La comunicazione sessuale degli insetti si basa in misura significativa sui feromoni, attrattivi chimici che consentono specificamente ai maschi e alle femmine di una specie di accoppiarsi. I feromoni sessuali sono distintivi per maschi e femmine di una specie. Anche le più piccole differenze, come quelle osservate nella formazione di nuove specie, fanno sì che l'accoppiamento non avvenga più, perché maschi e femmine si ritrovano solo attraverso l'odore inconfondibile dei loro conspecifici.
Ora, lo studio “Ozone exposure disrupts insect sexual communication”, pubblicato su Nature Communications da un team di ricercatori guidato dal Max-Planck-Institut für chemische Ökologie, di Jena, dimostra che «L'aumento dei livelli di ozono derivante dall'inquinamento atmosferico antropogenico può degradare i feromoni sessuali degli insetti, che sono segnali di accoppiamento cruciali, e quindi impedire la riuscita della riproduzione. L'effetto ossidante dell'ozono provoca la rottura dei doppi legami carbonio-carbonio presenti nelle molecole di molti feromoni degli insetti. Pertanto, il segnale di accoppiamento chimico specifico è reso disfunzionale. La cosa più notevole è che la comunicazione sessuale interrotta ha anche portato i machi dei moscerini a mostrare comportamenti di accoppiamento insoliti nei confronti dei maschi ozonizzati della loro stessa specie».
La maggior parte dei feromoni degli insetti sono molecole odorose contenenti doppi legami carbonio-carbonio che possono essere facilmente distrutti dall'ozono. Markus Knaden, co-autore principale dello studio e che dirige il gruppo Abteilung Evolutionäre Neuroethologie del Max-Planck-Institut für chemische Ökologie conferma: «Sapevamo già che gli inquinanti ambientali come l'ozono e l'ossido nitrico degradano i profumi floreali, rendendo i fiori meno attraenti per i loro impollinatori. Poiché i composti con doppi legami di carbonio sono particolarmente sensibili alla degradazione dell'ozono e quasi tutti i feromoni sessuali degli insetti portano questi doppi legami, ci chiedevamo se l'inquinamento atmosferico influisse anche sul modo in cui le femmine e i maschi degli insetti si trovano e si identificano a vicenda durante l'accoppiamento».
Per studiare gli effetti dell'ozono sul comportamento di accoppiamento del moscerino della frutta (Drosophila melanogaster), gli scienziati hanno prima sviluppato un sistema di esposizione all'ozono per i moscerini che potesse imitare i livelli di ozono nell'aria come vengono spesso misurati attualmente nelle città in estate. Per farlo, i ricercatori hanno dovuto creare un flusso d'aria continuo con livelli di ozono definiti con precisione, il che è complicato dal fatto che l'ozono non è un composto chimico stabile e si decompone facilmente. Allo stesso tempo, le mosche spesso trasportano quantità molto piccole di feromoni anche in condizioni normali. "Avevamo quindi bisogno di una tecnica che ci permettesse di misurare anche minuscole quantità di feromoni su singole mosche che erano state esposte o meno all'ozono prima delle misurazioni. Per fare ciò, abbiamo utilizzato quella che è nota come unità di desorbimento termico accoppiata a un gascromatografo/spettrometro di massa, che ci ha permesso di misurare minuscole quantità di odori emessi dalle singole mosche,
Negli esperimenti, i moscerini maschi sono stati esposti a concentrazioni di ozono leggermente elevate. Poi gli scienziati hanno misurato se i moscerini emettevano ancora il loro feromone. Quando i moscerini sono state esposti per due ore a 100 parti per miliardo (ppb, corrispondenti a una concentrazione di 10-9) di ozono, i livelli di feromoni misurati sono diminuiti significativamente rispetto a un gruppo di controllo che era stato esposto solo all'aria ambiente. Oltre ai maschi della moscerino modello Drosophila melanogaster , i ricercatori hanno testato anche moscerini maschi di 8 specie correlate del genere Drosophila e «In una sola specie, la Drosophila busckii, il rilascio di specifici feromoni maschili è rimasto inalterato dopo l'esposizione all'ozono, ma questi composti non contengono doppi legami carbonio-carbonio e quindi non reagiscono così facilmente con l'ozono».
Quindi, i ricercatori hanno testato l'attrattiva dei moscerini maschi per i loro conspecifici e hanno fatto scoperte inquietanti che potrebbero essere dovute principalmente al ruolo dei rispettivi feromoni. Al Max-Planck-Institut für chemische Ökologie sottolineano che nelle specie Drosophila questi feromoni sono emessi dai maschi e aumentano la loro attrattiva per le femmine. I maschi usano l'odore anche per distinguere le femmine dagli altri maschi: mentre il loro feromone attrae le femmine, respinge gli altri maschi. Durante l'accoppiamento, i maschi trasferiscono il loro feromone alle femmine. Le femmine appena accoppiate che odorano di feromone maschile non sono più attraenti per gli altri maschi per le due ore successive. Quindi, «I livelli elevati di ozono non solo facevano sì che le femmine fossero meno attratte dai maschi, ma i maschi ozonizzati erano improvvisamente interessanti per le loro controparti maschili – dicono i ricercatori - Sapevamo che livelli elevati di ozono potevano influenzare i sistemi di accoppiamento degli insetti perché la rottura dei doppi legami di carbonio, e quindi dei feromoni, per ossidazione, in chimica non è scienza missilistica. Tuttavia, siamo rimasti scioccati dal fatto che anche concentrazioni di ozono leggermente elevate abbiano avuto effetti così forti sulla mosca comportamento. In realtà, inizialmente volevamo concentrarci sulle interazioni tra maschi e femmine. Avremmo potuto spiegare che i maschi hanno iniziato a corteggiarsi a vicenda dopo una breve esposizione all'ozono, perché ovviamente non potevano distinguere i maschi ozonizzati dalle femmine. Tuttavia, non avevamo pensato a questo prima. Pertanto, siamo rimasti piuttosto perplessi dal comportamento dei maschi esposti all'ozono».
Il team di ricerca ha anche osservato gli effetti degli alti livelli di ozono nell'aria sul comportamento di accoppiamento di altre specie di Drosophila e ne è emerso che «Anche i maschi della specie Drosophila busckii hanno avuto meno successo nell'accoppiamento dopo l'esposizione all'ozono, sebbene l'ozono non alteri il feromone che è stato descritto essere emesso dai maschi di D. busckii. Tuttavia, anche altri composti chimici sensibili all'ozono finora non identificati possono svolgere un ruolo aggiuntivo nel loro comportamento di accoppiamento». Il team di ricerca ha osservato comportamenti di corteggiamento insoliti da parte dei maschi nei confronti di altri maschi esposti all'ozono in 8 delle altre 9 specie studiate. I ricercatori dicono che «E’ interessante notare che una specie, D. suzukii, che è nota per essere priva di feromoni ma che giudica in base a segnali visivi, non è stato affatto influenzato dall'aumento dei livelli di ozono».
La maggior parte dei feromoni degli insetti contiene doppi legami carbonio-carbonio e l'ozono probabilmente interferisce con la comunicazione sessuale in molte specie di insetti. Bill Hansson, capo dell’Abteilung Evolutionäre Neuroethologie e fondatore del Max Planck Center next Generation Insect Chemical Ecology (nGICE), spiega a sua volta: «Gli insetti e i loro feromoni si sono evoluti nel corso di milioni di anni. Al contrario, la concentrazione di inquinanti atmosferici è aumentata drammaticamente solo dall'industrializzazione. E’ improbabile che i sistemi di comunicazione degli insetti, che si sono evoluti nel corso dell'evoluzione, siano in grado di adattarsi a nuove condizioni in un breve periodo di tempo se i feromoni improvvisamente non ci sono più. L'unica soluzione a questo dilemma è ridurre immediatamente gli inquinanti nell'atmosfera».
Hansson studia gli effetti dei cambiamenti climatici e dell'inquinamento atmosferico sugli insetti e sulla loro comunicazione chimica e, in particolare, la sua ricerca si concentra sugli effetti del cambiamento climatico antropogenico sui servizi ecosistemici degli insetti, sulle epidemie di specie di insetti invasive e sulla diffusione di vettori di malattie in Europa.
Gli scienziati di Jena vogliono studiare gli effetti dell'ozono su una gamma più ampia di insetti, comprese le falene che di solito seguono scie di feromoni su lunghe distanze. Per gli insetti i feromoni sessuali sono anche segnali cruciali per distinguere tra conspecifici e specie strettamente imparentate. Knaden conclude: «Vorremmo scoprire se alti livelli di ozono portano a un aumento dei tassi di ibridazione quando specie di moscerini strettamente imparentate condividono il loro habitat. Infine, la comunicazione chimica negli insetti non è limitata al comportamento di accoppiamento. Tutti gli insetti sociali come api, formiche e vespe, usano segnali chimici per identificare i membri della loro colonia. Studiamo anche se la struttura sociale all'interno delle colonie di formiche ne è influenzata, quando le formiche tornano dai loro viaggi di foraggiamento durante i quali sono state esposte a livelli aumentati di sostanze inquinanti. Alti livelli di ozono non sono solo dannosi per la salute umana. L'attuale stile di vita delle nazioni industrializzate comporta costi molto elevati per l'ambiente e il clima; molti effetti indiretti non sono nemmeno noti. L'attuale studio fornisce un'ulteriore spiegazione del motivo per cui le popolazioni di insetti stanno diminuendo drasticamente in tutto il mondo, a parte l'applicazione di insetticidi e l'eliminazione degli habitat. Se la comunicazione chimica viene interrotta dagli inquinanti nell'aria, non possono riprodursi a una velocità sufficiente. Questo può interessare anche molti impollinatori, come api e farfalle. Il fatto che l'80% delle nostre colture debba essere impollinato dagli insetti chiarisce quale portata potrebbe assumere in futuro questo problema, se non riusciremo a ridurre drasticamente l'inquinamento atmosferico».
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Frutto di un accordo maturato con i Governi degli Stati membri, l’Europarlamento ha approvato oggi – con 486 voti favorevoli, 132 contrari e 10 astensioni – la revisione del cosiddetto “regolamento sulla condivisione degli sforzi”, che stabilisce i livelli vincolanti di riduzioni annuali per le emissioni di gas serra per il trasporto su strada, il riscaldamento degli edifici, l'agricoltura, i piccoli impianti industriali e la gestione dei rifiuti per ciascuno Stato membro dell'Ue: insieme, questi settori valgono circa il 60% di tutte le emissioni climalteranti europee.
Il testo deve ora essere formalmente approvato anche dal Consiglio, per essere poi pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell'Ue ed entrare così in vigore 20 giorni dopo.
«Con questa legge – dichiara la relatrice del provvedimento, l’europarlamentare Jessica Polfjärd – compiamo un importante passo avanti nella realizzazione degli obiettivi climatici dell'Ue. Le nuove regole per la riduzione delle emissioni nazionali garantiscono un contributo da parte di tutti gli Stati membri e l'eliminazione delle lacune esistenti».
La nuova normativa Ue innalza l'obiettivo di riduzione dei gas serra a livello europeo, da raggiungere entro il 2030, dal 30 al 40% rispetto ai livelli del 2005. Per la prima volta, tutti i Paesi dell'Ue dovranno ridurre le emissioni di gas serra con obiettivi che variano dal 10 al 50% – con obiettivi di riduzione basati su Pil pro capite ed efficacia dei – costi e, ogni anno, dovranno inoltre garantire di non superare la propria quota annuale di emissioni di gas serra.
La legge mira a conciliare l'esigenza di flessibilità da parte dei Paesi dell'Ue per raggiungere i propri obiettivi e la necessità di una transizione giusta e socialmente equa: per questo motivo, viene limitata la flessibilità prevista dalla normativa precedente, riducendo la quantità di emissioni che gli Stati membri potranno risparmiare da anni precedenti, prendere in prestito da anni futuri e scambiare con altri Stati membri.
Per responsabilizzare gli Stati membri, la Commissione, su richiesta del Parlamento, renderà pubbliche le informazioni sulle azioni a livello nazionale in un formato facilmente accessibile.
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Con 343 voti favorevoli, 216 contrari e 78 astensioni, la plenaria dell’Europarlamento ha approvato oggi la proposta di revisione della direttiva sulla prestazione energetica nell'edilizia (Epbd), che un mese fa aveva già ottenuto il via libera della commissione Itre.
Dopo il voto di oggi, la palla passerà ai negoziati finali tra Parlamento, Consiglio e Commissione Ue – il cosiddetto trilogo – prima di tornare in plenaria per l’approvazione nella formulazione definitiva.
«L'impennata dei prezzi dell'energia ha riportato l'attenzione sull'efficienza energetica e sulle misure di risparmio energetico – spiega il relatore della misura, l’europarlamentare Ciarán Cuffe – Migliorare le prestazioni degli edifici europei abbasserà le bollette e la nostra dipendenza dalle importazioni di energia. Vogliamo che la direttiva riduca la povertà energetica e le emissioni, e garantisca migliori ambienti interni per la salute delle persone. Si tratta di una strategia di crescita per l'Europa, che creerà centinaia di migliaia di posti di lavoro locali e di buona qualità nell'edilizia, nelle ristrutturazioni e nelle energie rinnovabili, migliorando il benessere di milioni di persone che vivono in Europa».
Il settore edilizio è responsabile infatti del 40% del consumo totale dell’energia e del 36% delle emissioni a effetto serra nell’Ue, ma già prima della guerra in Ucraina (dati 2020) circa 36 milioni di europei non potevano mantenere le loro case al caldo a causa di redditi bassi, spese energetiche elevate e scarsa efficienza degli impianti e degli edifici.
Per contrastare in un sol colpo povertà energetica e crisi climatica, la nuova proposta di direttiva propone di raggiungere la neutralità climatica degli edifici entro il 2050, introducendo importanti tappe intermedie a partire già dal 2026.
Per allora tutti i nuovi edifici pubblici dovranno essere a emissioni nette zero, un risultato che dovranno traguardare anche gli edifici privati entro il 2028. Soprattutto, case ed edifici residenziali dovranno raggiungere, come minimo, la classe di prestazione energetica E entro il 2030, e D entro il 2033 (per gli edifici non residenziali e pubblici i target dovranno essere raggiunti con 3 anni di anticipo, rispettivamente).
Per prendere in considerazione le differenti situazioni di partenza in cui si trovano i parchi immobiliari nazionali, nella classificazione di efficienza energetica, che va dalla lettera A alla G, la classe G dovrà corrispondere al 15% degli edifici con le prestazioni energetiche peggiori in ogni Stato membro.
Inoltre «gli interventi di miglioramento delle prestazioni energetiche (ad esempio sotto forma di lavori di isolamento o rinnovo dell'impianto di riscaldamento) dovranno essere effettuati al momento dell'ingresso di un nuovo inquilino, oppure al momento della vendita o della ristrutturazione dell'edificio».
Questi gli obiettivi generali: saranno i singoli Paesi Ue a stabilire le misure necessarie per raggiungerli, all’interno dei Piani nazionali di ristrutturazione che dovranno essere redatti, in modo da tener conto delle specificità nazionali. Un fronte sul quale il Governo italiano sembra però voler gettare la spugna senza neanche provarci.
«La direttiva sulle case green approvata in Parlamento europeo è insoddisfacente per l’Italia. Anche nel trilogo, come fatto fino a oggi, continueremo a batterci a difesa dell’interesse nazionale – dichiara il ministro dell’Ambiente, Pichetto Fratin – Non mettiamo in discussione gli obiettivi ambientali di decarbonizzazione e di riqualificazione del patrimonio edilizio, ma gli obiettivi temporali, specie per gli edifici residenziali esistenti, sono ad oggi non raggiungibili per il nostro Paese».
Secondo questa lettura gli obiettivi di efficienza energetica, ritenuti raggiungibili dalla maggioranza degli eurodeputati di tutti i Paesi europei, non sarebbero raggiungibili per quella che è ancora la seconda potenza industriale del Vecchio continente. È davvero così? Per rispondere, oltre al potenziale ancora inespresso in termini di efficientamento, basti osservare i trascorsi degli ultimi anni.
Secondo le stime prodotte dall’Associazione nazionale costruttori edili (Ance) gli obiettivi al 2033 si traducono per l’Italia in circa 200mila interventi di ristrutturazione su singoli edifici l’anno, per un costo di circa 40-60 mld di euro annui. Nel 2022, con ecobonus e superbonus in vigore, gli interventi sono stati 260mila. Tornando invece al regime pre-superbonus e pre-cessione del credito/sconto in fattura – ovvero la scelta politica operata recentemente proprio dal Governo Meloni – il ritmo cala di molto: la decarbonizzazione completa del parco edilizio verrebbe raggiunta tra 3.800 anni anziché nel 2050.
Non a caso gli eurodeputati hanno approvato una proposta in cui «i piani nazionali di ristrutturazione prevedano regimi di sostegno per facilitare l'accesso alle sovvenzioni e ai finanziamenti. Gli Stati membri dovranno allestire punti di informazione e programmi di ristrutturazione neutri dal punto di vista dei costi». È dunque evidente che anche l’Italia sarà presto chiamata, in caso di approvazione della nuova direttiva, a rivedere per l’ennesima volta gli incentivi a sostegno delle ristrutturazioni edilizie.
«Il via libera arrivato oggi dall’Eurocamera alla direttiva case green – commenta nel merito Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente – rappresenta un’ottima notizia. L’Italia non perda questa importante occasione, affronti con interventi concreti, politiche ambiziose e una revisione dei sistemi incentivanti, la sfida indicata dall’Europa a partire dalla definizione di un piano nazionale di riqualificazione edilizia evitando, però, di commettere gravi errori come quello fatto recentemente prevedendo lo stop alla cessione del credito e allo sconto in fattura».
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Gli scienziati avevano previsto che siccità e inondazioni sarebbero diventate più frequenti e gravi man mano che il nostro pianeta si riscalda e il clima cambia, ma rilevarlo su scala regionale e continentale si è rivelato difficile. Ora, il nuovo Lo studio “Changing intensity of hydroclimatic extreme events revealed by GRACE and GRACE-FO”, pubblicato su Nature Water da Mattew Rodell del NASA Goddard Space Flight Centee e Bailing Li dell’università del Maryland, conferma che «Le grandi siccità e le precipitazioni piovose - periodi di precipitazioni eccessive e stoccaggio di acqua sulla terraferma - si sono effettivamente verificate più spesso».
Rodell e Li hanno esaminato 20 anni di dati dai satelliti NASA e tedeschi GRACE e GRACE-FO per identificare eventi estremi di umidità e siccità, scoprendo che «Inondazioni e siccità rappresentano ogni anno oltre il 20% delle perdite economiche causate da eventi meteorologici estremi negli Stati Uniti. Gli impatti economici sono simili in tutto il mondo, anche se il bilancio umano tende ad essere più devastante nei quartieri poveri e nei paesi in via di sviluppo». I due scienziati hanno anche scoperto che «L'intensità mondiale di questi eventi estremi di umidità e siccità - una metrica che combina estensione, durata e gravità - è strettamente legata al riscaldamento globale».
Dal 2015 al 2021 (7 dei 9 anni più caldi mai registrati) la frequenza di eventi estremi di pioggia e di seccità è stata di 4 all'anno, rispetto alle 3 nei 13 anni precedenti. «Questo ha senso - dicono gli autori dello studio - perché l'aria più calda fa evaporare più umidità dalla superficie terrestre durante gli eventi secchi; l'aria calda può anche trattenere più umidità per alimentare forti nevicate e precipitazioni».
Rodell evidenzia che «L'idea del cambiamento climatico può essere qualcosa di astratto. Un paio di gradi in più non sembra molto, ma gli impatti del ciclo dell'acqua sono tangibili. Il riscaldamento globale causerà siccità e periodi umidi più intensi, che colpiranno le persone, l'economia e l'agricoltura in tutto il mondo. Il monitoraggio degli estremi idrologici è importante per prepararsi agli eventi futuri, mitigarne gli impatti e adattarsi».
Rodell e Li hanno studiato 1.056 eventi estremi di umidità e siccità, dal 2002 al 2021, osservati dai satelliti Gravity Recovery and Climate Experiment (GRACE) e GRACE-Follow-On (GRACE-FO) che utilizzano misurazioni precise del campo gravitazionale terrestre per rilevare anomalie di stoccaggio dell'acqua, in particolare, come la quantità di acqua immagazzinata in suoli, falde acquifere, laghi, fiumi, manto nevoso e ghiaccio rispetto alla norma. Rodell. Spiega: «E’ come guardare il livello dell'acqua nella vasca da bagno. Puoi vedere quanto sale e scende senza conoscere la quantità totale di acqua nella vasca. Dato che GRACE e GRACE-FO forniscono ogni mese una nuova mappa delle anomalie di stoccaggio dell'acqua in tutto il mondo, forniscono una visione completa della gravità degli eventi idrologici e di come si evolvono nel tempo».
Nel loro studio, Rodell e Li hanno applicato una metrica di "intensità" che tiene conto della gravità, della durata e dell'estensione spaziale della siccità e degli eventi umidi estremi e hanno scoperto che «L’intensità totale globale degli eventi estremi è aumentata dal 2002 al 2021, rispecchiando l'aumento delle temperature della Terra nello stesso periodo».
L'evento di gran lunga più intenso identificato nello studio è stato un evento pluviale iniziato nel 2019 in Africa centrale e tuttora in corso e che ha causato l' innalzamento del livello del lago Vittoria di oltre un metro. La siccità del 2015-2016 in Brasile è stata l'evento di siccità più intenso degli ultimi 20 anni e ha portato allo svuotamento dei bacini idrici e al razionamento dell'acqua in alcune città brasiliane.
Li fa notare che «Entrambi gli eventi sono stati associati alla variabilità climatica, ma la siccità brasiliana si è verificata nell'anno più caldo mai registrato (2016), riflettendo l'impatto del riscaldamento globale. Anche le recenti siccità degli Stati Uniti sudoccidentali e dell'Europa meridionale sono stati alcuni degli eventi più intensi, in parte a causa del riscaldamento antropogenico».
Li conclude: «Il riscaldamento globale ha avuto impatti ampi e profondi sullo stoccaggio dell'acqua terrestre, come la riduzione della neve annuale in alta quota e l'esaurimento delle acque sotterranee da parte delle persone quando le acque superficiali sono scarse. Riflettendo questi cambiamenti, i dati GRACE ci forniscono un unico prospettiva di come gli estremi idrologici stanno cambiando in tutto il mondo».
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Dove prima si bruciavano combustibili fossili, si farà ricerca e si produrrà al contempo energia rinnovabile portando benefici direttamente al territorio locale: è questo il nuovo destino dell’ex centrale termoelettrica di Augusta (SR), dove oggi prende corpo l’accordo abbozzato tre anni fa tra Enel, Cnr e il Parco scientifico e tecnologico della Sicilia (Psts).
I tre soggetti firmatari hanno infatti inaugurato un innovativo Centro di ricerca all’interno dell’area, dove è stato realizzato anche un nuovo impianto fotovoltaico da 1,5 MW. Un processo di riconversione portato avanti salvaguardando gli edifici e il patrimonio storico-industriale rappresentato dal sito: progettato dall’architetto e urbanista Giuseppe Samonà, l’impianto vinse infatti il premio “Archinsi61” nel 1961 ed è ancora oggetto di studi e ricerche universitarie.
«La centrale Tifeo di Augusta – dichiara il sindaco, Giuseppe Di Mare - fu costruita alla fine degli anni 50. La sua realizzazione consentì di risolvere le esigenze energetiche delle diverse industrie che si insediarono in quest’area dopo la guerra. Con la nazionalizzazione degli anni 60 venne assorbita dall’Enel e, per circa 50 anni, continuò a fornire la sua energia al sistema elettrico regionale. Con grande orgoglio per il territorio, oggi la centrale di Augusta, con la realizzazione del nuovo impianto fotovoltaico e dei laboratori di ricerca del Cnr, torna a essere protagonista nel processo di transizione energetica in corso nel Paese».
Il nuovo centro di ricerca è a disposizione dei ricercatori dell'Istituto di tecnologie avanzate per l'energia "Nicola Giordano" del Cnr e del Parco scientifico: sarà dedicato in particolare alle bonifiche sostenibili e ad azioni di mitigazione degli impatti ambientali di impianti e infrastrutture per la generazione di energia ad esse collegati, con le tecnologie elaborate che saranno anche oggetto di applicazione in luoghi di interesse Enel.
Il nuovo impianto fotovoltaico realizzato da Enel green power utilizza invece moduli fotovoltaici di ultima generazione prodotti nella fabbrica di Catania 3Sun, dove è stato recentemente inaugurato il cantiere che la porterà ad essere la più grande fabbrica di pannelli solari d’Europa, grazie ad un investimento da 600 mln di euro.
Grazie a una potenza di circa 1,5 MW, l’impianto permetterà di evitare ogni anno l’equivalente di 1.500 tonnellate di anidride carbonica (CO2) e l’utilizzo di 800.000 metri cubi di gas; un progetto che ha visto il coinvolgimento attivo dei cittadini di Augusta, che hanno aderito all’iniziativa di crowdfunding “Scelta rinnovabile”: in questo modo le comunità locali hanno avuto l’opportunità di investire direttamente sulla realizzazione dell’impianto, garantendosi un vantaggioso tasso di remunerazione del finanziamento.
«La transizione energetica verso un modello energetico più sostenibile rappresenta un’opportunità per dare nuova vita ai nostri impianti non più in esercizio – commenta Luca Solfaroli Camillocci, responsabile Enel green power e Thermal generation Italia di Enel – Il sito di una centrale termoelettrica, che ha garantito energia e sviluppo al territorio per anni, ospita ora un centro di ricerca e un impianto di produzione da fonti rinnovabili».
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Il Consiglio Comunale di Firenze ha approvato il piano operativo e il piano strutturale 2023 presentati dall’assessora all’Urbanistica Cecilia Del Re e che, secondo la maggioranza (le opposizioni hanno votato contro) «Delinea la ‘Svolta urbana: zero alberghi, lotta alla rendita e servizi a 15 minuti a piedi, per una Firenze giusta e prossima attraverso innovazione pubblica e privata».
Il sindaco Dario Nardella ha detto: «Ringrazio il consiglio comunale per l’adozione del Piano operativo, primo atto che ci porterà nei prossimi mesi a portare nello stesso consiglio la definitiva approvazione. Ringrazio altresì l’assessore Del Re e tutta la giunta nonché gli uffici tecnici per il lavoro che ha portato a questo risultato. Il Piano operativo rientra tra i principali atti amministrativi che danno forma all’azione di governo dell’ente permettendoci così di offrire ai cittadini e alle istituzioni pubbliche e private un quadro di regole certe e di lungo periodo. In questo modo possiamo proseguire la grande azione di rigenerazione urbana e di sviluppo urbano della città nel segno della sostenibilità e dell’attenzione al mondo del lavoro, ai più fragili, alle imprese virtuose e agli investimenti che fanno crescere la comunità».
Per la Del Re quello approvato è «Un piano innovativo che segna una svolta e si pone in discontinuità con i precedenti piani urbanistici, e non poteva che essere così in quanto si tratta del primo piano post pandemia. Le riflessioni che abbiamo fatto insieme al Consiglio comunale, ai quartieri, alla città tutta, in questo drammatico momento che abbiamo vissuto si ritrovano nel piano operativo con delle scelte in controtendenza. No alla turistificazione della città grazie alla scelta più coraggiosa che facciamo, cioè il blocco verso il turistico ricettivo: siamo la prima città in tutta Italia a farlo, e in questo modo cerchiamo anche di attrarre altri investimenti in città, incentivando un mix di funzioni per il recupero di grandi contenitori. E poi sì alla città pubblica: dobbiamo mettere fine alla stagione della dismissione degli immobili che precedenti amministrazioni hanno attuato anche per necessità di bilancio. Oggi, grazie alle risorse europee, e anche grazie a un cambiamento rispetto agli oneri di urbanizzazione e monetizzazione inserito in questo piano operativo dove, in tema di housing sociale, abbiamo modificato una norma di 18 anni fa che non era poi mai stata toccata, aprendo all'acquisto di nuovi immobili per dare risposte soprattutto sul tema della casa e sul tema degli alloggi per studenti, altra grande emergenza a cui dobbiamo far fronte ovviamente insieme agli altri enti competenti, ovvero Regione Toscana, Azienda regionale per il diritto allo studio e Università di Firenze. Il pubblico deve fare il pubblico e quindi verso questi obiettivi devono essere indirizzate le nostre energie per costruire una città sempre più prossima a misura di cittadino. E ciò anche con il tema della mappatura dei rioni e quindi dei servizi a 15 minuti, che entra sempre in una logica di città post pandemia dentro i nuovi strumenti urbanistici così come entra per la prima volta la mappatura delle isole di calore: i cambiamenti climatici stanno e devono stare al centro della pianificazione urbanistica con scelte anche coraggiose come quella sul fotovoltaico che abbiamo compiuto anche discostandosi dal parere della Soprintendenza e con temi delicati ma centrali per una città inclusiva, quali quelli dell'urbanistica di genere per una città progettata secondo i bisogni di tutte e tutti. Infine il tema dell'accessibilità, con l'accordo di ricerca e le linee generali del Dida che entrano dentro al piano operativo e portano a un nuovo metodo dell'Amministrazione per lavorare su questo fronte».
Ampio lo spazio dedicato ai temi ambientali, della mitigazione climatica e della transizione energetica possibile e giusta con l’avvio del primo Piano del verde e degli spazi pubblici aperti della Città di Firenze (coordinato a Ps e Poc); l’aumento degli spazi di verde pubblico su scale diverse: oltre al nuovo Parco Florentia e all’ex Camping Michelangelo, 33 nuove schede di verde pubblico, insieme a nuovi orti urbani, pocket garden e verde di quartiere; l’incentivo alla depavimentazione, alla copertura arborea dei parcheggi (un posto auto ogni 50 mq anziché ogni 25 mq) e alle aree di sosta naturalistiche; valorizzazione delle greenways cittadine; tutela della biodiversità e del mondo animale, a partire dal sostegno all’apicoltura (piante nettarifere, etc), alla tutela di rondini e rondoni, e a nuove aree cani. Viene inoltre pianificato un Ecocentro per quartiere, parte del piano di raccolta dei rifiuti ‘Firenze città circolare’, oltre all’attivazione del nuovo impianto per smaltimento Raee (rifiuti elettronici ed elettrici) a San Donnino. Si favorisce poi il ricorso alle energie rinnovabili grazie all’installazione di impianti fotovoltaici e pannelli solari (requisito fondamentale per la costituzione di comunità energetiche), con la variante urbanistica di prossima approvazione. In tema di mobilità sostenibile, dolce e intermodale per Firenze e per la Grande Firenze, il piano inserisce le nuove linee tramviarie, i parcheggi scambiatori (preferibilmente sotterranei) e i parcheggi diffusi in centro storico e nei Quartieri, ma anche Scudo verde, Bicipolitana, zone 30, bike boxes e spazi per ricovero mezzi di mobilità sostenibile, pedibus, mobilità elettrica e micrologistica, Smart City Control Room e infine un Piano strutturale unico (il prossimo) per la Grande Firenze.
Secondo l’Ordine degli ingegneri di Firenze, «L’adozione del nuovo Piano operativo comunale è apprezzabile, perché bisogna costruire la Firenze del futuro. Ciò che ci preme sottolineare oggi è la necessità di norme che consentano di lavorare sugli edifici esistenti per metterli in sicurezza e l’importanza di meno limiti agli impianti fotovoltaici».
Ma Giancarlo Fianchisti e Stefano Corsi, rispettivamente presidente e coordinatore della Commissione ambiente ed energia dell’Ordine degli Ingegneri di Firenze, fanno notare che «Il vincolo paesaggistico riguarda due terzi del territorio comunale, anche zone periferiche. E' necessario un quadro meno limitante o la maggior parte della città rimarrà sguarnita di impianti fotovoltaici. Per questo sarebbe auspicabile che fosse il Comune, tramite approfondimenti, a definire e comunicare condizioni differenziate per le zone che sono sottoposte al vincolo. Non dovrebbe essere il privato cittadino a studiare soluzioni compatibili con il paesaggio. Il rischio è di incaricare costosi studi senza avere certezza di realizzazioni. Riteniamo sia importante un tavolo con la Soprintendenza per comprendere i reali bisogni di tutela, che andrebbero coniugati con regole chiare, ma allo stesso tempo non uguali in tutte le aree a vincolo paesaggistico. Il dibattito del fotovoltaico, riteniamo, non può riguardare solo l'area di Castello ma deve essere esteso a tutto il territorio».
Fianchisti e Corsi concludono: «Nelle aree a vincolo paesaggistico non cambia praticamente niente con la variante del regolamento urbanistico. Il cittadino dovrebbe sapere con più facilità se ha la possibilità di fare questo investimento energetico, che dovrebbe essere incentivato. Il vincolo del cromatismo (che prevede l'uso di pannelli rossi invece che blu), aumenta la spesa e riduce l'efficienza del pannello. Mentre l'integrazione strutturale costringe al rifacimento della copertura, con problemi non solo economici, ma anche tecnici e amministrativi, risultando un intervento sproporzionato rispetto al beneficio che si può ottenere, sia per il privato che nella tutela del paesaggio».
L'articolo Approvati Piano operativo e piano strutturale di Firenze. La Giunta: «Svolta urbana» sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.
La scelta del Governo italiano di opporsi alle decisioni della Commissione Ue di rafforzare e accelerare la transizione ecologica anche nel settore dell’automotive con l’obbligo di zero emissioni per le nuove auto immesse sul mercato Ue dal 2035 (approvato dal Parlamento europeo il 14 febbraio scorso, e bloccato in Consiglio Ue proprio dall’Italia in questi giorni), appare retrograda e pericolosa per il sistema Italia.
Basta infatti rileggere le affermazioni a giustificazione di tali posizioni dell’Italia di “voler condividere la transizione ecologica”, ma parallelamente di voler lanciare “un segnale d’allarme, una sveglia” a tutta l’Europa rispetto a quella che viene vista come una fuga in avanti verso una visione giudicata “ideologica, messianica, escatologica”, che “appartiene al passato”. Oltre al fatto di negare l’urgenza della decarbonizzazione in atto, non possono essere condivisibili i rischi paventati di una “sostenibilità del nostro sistema sociale, che è conseguenza della sostenibilità del nostro sistema produttivo” e questo per una serie di motivi.
Infatti è evidente quanto negative potranno essere le ricadute di tale presa di posizione sul sistema industriale italiano riguardante una rivoluzione unanimemente riconosciuta da tutto il settore auto: entro il 2030 i veicoli elettrificati arriveranno a rappresentare oltre il 70% delle vendite in Europa e più del 40% negli Stati Uniti; entro il 2026 il costo totale delle auto elettriche uguaglierà quello dei veicoli a combustione interna.
L’industria mondiale dell’auto ha decisamente imboccato la strada della transizione con tempi addirittura inferiore a quelli previsti dall’Ue, un eventuale rallentamento della nostra industria avrebbe solo lo scopo di marginarla ulteriormente e di aprire la strada a competitor extraeuropei (Usa, Cina).
Gli asset industriali in gioco sono invece in continua evoluzione tecnologica e potrebbero proiettare il nostro sistema produttivo all’avanguardia sui nuovi modelli di mobilità e sulla nuova componentistica (batterie, sensori, elettronica, motori elettrici), sempre salvaguardando il possibile sviluppo dei biocarburanti sostenibili unica soluzione oggi per i trasporti che non possono essere elettrificati (e per altre soluzioni vitali per il sistema energetico e produttivo, come la cogenerazione).
Inoltre la sostenibilità del sistema sociale non può avere un impatto negativo se implica la necessità di dare particolare sostegno al ruolo della formazione re-skill e up-skill delle imprese italiane senza guardare la passato. È una occasione troppo importante per il posizionamento dei futuri ambiti di specializzazione e del sistema occupazionale con investimenti che devono essere legati alle tecnologie di filiera innovativa.
L’impatto economico e sociale della rivoluzione in corso nel settore auto rappresenta una grande occasione, a patto sia accettata convintamente e governata in una ottica di strategia industriale, perché solo attraverso il ricompattamento del sistema produttivo del settore, oggi frammentato, e l’adozione di adeguate misure di sostegno al processo di innovazione tecnologica, l’Italia può riconquistare una leadership che oggi ha totalmente perso.
Sondaggi e indagini mostrano chiaramente come chi sia passato a un’auto elettrica ben difficilmente pensa di tornare indietro in virtù delle prestazioni e del confort superiori rispetto alle auto tradizionali. Man mano che l’evoluzione delle batterie renderà l’autonomia confrontabile (parliamo di qualche anno) sarà la domanda a fare questa scelta a prescindere dagli obiettivi comunitari.
di Livio de Santoli, presidente del Coordinamento Free
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Il “Climate Inequality Report 2023” pubblicato recentemente da Lucas Chancel e Philipp Bothe del World Inequality Lab dell’Ecole d’économie de Paris e Università della California Berkley e da Tancrède Voituriez del CIRAD, evidenzia che «La crisi climatica ha iniziato a sconvolgere le società umane colpendo gravemente le fondamenta stesse del sostentamento umano e dell'organizzazione sociale. Gli impatti climatici non sono equamente distribuiti in tutto il mondo: in media, i Paesi a basso e medio reddito subiscono impatti maggiori rispetto alle loro controparti più ricche. Allo stesso tempo, la crisi climatica è segnata anche da significative disuguaglianze all'interno dei Paesi. Recenti ricerche rivelano un'alta concentrazione di emissioni globali di gas serra tra una frazione relativamente piccola della popolazione, che vive nei Paesi emergenti e ricchi. Inoltre, la vulnerabilità a numerosi impatti climatici è fortemente legata al reddito e alla ricchezza, non solo tra Paesi ma anche al loro interno».
A un mese e mezzo dall’uscita di quel rapporto, in un forum su Le Monde, un centinaio di eurodeputati, economisti (compreso Joseph Stiglitz), ONG e uomini di affari chiedono all'Ocse e all'Onu di promuovere l’istituzione di una tassa internazionale progressiva sulla ricchezza estrema.
L’eurodeputata socialista Aurore Lalucq, spiega: «Siamo più di 120 eurodeputati, economisti fiscali, milionari, ONG... e chiediamo una tassazione equa degli ultra-ricchi. Impossibile? Ce lo avevano detto anche per la tassazione delle multinazionali!» Parlando dewgli enormi guadagni fatti dai super-ricchi con lsa crisi Covid-19 e con la crisi energetica e alimantare della guerra in Ucraina, la Lalucq ha evidenziato che «Siamo in un classico caso di "mutualizzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti". Ricordatevi che la Commissione Europea è favorevole a questa tassa e anche il Regno Unito, noto per il suo comunismo, l'ha introdotta. Questa tassa sul sovraprofitti, non è di destra o di sinistra, è sostenuta dalla Commissione Europea... lei stessa il frutto di un compromesso sinistra-destra. Non attuarla è irragionevole»
Gabriel Zucman, un economista francese che è attualmente professore associato di politiche pubbliche ed economia alla Goldman School of Public Policy dell’università della California Berkeley, sottolinea: «Immaginatevi che ci sia una politica governativa che salvaguarda la tua ricchezza se sei ricco, nel caso in cui accadano cose brutte (ad esempio, il tuo banchiere si rivela essere un truffatore) Possiamo discutere i meriti di questa politica, ma almeno lì dovrebbe esserci una "tassa" basata sulla ricchezza, giusto?»
Il Forum ricorda che «Mentre dal 2020 l'1% più ricco si è impossessato di quasi i due terzi della ricchezza prodotta, la povertà estrema è aumentata e i salari di quasi due miliardi di persone non riescono ancora a tenere il passo con l'inflazione. Concretamente, perché i numeri parlano più delle parole, nel 2018 Elon Musk, allora secondo uomo più ricco del mondo, non ha pagato un centesimo di tasse federali. Jeff Bezos non ha pagato le tasse nemmeno nel 2007 o nel 2011. In Francia, Paese noto per il suo alto livello di tassazione, le 370 famiglie più ricche sono in realtà tassate solo dal 2% al 3% circa».
Come ci siamo arrivati a questa situazione nella quale – come ind segna l’Italia - i ricchissimi che non pagano tasse si lamentano per l’alta tassazione che in realtà è sulle spalle di altri? «Semplicemente perché i più ricchi possono utilizzare elaborati accordi fiscali per ridurre la loro aliquota fiscale al minimo indispensabile – rispondono eurodeputati ed esperti - cosa che le famiglie comuni non possono fare, ma anche perché i Paesi hanno gradualmente abbandonato la tassazione sulla ricchezza e sul capitale. Una situazione che ricorda quella che prevale tra multinazionali e Piccole e medie imprese». Le Monde fa notare che «In media, l'aliquota fiscale per le PMI in Europa supera il 20%, quando, ade esempio, ristagna intorno al 9% per le multinazionali digitali».
Di fronte a questa ingiustizia ea questa violazione dell'uguaglianza, è stato redatto un accordo globale sulla tassazione minima delle multinazionali sotto l'egida dell'OCSE. Sarà efficace su scala europea grazie a una direttiva adottata definitivamente alla fine del 2022. L’idea è quella di un'imposta dell'1,5% su patrimoni di almeno 50 milioni di euro, ma l livello esatto «Dovrebbe essere deciso collettivamente e democraticamente».
I partecipanti al Forum concludono: «Quel che siamo riusciti a ottenere per le multinazionali, ora dobbiamo farlo per i più ricchi. La nostra proposta è semplice: introdurre un'imposta progressiva sulla ricchezza degli ultra-ricchi su scala internazionale per ridurre le disuguaglianze e contribuire a finanziare gli investimenti necessari per la transizione ecologica e sociale»
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A pochi giorni dall’arrivo in città dei vertici Zero waste, Livorno ha scelto di abbandonare la rete dei Comuni Rifiuti zero cui aveva aderito alcuni anni fa.
La decisione è stata annunciata ieri da Giunta comunale e sindaco, dichiarando che la scelta «non è assolutamente collegata alle sorti dell’inceneritore, per il quale confermiamo il percorso di superamento e il patto sottoscritto nel 2019 con allegato documento da noi redatto che indicava le condizioni necessarie e imprescindibili da realizzare per arrivare allo spegnimento, condizioni che stiamo lavorando per attuare».
La scelta viene invece rivendicata a valle delle «recenti prese di posizione degli esponenti di vertice di Rifiuti zero, il presidente Ercolini in primis. Nelle ultime settimane, infatti, Rifiuti zero ha tentato in ogni modo di mettere in contrapposizione i diritti dei lavoratori con la tutela dell'ambiente, attaccando in maniera del tutto strumentale le politiche assuntive di Aamps e di Retiambiente, che rispondono pienamente agli indirizzi politici di questa amministrazione. Noi invece rivendichiamo con orgoglio il percorso avviato per la stabilizzazione e l'internalizzazione di oltre 200 lavoratori».
In realtà, nell’ottica Rifiuti zero i due temi sono collegati: perché internalizzare “nuovi” lavoratori, si chiedono i comitati, aggravando i costi di una municipalizzata che già oggi faticherebbe a chiudere i bilanci a causa dei costi legati alla gestione del termovalorizzatore cittadino?
Una lettura paradossale del contesto, che rinuncia in un sol colpo a tutte e tre le dimensioni dello sviluppo sostenibile: ambientale, perché l’impianto in questione è l’unico attivo in tutto l’Ato costa (discariche escluse) dove conferire i rifiuti non riciclabili; economica, in quanto è uno dei pochi asset di Aamps in grado di creare valore; sociale, perché l’internalizzazione porta qualità dal punto di vista occupazionale e mano d’opera necessaria a igiene urbana e raccolta differenziata.
«In questi anni – rivendicano dal Comune di Livorno – abbiamo consolidato il sistema porta a porta, abbiamo aperto il Centro del riuso, avviato la diffusione del compostaggio domestico, introdotto la tariffazione puntuale, e abbiamo individuato la strategia per superare l'impianto di incenerimento, attraverso un piano industriale innovativo e circolare che poggia anche su un finanziamento Pnrr di più di 10 milioni. Su questo fronte siamo confortati anche dalla recente illustrazione del piano regionale sui rifiuti fatta dall’assessora Monni e dagli uffici regionali ad Anci Toscana. In quel piano, tra le altre cose l’inceneritore del Picchianti è definito impianto in fase di chiusura».
Un destino che pare segnato, anche se con tempistiche al momento ignote. Nell’ambito del Piano regionale, in fase di definizione ormai dal 2018, Monni si è detta disponibile a valutarle con l’Amministrazione comunale; resta in ipotesi la dismissione a fine anno, ma il problema è proprio quello delle alternative impiantistiche.
I 10 mln di euro del Pnrr sono destinati a realizzare un digestore anaerobico, utilissimo per valorizzare i rifiuti organici (come Forsu e fanghi) ma che non può gestire i rifiuti secchi non riciclabili conferiti oggi al termovalorizzatore. Per questa frazione, nell’Ato costa è in ipotesi la realizzazione a Peccioli di un ossicombustore – un impianto da 90 mln di euro per gestire fino a 179mila t/a –, che si auspica pronto nel 2026 ma di cui ad ora non sono noti i dettagli progettuali.
Nel frattempo sono accantonate sia l’alternativa della piattaforma bio-energetica, sia l’ipotesi di realizzare un impianto di riciclo chimico all’interno della raffineria Eni di Stagno; una tecnologia, quella del riciclo chimico, alternativa alla termovalorizzazione e dai più elevati profili di sostenibilità – al progetto in essere a Roma sono stati destinati fondi Ue per 194 mln di euro –, ma nonostante questo avversata pretestuosamente dai Rifiuti zero ovunque siano state avanzate proposte progettuali in Toscana (in primis Empoli, ma anche Rosignano e Pontedera).
«Siamo stati alleati di Rifiuti zero su molte battaglie ambientali, che noi continueremo con entusiasmo e convinzione – concludono dal Comune di Livorno – In Italia nessuna delle grandi città, salvo Parma e Napoli (entrambe dotate di un termovalorizzatore ciascuna, ndr), fanno parte di Zero waste e a noi faceva particolarmente piacere essere nella rete virtuosa di chi ha dettato da molti anni una linea convincente sull’ambiente e sulla gestione dei rifiuti. Non è possibile però continuare a condividere un percorso con chi oltre a promuovere linea di pensiero ambientalmente virtuosa intende dettare scelte politiche, amministrative e tecniche che con responsabilità e buon senso altri sono chiamati a prendere».
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Le principali caratteristiche del nuovo soil health dashboard sono un dataset sul suolo armonizzato a livello di Unione europea e una nuova metodologia, Si tratta di un nuovo strumento dell' EU Soil Observatory (EUSO) sviluppato e gestito dal Joint Research Centre (JRC) che supporta l'imminente proposta della Commissione europea per una legge sulla salute del suolo e gli indicatori proposti dalla Soil Mission del programma di ricerca e innovazione dell'Ue Horizon Europe.
Al JRC spiegano che «Questa proposta fa parte della strategia dell'Ue per il suolo per il 2030. Il suo scopo è quello di specificare le condizioni per un suolo sano, determinare le opzioni per il monitoraggio del suolo e stabilire regole favorevoli all'utilizzo e al ripristino sostenibili del suolo».
Per la prima volta è così possibile visualizzare lo stato di salute del suolo in tutta l'Ue e il risultato è abbastanza scioccante: uno sbalorditivo 61% dei suoli dell'Ue si trova in uno stato malsano e al JRC avvertono che « Questa cifra è una sottostima dell'effettiva portata del degrado del suolo, data la riconosciuta mancanza di dati su molti altri problemi di degrado del suolo, come la contaminazione del suolo».
Il valore attuale è in linea con la valutazione principale effettuata per l'istituzione di una Soil Mission, secondo la quale «Il 60-70% dei suoli d'Europa era in uno stato malsano. I tipi più diffusi di degrado del suolo sembrano essere la perdita di carbonio organico del suolo (48%), la perdita di biodiversità del suolo (37,5%) e l'erosione del suolo da parte dell'acqua (32%)».
Inoltre, il soil health dashboard mostra che la maggior parte dei suoli malsani è soggetta a più di un tipo di degrado del suolo.
Il dashboard EUSO sulla salute del suolo si basa su una serie di 15 indicatori dei processi di degrado del suolo che coprono: erosione del suolo, inquinamento del suolo, nutrienti, perdita di carbonio organico del suolo, perdita di biodiversità del suolo, compattazione del suolo, salinizzazione del suolo, perdita di suoli organici e impermeabilizzazione del suolo. Ma il team EUSO presso il JRC fa notare che «In pratica, tuttavia, gli indicatori coprono solo un sottoinsieme dei processi di degrado che interessano i suoli. Speriamo che il dashboard metta in luce le attuali lacune nei dati sul suolo, al fine di guidare una migliore condivisione dei dati e una ricerca mirata».
Una novità del dashboard EUSO e l’utilizzo dell’approccio della convergenza delle prove, che combina spazialmente i dataset per evidenziare l'intensità e la posizione dei processi di degrado del suolo. «La mappa che ne è risultata – dicono al JRC - mostra, per la prima volta, dove convergono le prove scientifiche per indicare le aree che potrebbero essere interessate dal degrado del suolo. In altre parole, fornisce un'indicazione di dove possono trovarsi suoli malsani nell'Ue. Questo è stato reso possibile utilizzando dataset armonizzati a livello Ue, la maggior parte dei quali sono stati sviluppati dal JRC e provenienti dall'ESDAC, l’European Soil Data Centre da lungo tempo operativo, ma anche dall'European Environment Agency e da altre istituzioni. Con il tempo, altri dati verranno aggiunti da fonti diverse».
Un'altra novità è la fissazione di valori soglia per determinare quando i suoli possono essere considerati sani o insalubri. Al JRC spiegano ancora che «Sulla base di una combinazione di stime scientifiche e limiti critici stabiliti, sono state fissate soglie per ogni processo di degrado del suolo. Rappresentano una stima del punto oltre il quale la maggior parte dei suoli può ragionevolmente essere considerata vulnerabile a un determinato processo. Data l'ampia gamma di tipi di suolo, alcune di queste soglie a livello Ue possono comportare grandi incertezze. In futuro, l'accuratezza della mappa del dashboard EUSO verrà migliorata applicando soglie basate a livello locale o offrendo agli utenti la possibilità di creare mappe basate sulle soglie che ritengono più appropriate. Il dashboard EUSO sulla salute del suolo presenta anche l'area di sovrapposizione osservata tra le coppie dei 15 processi di degrado del suolo, evidenziando le associazioni tipiche. Infine, statistiche e mappe vengono presentate per ciascun indicatore attraverso un display interattivo in cui gli utenti possono selezionare il degrado del suolo e la scala a cui sono interessati».
La serie di indicatori, insieme alle soglie che determinano lo stato di salute del suolo, si evolverà in base all'attuazione della prossima legislazione dell'Ue sulla salute del suolo, agli sviluppi scientifici (ad esempio i progetti Soil Mission di Horizon Europe) e al miglioramento dei flussi di dati provenienti dai Paesi Ue. Ulteriori elementi saranno sviluppati per riflettere l'attuazione di strategie politiche e normative specifiche, ad esempio la strategia per il suolo, il piano d'azione per l'inquinamento zero, la strategia per la biodiversità, la strategia farm to forke gli Obiettivi di sviluppo sostenibile.
L'articolo Il 61% dei suoli dell’Unione europea è in uno stato malsano sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.