeni allora impensabili.Karole Vail in FORMIDABILE BOCCIONI, Venezia, Collezione Peggy Guggenheim | © ARTE.it“Peggy Guggenheim iniziò a dedicarsi seriamente al collezionismo alla fine degli anni Trenta, dopo essere stata introdotta negli ambienti delle avanguardie di Parigi nel decennio precedente”, racconta Vail: “Nel 1938 aprì la sua prima galleria a Londra e poi, com’è noto, iniziò a acquisire un dipinto al giorno con l’obiettivo di costruire una collezione di arte moderna. È per questo che oggi a Palazzo Venier dei Leoni troviamo una straordinaria raccolta dedicata alle avanguardie europee, così agli espressionisti astratti americani. Qui a Venezia abbiamo la meravigliosa opportunità di poterci confrontare con l’arte del primo Novecento e di comprendere come quegli artisti stavano cambiando il modo in cui guardiamo l’arte e la interpretiamo. A Palazzo Venier dei Leoni sono rappresentati i movimenti più importanti e innovativi di quella stagione - Cubismo, Futurismo, Surrealismo - e molti esempi di scultura che si distaccano radicalmente dalla tradizione del XIX secolo. Comprenderli significa poter apprezzare meglio anche l’arte contemporanea”. L’incontro - che per motivi cronologici non poteva che essere virtuale - tra Peggy Guggenheim e Umberto Boccioni passa proprio da una scultura, oggi tra i capolavori del museo veneziano: Dinamismo di un cavallo in corsa + case del 1915.“Peggy Guggenheim fu sempre molto interessata alla scultura. Quando si stabilì a Palazzo Venier dei Leoni - dopo aver esposto la sua collezione alla Biennale del 1948 - continuò ad acquistare nuove opere. Nel 1958 fece un'importante acquisizione, forse l’ultima nell’ambito della scultura: una meravigliosa opera unica e straordinaria del futurista italiano Umberto Boccioni, 'Dinamismo di un cavallo in corsa + case'. Boccioni l’aveva realizzata nel 1915, giusto un anno prima del terribile incidente a cavallo che gli costò la vita. Forse questa scultura non fu mai finita, non lo sapremo mai… È eccezionale perché è una delle pochissime sculture del suo genere, realizzata con un mix di materiali come cartone, metallo verniciato e legno…”. “Nel 1912”, ricorda Vail, “Boccioni aveva scritto un Manifesto della Scultura Futurista. Era profondamente convinto che la scultura dovesse avere forme aperte, senza confini. Stava cercando di rompere con la grande tradizione della scultura italiana, e ci stava riuscendo: il suo sguardo rivolto in avanti era futurista nel modo più autentico. 'Dinamismo di un cavallo in corsa + case' è probabilmente l’ultimo esempio di quello che Boccioni aveva scritto nel Manifesto”.Umberto Boccioni, Dinamismo di un cavallo in corsa + case, Dettaglio | Still da FORMIDABILE BOCCIONI | © ARTE.itNel secondo dopoguerra Peggy Guggenheim non è l’unica a collezionare scultura moderna italiana: molti collezionisti americani se ne stanno interessando. Ma diversamente dagli altri, l’inquilina di Palazzo Venier dei Leoni è coraggiosa e priva di pregiudizi, e riesce a guardare alle opere dei futuristi per quello che sono: dirompente arte d’avanguardia. “Spinta dall’interesse per la scultura e dal desiderio di avvicinarsi ancora di più all'arte italiana mentre viveva a Venezia, Peggy Guggenheim prese una decisione davvero notevole acquistando questo pezzo di Boccioni”, osserva Vail: “Per molti sarebbe stato piuttosto difficile acquisire un'opera di un artista futurista che non era di moda a causa dei suoi legami con il fascismo. Peggy Guggenheim stava infrangendo ancora una volta le regole, proprio come a suo tempo Boccioni aveva infranto le regole dell’arte”.A 64 anni dalla scelta di Peggy, critici, pubblico e collezionisti hanno abbracciato le sue idee. Grazie a lei, Boccioni e i futuristi sono di casa in Laguna, e Dinamismo di un cavallo in corsa + case brilla come un gioiello all’interno della straordinaria Collezione Guggenheim. “A mio parere Boccioni è stato uno dei più grandi artisti del XX secolo”, conclude Vail: “Penso avesse capito che era possibile andare oltre la pittura e probabilmente anche oltre la scultura. Credo sia stato capace di guardare molto lontano”. Umberto Boccioni, Dinamismo di un cavallo in corsa + case, 1915, Venezia, Collezione Peggy Guggenheim   Leggi anche: • Arte in movimento. Alla Collezione Peggy Guggenheim la GEN Z incontra il fotografo Matteo Marchi per parlare di Boccioni• Ester Coen racconta Boccioni, il pittore che sfidò i cubisti a colpi di luce e dinamismo• La Collezione Mattioli al Museo del Novecento: il racconto dei protagonisti• Gino Agnese racconta Boccioni, il talento bocciato in disegno che vinse la sfida del Novecento• Boccioni e Vittoria, il futurista e la principessa. Cronaca di un amore fuori dagli schemi• Quella volta che i futuristi, sconosciuti e incompresi, esposero alla Galerie Bernheim-Jeune (vendendo un solo quadro)• In viaggio con Boccioni. I capolavori da ammirare nel mondo• I capolavori di Boccioni da vedere in Italia• "FORMIDABILE BOCCIONI": il genio futurista in un docufilm inedito

Guido Reni, pennello “divino”, in mostra a Francoforte

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Mentre il Museo del Prado si accinge ad accogliere il 2023 con la grande mostra Guido Reni e la Spagna del Secolo d’Oro, Francoforte si prepara a celebrare il maestro con uno degli appuntamenti più attesi dell’inverno dell’arte. Dal 23 novembre al 5 marzo il “divino” Guido Reni varcherà i cancelli dello Städel Museum con oltre 130 lavori, tra dipinti, stampe, disegni. Per quale motivo, nonostante la fama che garantì all'artista l'appellativo di “divino”, il pennello di Reni fu a lungo avvolto dall’oblio, passando in secondo piano rispetto ai contemporanei come Caravaggio e Ludovico Carracci? La retrospettiva a cura di Bastian Eclercy, organizzata in collaborazione con il Museo Nacional del Prado di Madrid, cercherà di far luce su questo mistero offrendo una nuova prospettiva sul pittore religioso e superstizioso al tempo stesso, irrimediabilmente dipendente dal gioco d'azzardo. Guido Reni, Assunzione della Vergine,  1598-99 circa, Olio su rame, 44.4 x 58 cm, Städel Museum, Francoforte | Foto: © Städel MuseumL'artista che predilesse la rappresentazione di teste di Cristo e Maria, con i loro volti all'insù e lo sguardo al cielo, sarà in mostra con importanti capolavori della collezione del Museo Städel, come la tavola di rame Assunzione della Vergine, ai quali si affiancheranno opere in arrivo da oltre 60 istituzioni, tra musei internazionali e collezioni private, dal Museo Nacional del Prado di Madrid alla Galleria degli Uffizi di Firenze, dal Metropolitan Museum of Art di New York al Louvre. Accanto a questi lavori il percorso espositivo porrà una serie di opere dell’artista mai esposte prima. In questa ricognizione dell'arte di Guido si alternano immagini tratte dai modelli che hanno influenzato la sua pratica, come Raffaello, Parmigianino, e Annibale Carracci, e rari documenti storici, come il libro dei conti del pittore per gli anni 1609–1612 in arrivo dalla Morgan Library & Museum di New York. Guido Reni, Giuseppe e la moglie di Putifarre,1630 circa, Olio su tela, 169.5 x 126.4 cm, Los Angeles, The J. Paul Getty Museum | Foto: © The J. Paul Getty Museum, Los Angeles“La mostra del Museo Städel, intitolata Guido Reni. Il Divino rappresenta la prima opportunità in più di 30 anni per far riscoprire al pubblico l'ex protagonista della pittura barocca italiana - spiega Philipp Demandt, direttore del museo tedesco -. Grazie ai nostri generosi finanziatori e sponsor siamo stati in grado di raccogliere il più grande insieme di opere mai riunite in un unico luogo. Guido Reni dominava la pittura barocca in Europa, ma la sua arte è stata ingiustamente trascurata. Proprio questi aspetti guidano la mostra dimostrando perché invece Reni rappresenti uno dei pittori più celebri nell'Italia del XVII secolo”. Tra i masterpieces del percorso spiccano anche l'Assunzione della Vergine e Cristo alla colonna fresco di restauro. Il racconto espositivo intorno al visionario Reni si snoda in dieci capitoli cronologici, ciascuno dedicato a un tema, senza trascurare gli episodi cruciali della sua carriera rivelati nella biografia dello studioso bolognese Carlo Cesare Malvasia, pubblicata nel 1678. Se il primo capitolo accoglie le due versioni dell'Assunzione e Incoronazione della Vergine del Museo del Prado e della National Gallery di Londra, la complessa personalità del pittore emerge nella sezione di apertura sotto forma di ritratti. Le prime pale d'altare e i quadri devozionali, oltre a virtuosi disegni a gesso realizzati durante la frequentazione dell'Accademia dei Carracci, mostrano come Reni abbia forgiato un vocabolario visivo personalissimo unendo il tardo manierismo del fiammingo Calvaert, la pittura innovativa di Carracci e lo studio di artisti dell'Alto Rinascimento come Raffaello e Parmigianino.Guido Reni, Atalanta e Ippomene,1615-18 circa, Olio su tela, 297 x 206 cm, Madrid, Museo Nacional del Prado | Foto: © Museo Nacional del Prado, Madrid Il capolavoro di Reni Cristo alla Colonna dimostra l'influenza formativa di Caravaggio, maestro che il pittore incontrò a Roma dopo il suo trasferimento nel 1601. Si aggiungono al percorso la grande pala d'altare con il Martirio di Santa Caterina e David con la testa di Golia dove è forte l’influsso della scultura antica. Il ritorno a Bologna, nel 1614, dopo tredici anni di assenza, coincide con dipinti a mezza figura come Lot e le sue figlie in arrivo a Francoforte dalla National Gallery di Londra e la Conversione di Saulo. A svelare la “seconda maniera” di Reni, coincidente con la fine degli anni '20 del Seicento, quando la tavolozza del pittore diventa sempre più rarefatta, a conferire ai dipinti successivi uno splendore porcellanato fino ad allora sconosciuto, sono opere come la Visione di sant'Andrea Corsini dagli Uffizi e il Cristo sulla croce dalla Galleria Estense di Modena. Guido Reni, Maddalena Penitente, 1635 circa, Olio su tela, 74.3 x 90 cm, Baltimora, The Walters Art Museum | Foto: © The Walters Art Museum, BaltimoraGli ultimissimi anni della vita di Guido Reni forniscono uno spaccato affascinante del metodo di lavoro del pittore. Alcuni passaggi di queste opere, come Salomè con la testa di Giovanni Battista dal The Art Institute of Chicago rimangono simili a schizzi, dipinti deliberatamente eseguiti in modo superficiale dove il colore risulta semplicemente steso. Si tratta di lavori affascinanti che sanciscono un finale pittorico furioso nell’ultima fase artistica del divino Reni.

La ritualità antica si riscrive a San Casciano dei Bagni. Bronzi straordinari riemergono dal fango

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Sono emersi dall’acqua calda della sorgente termo-minerale del Bagno Grande a San Casciano (Siena) dopo 2300 anni, restituendo i volti delle divinità venerate nel luogo sacro, assieme alle rappresentazioni degli organi e delle parti anatomiche, dalle mani ai polmoni, per i quali i devoti richiedevano l’intervento curativo della divinità attraverso l'acqua sacra.Il fango caldo ha protetto e restituito le effigi rassicuranti di Igea, dea della salute, e di Apollo, protettore delle arti mediche, e ancora insoliti ritratti accompagnati da iscrizioni che svelano talvolta nomi di inedite divinità oltre al motivo per il quale si chiedeva la grazia concedendo il bronzo in offerta.Una delle statue in bronzo rinvenute a San Casciano dei Bagni | Courtesy Ministero della CulturaÈ il sorprendente bilancio della straordinaria scoperta che ha visto riemergere dalle falde dei secoli 24 statue di bronzo in perfetto stato di conservazione, accanto a ex voto, oggetti della ritualità quotidiana e a cinquemila monete in oro, bronzo, argento. La maggior parte di questi capolavori dell’antichità si colloca tra il II secolo a.C. e il I secolo d.C, un periodo storico di importanti trasformazioni nella Toscana antica che assiste alla fine della tradizione etrusca e al passaggio dal mondo etrusco a quello romano. A conferma di questo momento di transizione vissuto da una società ancora bilingue, in procinto di aprirsi verso un Mediterraneo che stava diventando progressivamente romano, sono le iscrizioni (ancora ben visibili) in etrusco e contemporaneamente in latino con i nomi di potenti famiglie del territorio dell’Etruria interna, dai Velimna di Perugia ai Marcni noti nell’agro senese. In quest’epoca di accesi contrasti tra Roma e le città etrusche, guerre sociali e lotte all’interno del tessuto sociale dell’Urbe, il santuario del Bagno Grande rappresentava un’oasi di pace, caratterizzato da un contesto multiculturale e plurilinguistico unico. Qui le nobili famiglie etrusche scelsero di dedicare le statue all’acqua sacra. Ecco perché la scoperta dei bronzi a San Casciano dei Bagni diventa un’occasione unica per riscrivere la dialettica tra etruschi e romani. Una delle 24 statue in bronzo rinvenute nel corso dello scavo a San Casciano dei Bagni | Courtesy Ministero della CulturaEd eccoli i bronzi arrivare fino a noi, rinvenuti nel corso della campagna di scavo al santuario etrusco-romano connesso all’antica vasca sacra della sorgente termo-minerale. Iniziato nel 2019, lo scavo, promosso dal ministero della Cultura e dal comune toscano con il coordinamento del professore Jacopo Tabolli dell’Università per Stranieri di Siena, ha condotto a questi nuovi straordinari ritrovamenti nelle prime settimane di ottobre. Una scoperta straordinaria che, come ha spiegato Tabolli, “riscriverà la storia e sulla quale sono già al lavoro oltre 60 esperti di tutto il mondo". Così, 50 anni dopo la scoperta dei Bronzi Riace, avvenuta nel 1972, la storia dell’antica statuaria in bronzo, questa volta di età etrusca e romana, torna a scriversi nel piccolo centro toscano che accoglie adesso il più grande deposito di statue in bronzo di età etrusca e romana mai scoperto nell’Italia antica e uno dei più significativi di tutto il Mediterraneo. E la scoperta risulta ancora più straordinaria se si considera che finora, di questa epoca, si conoscevano prevalentemente statue in terracotta. Alcuni dei bronzi rinvenuti nel corso dello scavo a San Casciano dei Bagni | Courtesy Ministero della Cultura“È la scoperta più importante dai Bronzi di Riace e certamente uno dei ritrovamenti di bronzi più significativi mai avvenuti nella storia del Mediterraneo antico”, commenta il direttore generale Musei, Massimo Osanna, che ha appena approvato l'acquisto del palazzo cinquecentesco che accoglierà, nel borgo di San Casciano, le meraviglie restituite dal Bagno Grande, un nuovo museo al quale andrà in futuro ad aggiungersi un vero e proprio parco archeologico. Infatti, come ha dichiarato il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, “Lo studio e la valorizzazione di questo tesoro sarà un’ulteriore occasione per la crescita spirituale della nostra cultura e per il rilancio di territori meno noti al turismo internazionale, ma anche come volano per l’industria culturale della Nazione”. Due teste in bronzo rinvenute nel corso dello scavo a San Casciano dei Bagni | Courtesy Ministero della CulturaIl metodo usato in questo scavo è il frutto della collaborazione tra specialisti di diverse discipline, dagli architetti ai geologi, dagli archeobotanici agli esperti di epigrafia e numismatica. “La campagna di scavo che ho avuto l’onore e il piacere di dirigere sul campo per 14 settimane tra giugno e ottobre - commenta il direttore di scavo, Emanuele Mariotti - ha ottenuto risultati stupefacenti e in parte inaspettati. Bisogna notare come l’eccezionalità del contesto non derivi solo dalle stratigrafie fangose ma intatte all’interno della vasca, così ricche di tesori d’arte e numismatici, ma anche dall’architettura con cui fu concepito, in epoca primo-imperiale, il cuore del santuario, destinato a raccogliere le potenti acque calde della sorgente, oggi del Bagno Grande”. La scoperta è frutto di un lavoro di sinergia tra istituzioni che ha visto al centro la Soprintendenza per le povince di Siena e Grosseto, l’Università di Siena, e il Comune di San Casciano dei Bagni.Una delle statue in bronzo rinvenute nel corso dello scavo a San Casciano dei Bagni | Courtesy Ministero della Cultura

Il Rinascimento di Bosch incanta Milano

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Onirico, visionario, immaginifico, Jheronimus Bosch è conosciuto in ogni angolo del globo e la sua fama travalica ampiamente i confini del mondo dell’arte. Eppure le opere che gli sono unanimemente attribuite sono molto poche, e riunirle in un unico luogo è stata finora un’impresa pressoché impossibile. Ci sono riusciti gli organizzatori della grande mostra presentata oggi a Palazzo Reale, a cura di Bernard Aikema, già professore di Storia dell’Arte Moderna presso l’Università di Verona, Fernando Checa Cremades, docente di Storia dell’Arte all’Università Complutense di Madrid ed ex direttore del Museo del Prado, e Claudio Salsi, direttore Castello Sforzesco, Musei Archeologici e Musei Storici, nonché docente di storia dell’incisione presso l’Università Cattolica di Milano. Per trasformare il progetto in realtà sono stati necessari cinque anni e un imponente lavoro di ricerca e cooperazione culturale internazionale, frutto degli sforzi congiunti di Comune di Milano-Cultura, Palazzo Reale e Castello Sforzesco con 24 Ore Cultura. Il risultato è “una mostra unica per la potenza del racconto di un’intera epoca artistica e per l’importanza e la varietà dei confronti” presentati, spiegano gli organizzatori. Jheronimus Bosch, Trittico delle Tentazioni di Sant’Antonio, 1500 circa. Olio su tavola. Lisbona, Museu Nacional de Arte Antiga © DGPC/Luísa OliveiraDal 9 novembre al 12 marzo 2023, circa 100 opere tracceranno il ritratto di un artista singolare e misterioso, sul quale gli esperti non hanno mai smesso di dibattere, e delle passioni che è riuscito ad accendere dal Cinquecento ad oggi, influenzando grandi maestri, attraendo prestigiosi collezionisti e dando vita a un gusto diffuso che autorizza a parlare di un vero e proprio “fenomeno Bosch”. L’affascinante tesi dei curatori è che il pittore fiammingo, così diverso dagli altri grandi artisti dell’Europa del suo tempo, sia l’emblema di un Rinascimento “alternativo”, lontano anni luce dagli ideali umanisti e classicisti del XV secolo, e dunque la prova dell’esistenza di una pluralità di Rinascimenti, ciascuno con proprie caratteristiche e un proprio centro di gravità. Altra ipotesi fondante è l’idea che il “fenomeno Bosch” non nasca nelle Fiandre, patria dell’artista, ma nel mondo mediterraneo, e precisamente tra la Spagna e l’Italia del Cinquecento. Bottega di Jheronimus Bosch, La visione di Tundalo, 1490-1525 circa. Olio su tavola. Madrid, Museo Lázaro Galdiano © Museo Lázaro Galdiano, MadridProprio per questo la mostra milanese non è una tradizionale monografica, bensì un dialogo fluido tra  le opere di Bosch e quelle di maestri fiamminghi, italiani e spagnoli, che evidenziano come “l’altro Rinascimento” abbia in seguito influenzato artisti di estrazioni diverse, da Tiziano a Raffaello, da Gerolamo Savoldo a El Greco. Lungo il percorso troviamo dipinti, sculture e incisioni, ma anche arazzi, volumi antichi e oggetti rari provenienti dalle wunderkammer di facoltosi collezionisti. Tra i capolavori di Bosch spicca il monumentale Trittico delle Tentazioni di Sant’Antonio del Museu Nacional d’Arte Antiga di Lisbona, mai stato esposto in Italia,che nel corso del Novecento ha lasciato il Portogallo soltanto due volte, mentre proviene dal Groeningenmuseum di Bruges il Trittico del Giudizio Finale, anticamente nelle collezioni del cardinale veneziano Marino Grimani. Altri prestiti straordinari sono arrivati dal Museo del Prado, dal e dal Museo Làzaro Galdiano di Madrid e dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Jheronimus Bosch, Le Tentazioni di Sant’Antonio, 1500 circa. Olio su tavola. Lisbona, Museu Nacional de Arte Antiga © DGPC/Luísa OliveiraSenza precedenti è l’esposizione dell’intero ciclo degli arazzi tratti dalle opere di Bosch, che accosta per la prima volta i quattro pezzi del Monastero dell’Escorial e il cartone del quinto arazzo andato perduto, conservato nelle collezioni delle Gallerie degli Uffizi: oggetti d’arte preziosissimi, autentici status symbol nell’Europa cinquecentesca, che oggi testimoniano la fortuna dell’artista fiamminghi presso i vertici dell’aristocrazia dell’epoca. Copia da Jheronimus Bosch, Scena con elefante, XVI secolo. Olio su tela. Firenze, Gallerie degli Uffizi © Gabinetto Fotografico delle Gallerie degli UffiziLe incisioni, a partire da quelle di Pieter Bruegel il Vecchio, furono invece il medium principale grazie al quale l’immaginario fantastico e notturno di Bosch viaggiò lungo tutto il continente, e perfino oltre l’Atlantico. Nelle corti del XVI e XVII secolo, infine, il gusto bizzarro dell’artista fiammingo si accordò perfettamente con lo spirito delle wunderkammer: lo scopriremo nell’ultima sala di Bosch e un altro Rinascimento, allestita proprio come una camera delle meraviglie, dove oggetti rari e preziosi evocano le atmosfere del più celebre capolavoro di Bosch, il Trittico del Giardino delle Delizie. Manifattura di Bruxelles, Il giardino delle delizie, 1550-1570 circa. Arazzo. Madrid, Patrimonio Nacional, Palacio Real © Patrimonio Nacional, Madrid

L’altro Segantini. Anticipazioni da una grande mostra

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Sarà un Segantini insolito quello che vedremo dal 12 novembre ad Arco: ai piedi delle Dolomiti e a un passo dal Lago di Garda, la città natale del pittore si prepara ad accogliere la grande mostra che racconterà lo sviluppo della sua arte dalla “maniera scura” degli esordi alla luminosa pittura divisionista che lo ha reso celebre. Nelle sale della Galleria Segantini di Arco seguiremo passo dopo passo l’evoluzione di un maestro della pittura tardo ottocentesca cresciuto fuori dai percorsi accademici: lo vedremo uscire dallo studio milanese, abbandonarsi alla potenza della luce ed entrare in simbiosi sempre più intima con la natura che ancora oggi sembra respirare nei suoi quadri. Prestiti prestigiosi e capolavori di casa dialogheranno in uno spettacolo inedito, frutto di un importante lavoro di ricerca, mentre due display interattivi e un documentario permetteranno di saperne di più sull’artista.Ne parliamo con il curatore Niccolò D’Agati, che ci regala una preziosa anteprima del progetto.  “Verso la luce. Giovanni Segantini, dalla maniera scura alla pittura in chiaro affronta una fase nodale della pittura di Segantini”, racconta D’Agati: “Parliamo degli esordi dell’artista, un momento di grande sperimentazione poco noto al grande pubblico e finora poco indagato anche dagli studiosi. In tre sale il percorso della mostra porta in scena una vera e propria metamorfosi, che dagli accordi cromatici bassi degli inizi conduce fino all’alba del Divisionismo e al trionfo della luce naturale sulla tela”. “Per questa esposizione siamo riusciti a riunire opere molto importanti che arrivano dal Segantini Museum di St. Moritz, dalle collezioni di Intesa Sanpaolo, dai Musei Civici del Castello Visconteo di Pavia, dal Museo d’Arte dei Grigioni a Coira. Per dirne una, il capolavoro di A messa prima non tornava nella città di Arco dal lontano 1958”, prosegue il curatore. “La mostra, inoltre, inaugura il nuovo corso della Galleria Segantini di Arco, ora completamente autonoma dopo le collaborazioni con il MAG e il MART. I progetti per il futuro non mancano. Per la prossima primavera, per esempio, abbiamo in cantiere una mostra sul tema del paesaggio nella pittura divisionista”.Giovanni Segantini, La falconiera, 1870-1880 circa. Olio su tela. Musei Civici di Pavia Ci parli del Segantini pre-divisionista, quello che conosciamo meno…“È un artista che lavora prevalentemente in studio, non si è mai cimentato con la pittura en plein air. La tavolozza è piuttosto scura, lo stile quello tradizionale del tardo Romanticismo lombardo. Segantini si serve delle intonazioni basse per drammatizzare la luce e forzare l’espressione poetica del colore. In mostra questa fase sarà illustrata da dipinti di grande valore: ci saranno il Campanaro del MART, la Falconiera dei Musei Civici di Pavia e tre opere esposte insieme per la prima volta dal 1880, l’anno del debutto di Segantini a Brera”. La seconda tappa ci porta nelle campagne della Brianza…“Dopo Milano, Segantini si trasferisce in Brianza: la vita contadina, le scene pastorali, la rappresentazione degli animali e del paesaggio sono i temi caratteristici di questo periodo. Anche qui possiamo contare su prestiti importantissimi, come la Benedizione delle pecore di St. Moritz o la raccolta dei Bozzoli delle Gallerie d’Italia a Milano. Dalle collezioni del museo di Arco proviene invece la Testa di vacca, che Segantini dipinse verso la fine degli anni Ottanta insieme all’Ora mesta, un capolavoro che ci porta già in fase divisionista”.Giovanni Segantini, L'ora mesta, 1892, olio su tela, 45,5x83 cm. Collezione privata Come avviene la trasformazione? Perché Segantini cambia radicalmente il proprio modo di dipingere?“Fu il suo maestro Vittore Grubicy de Dragon a spingerlo verso il cambiamento, convinto che la pittura dal vero fosse la vera strada verso il moderno. All’epoca Grubicy faceva il mercante d’arte e viveva in Olanda. Nel 1883 scrive a Segantini una lunga lettera dall’Aja, in cui lo esorta a dipingere all’aperto e a studiare la luce naturale. Gli suggerisce di studiare i lavori di Anton Maris e Willem Mauve (entrambi presenti in mostra), che in Olanda stanno portando avanti ricerche simili a quelle francesi della scuola di Barbizon: Vittore ne è rimasto impressionato. In seguito andrà a trovare Segantini e gli farà ridipingere l’Ave Maria a trasbordo utilizzando in maniera empirica la tecnica divisionista. Grubicy ha una grande influenza sull’artista, la cui pittura appare subito rischiarata. L’opera più famosa di questa fase è Alla Stanga della Galleria Nazionale d’Arte Moderna”. La mostra si chiude con un celebre capolavoro…“L’ultima sala è un’immersione nel dipinto A messa prima, l’opera simbolo del nuovo corso di Segantini, della quale i visitatori potranno seguire la genesi passo dopo passo attraverso quattro tele. La prima versione risale al 1885 e arriva dal Segantini Museum di St. Moritz: rispetto alle tele precedenti, la luce appare molto più naturale, chiara, cristallina. Poi avremo due studi preparatori, uno proveniente dal museo di Coira e un altro di collezione privata. Infine l’ultima evoluzione del tema realizzata intorno all’87, quando Segantini sta già sperimentando la pittura divisa: rappresenta il momento culminante di questo studio dal vero sulla luce”.Giovanni Segantini, La raccolta dei bozzoli, 1882 – 1883. Olio su tela, 70 x 101 cm © Collezione Intesa Sanpaolo, Gallerie d’Italia - Piazza Scala, Milano Dietro l’esposizione di Arco c’è un notevole lavoro di ricerca. Quali scoperte vi ha regalato?“Il progetto della mostra nasce da un percorso di rilettura delle attività di Segantini, in particolare della prima fase della sua opera. Come emerge chiaramente dal catalogo in pubblicazione, studio, ricerca e analisi delle fonti sono stati il nostro primo obiettivo, accanto naturalmente al desiderio di offrire al pubblico una mostra accattivante, ricca di capolavori e prestiti importanti. I più interessanti elementi di novità riguardano proprio A messa prima”. Di che si tratta?“Indagini non invasive condotte sul capolavoro di St. Moritz hanno permesso di ricostruirne dettagliatamente la genesi, gli interventi di correzione, l’uso dei colori, in pratica di osservare materialmente come si è evoluta la pittura di Segantini in un momento cruciale della sua storia artistica. Sotto l’immagine visibile a occhio nudo, siamo riusciti a rintracciare un altro dipinto. La versione iniziale si intitolava Non assolta e raffigurava una donna nubile incinta che scendeva le scale di una chiesa. Tre anziane la osservavano con malignità perché non aveva ricevuto il perdono dal confessore. Segantini espose questo quadro nel 1885, poi all’improvviso decise di modificarne il soggetto. Ridipinse parte della tela e inserì la figura del prete, che sarebbe diventato un personaggio iconico ricorrente nelle sue opere”.Giovanni Segantini, Alla stanga, 1886. Olio su tela. Galleria Nazionale d'Arte Moderna, Roma

Da Parmigianino ai misteri della Daunia, la settimana in tv

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Con la sua esistenza inquieta, la pennellata sciolta, lo spirito d’avventura affine a quello dell’impetuoso Caravaggio, Parmigianino concepì figure monumentali imbevute da risvolti psicologici, al centro di una pittura folgorante. L’eccentrico pittore ossessionato dal disegno, artista trasversale che riuscì a conferire ai volti l’intensità degli sguardi femminili di Goya e la posa fotografica della pittura più tarda sarà il grande protagonista della settimana sul piccolo schermo. Da Goya e Degas ai misteri della Daunia, terra lontana dalle rotte più turistiche, battuta con passione dall’archeologo Andrea Angelucci, ecco qualche appuntamento da non perdere in tv nella settimana appena cominciata.Edgar Degas, Autoritratto con Evariste de Valernes, 1864, Parigi, Musée d’OrsaySu Sky Arte Parmigianino e Goya Descritto dagli amici come un uomo brillante in grado di suscitare allegria, ma anche terrore, in chi gli stava accanto, Edgar Degas era noto per l’ossessiva rielaborazione delle sue opere. Una mania che, in molte occasioni, lo spinse persino a chiedere ai committenti di riavere indietro i suoi quadri per poterli ulteriormente ritoccare anche dopo averli consegnati. Riscopriamo questo artista grazie al docufilm Degas-Passione e perfezione, in onda mercoledì 9 novembre alle 12.50 su Sky Arte, una galoppata artistica tra cavalli e fantini, ballerine, nudi di donne colte in attività quotidiane, e ancora opere in cera “dalla terribile realtà”. Su tutto la ricerca del movimento e l’intento ossessivo di cogliere l’istantaneità del presente. Giovedì 10 novembre alle 21.15 una prima visione ci guida invece nella seconda stagione di Sky dedicata ai Grandi maestri della pittura. Ci addentriamo così nell’affascinante universo di Parmigianino, una delle personalità più interessanti e dirompenti del Cinquecento italiano. Anticlassico per definizione, Girolamo Francesco Maria Mazzola, punto di riferimento per tutti quegli artisti che, nel Cinquecento, cercano nuovi codici e una maniera alternativa di dipingere, si racconta sul piccolo schermo attraverso Paolo Cova, docente di Storia dell’arte, e Marcella Culatti, storica dell’arte. Preparatevi a un viaggio tra gli affreschi della prima e seconda cappella di sinistra di San Giovanni Evangelista a Parma, tra quelli a Rocca Sanvitale (Fontanellato) e tra i diversi ritratti ed autoritratti dell’artista. Venerdì 11 novembre raggiungiamo idealmente le sale della National Gallery di Londra per riscoprire l’acclamata mostra Goya: the Portraits, guidati dal primo curatore Xavier Bray. Il film di David Bickerstaff, Goya - Visioni di carne e sangue svela la vita drammatica e l'arte straordinaria del maestro spagnolo restituendo al pubblico un ritratto avvincente del pittore attraverso opinioni di esperti internazionali, capolavori tratti da collezioni di fama mondiale e visite ai luoghi in cui l'artista visse e lavorò. Il film schiude inoltre le porte del Museo Nazionale del Prado a Madrid, scrigno di una serie di importanti opere come La famiglia di Carlo IV, fornendo un raro accesso al “Notebook italiano” di Goya, uno sketchbook realizzato in Italia tra il 1769-1771, che mette gli spettatori a tu per tu con le riflessioni più intime dell'artista spagnolo.Francisco Goya, Il Duca di Wellington, 1812-14, Olio su mogano, 64.3 x 52.4 cm, Londra, National Gallery Su Rai 5 tra i misteri della Daunia Il mercoledì di Rai 5 fa rima con Art Rider. Il 9 novembre alle 21.15 la terza puntata del format alla ricerca dei luoghi d’arte meno conosciuti d’Italia, condotta dal giovane e dinamico archeologo Andrea Angelucci, una produzione GA&A Productions, in collaborazione con Rai Cultura, ci accompagna da Manfredonia a Venosa. Andrea schiuderà agli spettatori le porte della Daunia, una zona che si estende dalla Puglia fino ad arrivare al confine con la Basilicata e la Campania, terra misteriosa, lontana dalle rotte più turistiche. Su Arte tv Albrecht Dürer e il mistero degli autoritratti Pittore dal talento precoce, Albrecht Dürer nasceva nel 1471 a Norimberga, "cuore" del Sacro Romano Impero. All'età di 13 anni, con l’aiuto di uno specchio convesso, eseguiva il primo autoritratto, a 15 lasciava il laboratorio orafo del padre per entrare nello studio del pittore Michael Wolgemut. Con in tasca la passione per l'incisione, tecnica sviluppata cinquant'anni prima e che favorirà la diffusione delle sue opere, l’artista fece lunghi soggiorni a Basilea e a Venezia, occasioni che gli permisero di studiare la prospettiva e i maestri del Quattrocento. Albrecht Dürer: il mistero degli autoritratti, in onda su Arte tv è un viaggio attraverso 12 autoritratti che ripercorrono la carriera del pittore tedesco celebrandone il genio.Albrecht Dürer Ritratto a mezzo busto di una giovane veneziana, 1505, olio su tavola, cm. 32,5x24,2. Prestatore: Vienna, Kunsthistorisches Museum

Lee Miller e Man Ray, un racconto d’amore e di fotografia

134171 12 ManRay Natahsa 1930 1980 FondazioneMarconi Milano
“Preferisco fare una foto che essere una foto”, ha detto una volta Lee Miller. Eppure ancora oggi molti la conoscono per essere stata la modella e amante di Man Ray. Mentre al cinema si prepara l’uscita del biopic Lee, con Kate Winslet nel ruolo della protagonista, a Venezia una grande mostra rende omaggio alla fotografa surrealista. Dal 5 novembre al 10 aprile, 140 fotografie, oggetti d’arte e rari documenti video ne illustreranno i numerosi talenti a Palazzo Franchetti, restituendo finalmente la realtà del legame con Man Ray, prima suo mentore, poi compagno e infine grande amico. Man Ray, Autoritratto, 1931 (1982). Collezione privata I Courtesy Fondazione Marconi, Milano © Man Ray 2015 Trust / ADAGP-SIAE 2022Si deve a Suzanna, defunta moglie di Anthony Penrose (il secondo marito di Lee), la riscoperta delle mille vite di quest’artista straordinaria. Galeotte furono alcune scatole dimenticate in soffitta con un mondo dentro: 60 mila fotografie, negativi, documenti, riviste, lettere e oggetti. Musa, fotografa, icona del Novecento, prima donna reporter di guerra a documentare gli orrori dei campi di concentramento liberati dalle truppe americane, Lee Miller ha attraversato la vita con incredibile passione e determinazione. Il percorso curato da Victoria Noel-Johnson ripercorre le tappe della sua avventura tra scatti segreti e immagini che hanno scritto la storia, con prestiti dai Lee Miller Archives e Fondazione Marconi. “La mostraci permette di rivivere l'intensità degli anni ruggenti, la Parigi crocevia di moda, letteratura e arte che si apriva al Surrealismo. E poi la Miller testimone dell’orrore della Seconda Guerra Mondiale… Estetica e storia, bellezza e tragedia”, sintetizza Vittorio Verdone, direttore Corporate Communication e Media Relation di Unipol, che ha sostenuto il progetto. George Hoyningen-Huene, Lee Miller and Agneta Fisher, Vogue, 1932 © George Hoyningen-Huene Estate ArchivesA Venezia scopriremo Lee nelle vesti di modella e icona di stile sulle pagine di Vogue, dove approdò negli anni Venti su invito del celebre editore Condé Nast. O a Parigi negli ambienti dell’avanguardia, tra ritratti di Pablo Picasso, Max Ernst, Jean Cocteau, e delle amiche fotografe Dora Maar e Meret Oppenheim. Ne ripercorreremo amori e matrimoni, dal businessman egiziano Aziz Eloui Bey al surrealista britannico Roland Penrose, e riconosceremo nell’arte il riflesso di questi incontri. Dalla fascinazione dell’Egitto, per esempio, nacque l’indimenticabile Portrait of Space, che con la sua tenda strappata sull’infinito ispirò il Bacio di Magritte. Lee Miller, Portrait of Space, Al Bulwayeb, near Siwa, Egypt, 1937 © Lee Miller Archives England 2022. All rights reserved. www.leemiller.co.ukCuore della mostra è il rapporto con Man Ray, raccontato attraverso intense fotografie scattate da entrambi. Come The Neck, che ritrae il collo lungo ed elegante di Lee: dopo una lite furibonda, l’amante lo avrebbe rappresentato tagliato da un rasoio e adorno di gocce di inchiostro rosso. Nel 1933, invece, un Man Ray accecato dal dolore della separazione sostituì l’occhio del suo celebre metronomo Perpetual Motif con quello di Lee Miller. Profonda, sensuale e travolgente per entrambi, la relazione tra i due riserva sorprese che vanno al di là della narrazione di un amore. Pochi sanno per esempio, che fu Lee a scoprire la tecnica fotografica della solarizzazione, passata alla storia come una rivoluzionaria innovazione di Man Ray. Man Ray, The Tears (Les deux yeux, le nez et les larmes), 1930 (1988). Collezione privata I Courtesy Fondazione Marconi, Milano © Man Ray 2015 Trust / ADAGP – SIAE – 2022Quando l’amore finisce, Miller torna a New York e apre uno studio fotografico di successo, l’unico in città fondato e gestito da una donna. Ma la vita la porterà presto altrove: in Egitto, a Londra e sui teatri del secondo conflitto mondiale. Come corrispondente di guerra e fotoreporter per Vogue, Lee documenterà i bombardamenti di Londra, la liberazione di Parigi, i campi di concentramento di Buchenwald e Dachau, e nel 1944 sarà accreditata come corrispondente dell'esercito americano. Il faccia a faccia con le brutalità del Novecento non la lascerà indifferente. Lee Miller soffrirà di depressione e disturbi post-traumatici, Man Ray le sarà vicino per sempre. Lee Miller, Fire Masks, 21 Downshire Hill, London, England, 1941 (3840-8) © Lee Miller Archives England 2022. All rights reserved. www.leemiller.co.ukA cura di Victoria Noel-Johnson, Lee Miller Man Ray. Fashion Love War sarà visitabile a Palazzo Franchetti dal 5 novembre 2022 al 10 aprile 2023. Il catalogo edito da Skira contiene testi di Anthony Penrose e di Ami Bouhassane, rispettivamente figlio e nipote dell’artista.  "Lee Miller Man Ray. Fashion, Love, War", Palazzo Franchetti, Venezia