Categoria Ambiente

Da aprile il paradiso sommerso di Pianosa riapre alle immersioni

Collage foto Penco immersioni Pianosa

Riapre il campo boe per organizzare immersioni nell'Isola di Pianosa. Da aprile sarà nuovamente possibile immergersi nelle acque cristalline e ricche di biodiversità di Pianosa. L'area tutelata è stata aperta in via sperimentale alle immersioni nel luglio 2013, dopo oltre 150 anni di chiusura integrale - prima per il regime carcerario e poi a seguito dell'istituzione del Parco Nazionale - con un campo boe per consentire le immersioni subacquee entro il miglio di tutela integrale. La fruizione è fortemente contingentata: 6 boe per l’ormeggio dei Centri Diving accreditati, percorsi definiti e prestabiliti, immersione concessa ai sub esperti e accompagnamento di una Guida Parco o ambientale subacquea ogni sei subacquei. Le immersioni sono consentite da aprile a novembre per cinque giorni a settimana. Il tutto monitorato periodicamente da esperti biologi. Un' opportunità per tutti gli appassionati del settore che scoprono un mare ancora integro con una fauna marina oramai non più riscontrabile in zone aperte alla pesca ed alle attività antropiche intensive.
L'apertura controllata in un'ottica di sviluppo sostenibile che mette d'accordo la tutela dell’ambiente e la promozione turistico naturalistica, è risultata di successo come confermato dai commenti entusiastici e dai racconti di chi si è calato nel magico blu dell’isola, un tempo proibito. Basta andare sui social media o sui siti dei centri Diving per capire come il mare di Pianosa stia regalando grandi emozioni.  I diving raccontano, fotografano e filmano lo stupore dei subacquei al ritorno da una immersione nel mare dell’isola del diavolo. Un mare ricco come ai tempi di Jacques Cousteau.
Già all’avvicinarsi alla boa colpisce la vista dal mare della suggestiva piccola isola piatta che cattura il fascino dei visitatori per la sua particolarità. I sub si immergono accolti nel silenzio totale per l’assenza di passaggio delle imbarcazioni in transito, stupiti per la ricchezza di pesce, per le praterie di posidonia e per le aree di secca ben coperte di coralligeno e alghe.
Il fondale presenta archi naturali rocciosi in cui è possibile transitare senza pericolo e incrociare pesci tranquilli che si avvicinano senza paura. La presenza di pesce è impressionante: concentrazioni notevolissime di cernia bruna anche di grandi dimensioni, sarago maggiore, sarago fasciato, sarago pizzuto, corvine, queste ultime oramai introvabili nelle acque elbane a causa della pesca in apnea. Oltre alle cernie, sono incredibili i branchi di giovani tonni in caccia, le eleganti aquile di mare, i banchi di grandi barracuda che riflettono d’argento e fanno pensare ai mari tropicali.
Dal 2013 ad oggi sono state condotte migliaia di immersioni e i diving che vi accedono di solito sono una quindicina ogni anno.
Per fare immersioni a Pianosa bisogna rivolgersi a un Diving Center autorizzato. Tutte le info sulla pagina del sito istituzionale del PNAT  https://www.islepark.it/visitare-il-parco/pianosa/itinerari/immersioni
a cura del Parco nazionale Arcipelago toscano
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Nel 2021 gli incendi boschivi hanno emesso una quantità record di CO2

incendi boschivi hanno emesso una quantita record di CO2

Secondo lo studio “Record-high CO2 emissions from boreal fires in 2021”, pubbliv cato recentemente su Science  da un team internazionale di ricercatori, «Le emissioni di anidride carbonica dovute agli incendi, che dal 2000 sono aumentate gradualmente, nel 2021 sono aumentate drasticamente fino a raggiungere un livello record».
Infatti, nel 2021 dalle foreste boreali in fiamme nel Nord America e in Eurasia è stata rilasciata quasi mezza gigatonnellata di carbonio (o 1,76 miliardi di tonnellate di CO2), il 150% in più rispetto alle emissioni medie annuali di CO2 tra il 2000 e il 2020.
Il coautore senior dello studio, Steven Davis dell’università della California – Irvine (UCI) evidenzia che «Secondo le nostre misurazioni, gli incendi boreali nel 2021 hanno infranto i record precedenti. Questi incendi sono il frutto di due decenni di rapido riscaldamento e di estrema siccità nel Canada settentrionale e in Siberia e, sfortunatamente, anche questo nuovo record potrebbe non durare a lungo».
I ricercatori sono convinti che «Il peggioramento degli incendi fa parte di un feedback clima-fuoco in cui le emissioni di anidride carbonica riscaldano il pianeta, creando condizioni che portano a più incendi e più emissioni».
Un altro autore dello studio, Yang Chen del Department of Earth System Science dell’UCI, aggiunge: «Si prevede che l'escalation degli incendi nella regione boreale acceleri il rilascio del grande deposito di carbonio nello strato di suolo del permafrost, oltre a contribuire all'espansione verso nord degli arbusti. Questi fattori potrebbero potenzialmente portare a un ulteriore riscaldamento e creare un clima più favorevole per il verificarsi di incendi».
Davis fa notare che «Nel 2021, gli incendi boreali hanno rilasciato quasi il doppio di CO2 rispetto o all'aviazione globale, Se questo livello di emissioni da territori non gestiti  diventasse la nuova normalità, stabilizzare il clima terrestre sarà ancora più difficile di quanto pensassimo».
Analizzare la quantità di anidride carbonica rilasciata durante gli incendi è difficile una serie di motivi: il terreno accidentato e avvolto dal fumo ostacola le osservazioni satellitari durante un evento di combustione e le misurazioni satellitari non hanno una risoluzione sufficientemente precisa per rivelare i dettagli delle emissioni di CO2. I ricercatori  sottolineano che «I modelli utilizzati per simulare il carico di carburante, il consumo di carburante e l'efficienza antincendio funzionano bene in circostanze normali, ma non sono abbastanza robusti da rappresentare incendi estremi».
E Chen aggiunge che un altro problema lo abbiamo creato noi: «L'atmosfera terrestre contiene già grandi quantità di anidride carbonica derivante dalla combustione di combustibili fossili antropici e il gas serra esistente è difficile da distinguere da quello prodotto dagli incendi boschivi».
Il team internazionale guidato dal cinese Bo Zheng della Tsinghua University ha trovato un modo per aggirare questi ostacoli studiando il monossido di carbonio espulso nell'atmosfera durante gli incendi. Combinando le letture di CO di MOPITT –Measurements Of Pollution In The Troposphere satellite instrument – con i dataset esistenti sulle emissioni degli incendi e sulla velocità del vento, il team ha ricostruito i cambiamenti nelle emissioni globali di CO2 degli incendi dal  2000 al 2021. All’UCI spiegano ancora: «Il monossido di carbonio (CO) ha una durata di vita più breve nell'atmosfera rispetto alla CO2, quindi se gli scienziati rilevano un'abbondanza anomala di CO, questo fornisce la prova di incendi».
I ricercatori hanno confermato in modo indipendente il verificarsi di incendi estremi nel 2021 con dataset  forniti dallo spettroradiometro per immagini a risoluzione moderata della NASA a bordo dei satelliti Terra e Aqua.
Chen spiega a sua volta: «L'approccio di inversione impiegato in questo studio è un metodo complementare all'approccio convenzionale dal basso verso l'alto, che si basa sulla stima dell'area bruciata, del carico di carburante e della completezza della combustione. La combinazione di questi approcci può portare a una comprensione più completa dei modelli di incendi boschivi e dei loro impatti».
I ricercatori affermano La nostra analisi dei dati ha rivelato collegamenti tra gli estesi incendi boreali e fattori climatici, in particolare l'aumento delle temperature medie annuali e le ondate di caldo di breve durata» e hanno scoperto che «Le latitudini settentrionali più elevate e le aree con frazioni di copertura arborea più grandi erano particolarmente vulnerabili».
David  conclude: «Per i primi due decenni del XXI secolo, a livello globale le emissioni di carbonio degli incendi boschivi sono state relativamente stabili a circa 2 gigatonnellate all'anno, ma il 2021 è stato l'anno in cui le emissioni sono davvero decollate. Circa l'80% di queste emissioni di CO2  verrà recuperato attraverso la ricrescita della vegetazione, ma il 20% viene perso nell'atmosfera in modo quasi irreversibile, quindi gli esseri umani dovranno trovare un modo per rimuovere quel carbonio dall'aria o ridurre sostanzialmente la nostra stessa produzione di anidride carbonica atmosferica».
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Calano i tassi di mortalità per tumore in Ue, ma quest’anno attesi oltre 1,2 milioni di decessi

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Nonostante l’epidemia di nuovi casi di cancro in Italia, trainata in modo determinante da stili di vita malsani, migliorano le probabilità di sopravvivenza dei pazienti dopo la diagnosi di tumore, nel nostro Paese come nel resto dell’Ue.
Un nuovo studio internazionale pubblicato su Annals of oncology, coordinato dall’Università Statale di Milano e sostenuto dall’Airc, stima in particolare un calo nei tassi di mortalità per tumore in Ue sia negli uomini (-6,5%) sia nelle donne (-3,7%) tra il 2018 e il 2023, anche se il numero assoluto di decessi aumenterà a causa dell’invecchiamento della popolazione: una maggiore proporzione di anziani nella popolazione comporta infatti un maggior numero di persone con un elevato rischio di sviluppare un tumore.
Più nel dettaglio, nel 2023 nell’Ue ci si aspetta che muoiano circa 1.262.000 persone per tumore. Rispetto al picco di mortalità per cancro del 1988, i ricercatori stimano però che, grazie agli andamenti favorevoli osservati e previsti tra il 1989 e il 2023, nell'Ue saranno stati evitati circa 5,9 milioni di morti.
«Se l'attuale tendenza favorevole dei tassi di mortalità per tumore dovesse continuare – spiega l’epidemiologo della Statale Carlo La Vecchia, che ha guidato il gruppo di ricerca – un’ulteriore riduzione del 35% entro il 2035 sarebbe possibile. La cessazione del consumo di tabacco ha contribuito a questi andamenti. Per mantenerli nel tempo sono necessari ulteriori sforzi per controllare l’epidemia di sovrappeso, obesità e diabete, limitare il consumo di alcol, migliorare l’utilizzo degli screening per diagnosi precoce e le terapie, e controllare le infezioni virali per le quali esistono vaccini e terapie».
Ci sono ancora ampi margini di miglioramento, in particolare tra le donne, per le quali i tassi di mortalità per tumore del polmone e del pancreas continuano ad aumentare; tra le donne è infatti previsto un aumento del 3,4% per il tumore al pancreas e dell’1% per quello del polmone.
«Tra un quarto e un terzo di queste morti può essere attribuito al tabagismo, e le donne, soprattutto nei gruppi di età più avanzata, non hanno smesso di fumare», osserva Eva Negri, docente di Medicina del lavoro all'Università di Bologna.
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Caccia: Confagricoltura Toscana chiede di ridurre l’Iva sulla selvaggina

Confagricoltura Toscana chiede di ridurre lIva sulla selvaggina

Secondo Confagricoltura Toscana, bisogna «Ridurre l’Iva sulla selvaggina da immettere nel territorio, contenere gli ungulati e affrontare di petto il problema dei predatori». Una concezione economicistica della caccia e della gestione degli ungulati (e non solo) che Confagricoltura Toscana ha esposto direttamente  nei gorni scorsi durante un vertice  col sottosegretario alle politiche agricole Patrizio La Pietra di Fratelli d’Italia ed eletto proprio in Toscana.
Il  presidente di Confagricoltura Toscana Marco Neri ha spiegato che «Il 10% del territorio a caccia programmata è gestito da imprese private. E’ insomma un mondo importante, che merita attenzione. Da parte nostra auspichiamo una proficua collaborazione tra Ente Produttori di Selvaggina e Ministero con l’obiettivo di svolgere un lavoro di squadra, mantenere e promuovere il tessuto imprenditoriale, culturale e storico degli istituti privati. Confagricoltura Toscana è fiduciosa che questa collaborazione possa mitigare i problemi legati all’eccessiva presenza di ungulati e le conseguenti future richieste di risarcimento danni da parte degli agricoltori».
Cosa c’entri l’Iva sulla selvaggina venduta da imprese private con gli abbattimenti dei cinghiali è un mistero, ma queste idee che prima circolavano in ambienti ristretti (la filiera della carne che a ha il difetto di garantire la risorsa non certo di diminuirla…) ora sono state sdoganate dalle strampalate e anti-scientifiche plitiche venatorie del governo Meloni che sono già sotto la lente della Commissione europea che ha chiesto immediate spiegazioni.
Ma  Neri non se ne cura e annuncia: «Chiediamo anche   l’adozione di norme più flessibili a favore delle regioni per regolare l’attività venatoria e una riduzione dell’Iva sulla selvaggina viva, ad esempio il Fagiano, da immettere nel territorio, Iva che ad oggi è al 22%, il regime Iva deve essere convertito come per tutte le carni compreso il pollame al 10%. L’agricoltura ha di fronte una serie di criticità, dai rincari energetici alla siccità. Ma c’è un problema, quello degli ungulati, che da anni crea danni enormi, ormai insostenibili, alle nostre aziende. C’è la necessità imminente di ristabilire un equilibrio nel rapporto tra l’agricoltura e la fauna».
E’ davvero strano che per ristabilire un equilibrio tra agricoltura e fauna si proponga di rafforzare il modello pronta-caccia – allevare animali per poi ammazzarli subito dopo liberati -  che è alla base dell’introduzione del cinghiale ibridato in zone dove si era estinto da 200 anni (come l’Isola d’Elba) o dove prima non era presente.  E che dire dei fagiani da sparo che neri evidentemente considera una specie “innocua”.
Neri, più che una gestione venatoria degli ungulati e della fauna selvatica, sembra pensare a una grande macelleria a cielo aperto dove i cinghiali sono la scusa  ripropone come una novità di continuare come e prima e peggio di prima, pronta caccia e rilascio di animali da sparo e carniere compresi.
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Particolato PM2,5: solo lo 0,001% della popolazione mondiale al di sotto dei livelli di sicurezza Oms

particolato

Lostudio“Global estimates of daily ambient fine particulate matter concentrations and unequal spatiotemporal distribution of population exposure: a machine learning modelling study”, pubblicato su The Lancet da un team di ricercatori australiani - cinesi guidati dalla Monash University, è il primo ad analizzare particolato fine (PM 2.5 ) ambientale quotidiano in tutto il mondo e ha rivelato che «Solo lo 0,18% della superficie terrestre globale e lo 0,001% della popolazione mondiale sono esposti a livelli di PM 2,5 – il  principale fattore di rischio per la salute ambientale al mondo - al di sotto dei livelli di sicurezza raccomandati dall'Organizzazione mondiale della sanità (OMS)».
Alla Monash University di Melbourne  dicono che «E’ importante sottolineare che mentre i livelli giornalieri si sono ridotti in Europa e Nord America nei due decenni fino al 2019, i livelli sono aumentati in Asia meridionale, Australia, Nuova Zelanda, America Latina e Caraibi, con oltre il 70% dei giorni a livello globale che vedono livelli al di sopra di quel che è sicuro».
La mancanza di centraline di monitoraggio dell'inquinamento atmosferico a livello globale ha comportato una mancanza di dati sull'esposizione locale, nazionale, regionale e globale al PM 2,5, il nuovo studio condotto dal team guidato da Yuming Guo, della Monash University School of Public Health and Preventive Medicine, fornisce una mappa di come il PM 2.5 è cambiato in tutto il mondo negli ultimi decenni
Guo spiega che «Per valutare più accuratamente le concentrazioni di PM 2,5 a livello globale Il team di ricercatori ha utilizzato le tradizionali osservazioni di monitoraggio della qualità dell'aria, rilevatori meteorologici e di inquinamento atmosferico satellitari, metodi statistici e di apprendimento automatico. In questo studio, abbiamo utilizzato un approccio innovativo di apprendimento automatico per integrare più informazioni meteorologiche e geologiche per stimare le concentrazioni giornaliere di PM 2,5 a livello della superficie globale a un'elevata risoluzione spaziale di circa 10 km×10 km per le celle della griglia globale nel 2000-2019, concentrandosi su aree superiori a 15 μg/m3 che è considerato il limite di sicurezza dall'Oms (la soglia è ancora discutibile)».
Dallo studio emerge che la concentrazione annuale di PM 2,5 e i giorni di elevata esposizione a PM 2,5 in Europa e Nord America sono diminuiti nel corso dei 20 anni di durata della ricerca, mentre le esposizioni sono aumentate in Asia meridionale, Australia e Nuova Zelanda, America Latina e Caraibi.
Inoltre, lo studio ha rilevato che: Nonostante una leggera diminuzione dei giorni di esposizione ad alto PM 2,5 a livello globale, nel 2019 oltre il 70% dei giorni presentava ancora concentrazioni di PM 2,5 superiori a 15 μg/m3. Nell'Asia meridionale e orientale, oltre il 90% dei giorni ha avuto concentrazioni giornaliere di PM 2,5 superiori a 15 μg/m3. Australia e Nuova Zelanda hanno registrato un marcato aumento del numero di giorni con alte concentrazioni di PM 2,5 nel 2019. A livello globale, la media annua di PM 2 . 5 dal 2000 al 2019 era di 32,8 µg/m3. Le concentrazioni più elevate di PM 2,5 sono state distribuite nelle regioni dell'Asia orientale (50,0 µg/m3) e dell'Asia meridionale (37,2 µg/m3), seguite dall'Africa settentrionale (30,1 µg/m3). L'Australia e la Nuova Zelanda (8,5 μg/m3), altre regioni dell'Oceania (12,6 μg/m3) e l'America meridionale (15,6 μg/m3) hanno registrato le concentrazioni annuali di PM 2,5 più basse. Sulla base del nuovo limite delle linee guida dell'Oms del 2021, solo lo 0,18% della superficie terrestre globale e lo 0,001% della popolazione mondiale sono stati esposti a un'esposizione annuale inferiore a questo limite delle linee guida (media annuale di 5 μg/m3) nel 2019.
Guo fa notare che «Le concentrazioni non sicure di PM 2,5 mostrano anche diversi modelli stagionali. Incluse la Cina nord-orientale e l'India settentrionale durante i mesi invernali (dicembre, gennaio e febbraio), mentre le aree orientali del Nord America avevano un alto PM 2,5 nei mesi estivi ( giugno, luglio e agosto). Abbiamo anche registrato un inquinamento atmosferico da PM 2,5 relativamente elevato in agosto e settembre in Sud America e da giugno a settembre nell'Africa subsahariana».
Guo conclude: «Lo studio è importante perché fornisce una profonda comprensione dello stato attuale dell'inquinamento dell'aria esterna e dei suoi impatti sulla salute umana. Con queste informazioni, i responsabili politici, i funzionari della sanità pubblica e i ricercatori possono valutare meglio gli effetti sulla salute a breve e lungo termine dell'inquinamento atmosferico e sviluppare strategie di mitigazione dell'inquinamento atmosferico».
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Cnr, intelligenza artificiale al lavoro per migliorare la tutela dei cetacei nel Golfo di Taranto

cnr cetacei golfo taranto delfini

Il Cnr-Stiima di Bari ha condotto – insieme a Jdc, Cmcc e le Università di Bari e della Basilicata – uno studio per comprendere meglio habitat e usi dei cetacei nel Golfo di Taranto, usando per la prima volta tecnologie di intelligenza artificiale.
«I cetacei sono esposti a molteplici stress di natura antropica e ai cambiamenti climatici. Valutare lo stato di conservazione di queste specie diventa dunque strategico per impostare efficaci piani di gestione sostenibile della risorsa mare e, nello stesso tempo, per la conservazione delle aree critiche per la fauna marina d’interesse comunitario – spiega Rosalia Maglietta esperta di intelligenza artificiale del Cnr-Stiima – Per farlo, abbiamo utilizzato descrittori ambientali forniti dalla Fondazione Cmcc e ricavati mediante l’uso di tecniche di telerilevamento spaziale e di prodotti di modellistica numerica del Servizio europeo Marine Core Service, che forniscono una vasta gamma di informazioni in relazione ai dati raccolti sull’ambiente in cui i delfini vivono, per la prima volta investigati e presentati in uno studio scientifico. Sfruttando le informazioni contenute nei descrittori ambientali forniti dal Servizio Copernicus, le intelligenze artificiali hanno consentito di predire l’abbondanza di tre odontoceti più diffusi nel Mar Ionio settentrionale: la stenella striata, il tursiope e il grampo».
I risultati della ricerca sono stati pubblicati su Scientific Reports, grazie allo studio Environmental variables and machine learning models to predict cetacean abundance in the Central-eastern Mediterranean Sea.
«Preziosi per l’esame dell’habitat sono stati i dati di avvistamento raccolti nell’area di studio dall’Associazione Jonian Dolphin Conservation, lungo un arco temporale di oltre 10 anni, tra l’estate del 2009 e quella del 2022, secondo un rigido protocollo scientifico. Le attività di Citizen Science sviluppate dall’associazione, con il coinvolgimento di cittadini, studenti e turisti, sono inoltre risultate strategiche per l’acquisizione con continuità temporale di questi dati – conclude Maglietta – Lo studio, con il suo carattere multidisciplinare, porta avanzamento e nuova conoscenza sull’utilizzo dell’habitat da parte di questi odontoceti.  Inoltre, la strategia di analisi e studio sviluppata potrebbe essere efficacemente applicata anche in altre aree geografiche e su specie di cetacei differenti».
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Rifiuti speciali, slitta la presentazione del Mud: c’è tempo fino a luglio

Modello unico di dichiarazione ambientale mud rifiuti speciali

Il termine per adempiere agli obblighi previsti dalla normativa in merito al Modello unico di dichiarazione ambientale (Mud) slitta ai primi giorni di luglio, come informa il ministero dell’Ambiente.
Il decreto della presidenza del Consiglio che aggiorna la modulistica per il Mud è atteso entro il 10 marzo in Gazzetta ufficiale; da quel momento scatteranno 120 giorni di tempo per gli operatori di settore, facendo così slittare gli obblighi tra il 4 e il 10 luglio prossimi, in base all’effettiva data di pubblicazione del decreto sulla Gazzetta ufficiale.
Le dichiarazioni Mud, è utile ricordare, rappresentano la principale fonte di informazione per stimare la produzione nazionale dei rifiuti speciali, che ammontano a circa il quintuplo dei rifiuti urbani. Si tratta di un mondo dove la certezza dell’informazione, purtroppo, è ancora utopia.
Basti osservare che, ai sensi del comma 3 dell’art. 189 del decreto legislativo n.152/2006, sono tenuti alla presentazione della dichiarazione annuale solo gli Enti e le imprese produttori di rifiuti pericolosi e quelli che producono i rifiuti non pericolosi, di cui all’articolo 184, comma 3, lettere c), d) e g) del citato decreto; per i rifiuti non pericolosi, sono esclusi dall’obbligo di presentazione della dichiarazione i produttori iniziali con meno di 10 dipendenti.
Di fatto, dunque, gran parte degli operatori di settore resta escluso dagli obblighi Mud: non a caso anche l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) arriva a stimare il 49,8% dei rifiuti non pericolosi, non potendo accedere a fonti certe nel merito.
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Cambiamento climatico: aumenta la diffusione di un parassita pericoloso per la salute umana

aumenta la diffusione di un parassita pericoloso per la salute umana

Secondo lo studio “Current and future distribution of a parasite with complex life cycle under global change scenarios: Echinococcus multilocularis in Europe”, pubblicato su Global Change Biology da un team di ricercatori dell’università di Pisa, Istituto di bioeconomia CNR Firenze e Fondazione Edmund Mach di Trento, « Per effetto del cambiamento climatico la distribuzione di Echinococcus multilocularis, un parassita di canidi e piccoli mammiferi, e dannoso per la salute umana, è in espansione».
Echinococcus multilocularis è un verme piatto che circola tra canidi (selvatici e domestici) e piccoli mammiferi (soprattutto roditori) e che causa una grave patologia denominata Echinococcosi alveolare che ha spesso esiti fatali nell’uomo. Si tratta del secondo più importante parassita trasmesso per via orale all’uomo in Europa, e terzo al mondo dopo la Taenia solium e l’Echinococcus granulosus.
Il professor Alessandro Massolo del Dipartimento di biologia dell’università di Pisa, che ha condotto il team di ricerca, a spiega che «Il cambiamento globale in corso sta influenzando drammaticamente la diffusione e l’emergere di molte malattie infettive, sia nelle popolazioni umane, sia in quelle animali, si stima infatti che oltre il 60% delle malattie infettive umane conosciute e circa il 75% di quelle emergenti siano causate da agenti patogeni di origine animale; comprendere dunque l'impatto del cambiamento globale sulla distribuzione e la prevalenza dei parassiti è una questione cruciale per la salute pubblica».
Insieme al professor Massolo, per l’Ateneo pisano hanno lavorato alla ricerca Lucia Cenni, dottoranda in biologia, e Andrea Simoncini, studente di magistrale di biologia in conservazione ed evoluzione - WCE. Hanno partecipato allo studio anche Heidi Christine Hauffe e Annapaola Rizzoli della Fondazione Edmund Mach di Trento e Luciano Massetti dell’Istituto per la Bioeconomia del CNR di Firenze.
Con l’aiuto di tecniche di machine learning, il team di ricercatori ha analizzato, la distribuzione attuale e futura in Europa di Echinococcus multilocularis, sulla base di scenari di cambiamento climatico e di uso del suolo e ne è venuto fuori che «Le proiezioni suggeriscono un aumento generale di aree ad molto idonee per questo parassita verso le latitudini settentrionali (Gran Bretagna e Penisola Finno-scandinava) e nell'intera regione alpina, mentre ne prevedono una diminuzione in Europa centrale (Germania, Polonia, Svizzera, Austria e Repubblica Ceca)».
Masslo evidenzia che «Per la prima volta abbiamo stimato la distribuzione di Echinococcus multilocularis in base a vari scenari relativi ai cambiamenti climatici e all’uso del suolo, per farlo abbiamo integrato varie discipline quali l’ecologia animale, la modellizzazione ecologica, la parassitologia e la epidemiologia».
 
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Festa della donna senza mimosa, la siccità ha tagliato un terzo della produzione toscana

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Con 49 milioni di valore alla produzione e 2.596 aziende specializzate, il comparto di fiori concentrato principalmente tra la Versilia, Viareggio e Pescia è tra i più importanti in Italia contribuendo, insieme al vivaismo, al 30% del Pil agricolo regionale. Ma la siccità sta stravolgendo anche questo comparto economico tradizionale, come mostra in modo esemplare il caso della mimosa.
Dalla Coldiretti Toscana, ovvero la più grande associazione di agricoltori attiva in regione, segnalano alla vigilia della Festa della donna «l’addio a 1 mimosa su 3 a causa della siccità, che ha tagliato almeno del 30% la produzione e fatto aumentare i prezzi spingendo i consumatori verso i nuovi fiori di tendenza come l’anemone, il ranuncolo, il tulipano ma anche la violaciocca ed il garofano».
La scarsità di mimose nel 2023 ha fatto aumentare le quotazioni con prezzi che – sottolinea Coldiretti Toscana – vanno dai 5 ai 10 euro per salire fino ai 20 euro e oltre per i mazzi più grandi o per le piante in vaso: «Una situazione che sta attirando i ladri di fiori tanto che si moltiplicano le segnalazioni di furti e tentati furti nelle aree di coltivazione».
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Cinque ricercatori dall’Ucraina all’Italia: due saranno ospitati all’Università di Pisa

ucraina universita di pisa

Il bando MSCA4Ukraine (Marie- Skłodowska Curie Actions for Ukraine), finanziato dall’Ue, permetterà a ricercatori e ricercatrici ucraini di continuare il loro lavoro presso università ed enti di ricerca in 21 paesi europei, con l’Ateneo pisano in prima fila.
«Dare la possibilità a studenti, docenti e ricercatori ucraini di continuare i loro studi e le loro attività di ricerca nelle nostre aule e nei nostri laboratori è l’azione più concreta che possiamo mettere in campo come comunità accademica – dichiara il rettore, Riccardo Zucchi – per aiutare una popolazione colpita dalla guerra. Il programma MSCA4Ukraine nasce proprio con questo intento e come Università di Pisa siamo onorati di poter ospitare due dei cinque ricercatori che arriveranno in Italia».
Il progetto presso dipartimento di Chimica e chimica industriale durerà 12 mesi e verrà svolto da uno studente di dottorato dell’Istituto di chimica organica della National academy of sciences dell’Ucraina, con sede a Kyiv. Lo studente avrà come tutor il professor Gaetano Angelici e svolgerà un progetto di ricerca dal titolo “Sintesi di eterocicli funzionalizzabili per lo studio di nuovi coniugati peptidomimetici per applicazioni biomediche”.
Il progetto presso il dipartimento di Ingegneria civile e industriale durerà 24 mesi e verrà svolto da un ricercatore dell’Istituto di geochimica ambientale della National academy of sciences dell’Ucraina. Il ricercatore avrà come tutor la professoressa Rosa Lo Frano e svolgerà un progetto dal titolo “Valutazione dell'accumulo, della contaminazione e della migrazione del trizio in impianti nucleari in calcestruzzo”.
E una volta finita la durata del progetto di ricerca? Il programma MSCA4Ukraine ha anche l’obiettivo di facilitare il reinserimento dei ricercatori in Ucraina nel caso, dopo il periodo del finanziamento, siano soddisfatte le condizioni per un rientro sicuro, al fine di prevenire la fuga permanente dei cervelli e contribuire a rafforzare il settore universitario e della ricerca ucraino e la collaborazione e lo scambio con la comunità di ricerca internazionale.
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