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Filmano camion con presunto UFO nel deserto USA

UFO camion tik tok

Un camion è stato avvistato trasportando un presunto UFO nel deserto degli Stati Uniti, riaccendendo il dibattito sulla presenza di oggetti volanti non identificati e la possibile copertura da parte del governo. In questo articolo, analizzeremo in dettaglio l’incidente e le sue implicazioni. Avvistamento del Camion e il Presunto UFO Mentre osservavano un presunto UFO, […]
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Mattarella: «Il cambiamento climatico è una sfida Comune per Africa ed Europa» (VIDEO)

Mattarella Kenya

Pubblichiamo il testo integrale dell’intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella all’università di Nairobi, in occasione dela sua  visita di Stato nella Repubblica del Kenya
 
Eccellentissimi Ministri,
Eccellentissimi Cancelliere e Vice Cancelliere dell’Università di Nairobi,
Signore e Signori,
mi rivolgo a voi, care studentesse e cari studenti,
buongiorno a tutti in questa splendida giornata di pioggia.
Sono davvero molto lieto di potermi indirizzare a Voi oggi in questa prestigiosa Università, che sin dalla sua fondazione ha formato e continua a formare generazioni di giovani kenyoti e di tutto il continente.
Avverto un sentimento di profonda considerazione nel momento in cui mi rivolgo a Voi nell’Università in cui ha insegnato Wangari Maathai, la prima donna africana a ricevere il Premio Nobel per il suo instancabile impegno a favore della promozione dello sviluppo sostenibile, della democrazia e della pace.
Il suo esempio è stato fonte di ispirazione per un gran numero di donne e di uomini in tutto il mondo.
È anche grazie alle sue azioni se oggi il dibattito attorno al cambiamento climatico non è più appannaggio soltanto di scienziati e di politici, ma è questione che mobilita le coscienze a livello globale.
Per troppo tempo abbiamo infatti affrontato in modo inadeguato la questione della tutela dell’ambiente e del cambiamento climatico.
Eppure non da oggi siamo consapevoli di come le attività umane abbiano un impatto sull’ambiente e sul clima: basti pensare alla deforestazione che ha caratterizzato lo sviluppo di tante aree in Europa.
Una rivista americana, “Popular mechanics”, già nel 1912, oltre cento anni fa, riportava la notizia di come la combustione di miliardi di tonnellate di carbon fossile aggiungesse ogni anno altrettante tonnellate di diossido di carbonio, attribuendo a questo fenomeno nell'atmosfera l’innalzamento delle temperature, i cui effetti, proseguiva l’articolo, sarebbero stati avvertiti nell’arco di alcuni secoli.
Era una premonizione.
Gli effetti del cambiamento climatico si sono addirittura accelerati.
Li avvertiamo in maniera più che significativa.
Le conseguenze dell’innalzamento delle temperature medie sono gravi, ben documentate e si avvertono ovunque nel mondo.
Il drammatico aumento delle ondate di calore, le inondazioni, la siccità, lo scioglimento dei ghiacciai e l’innalzamento del livello dei mari sono alcuni dei sintomi più evidenti.
Come governare questi fenomeni, sfuggendo a una falsa alternativa tra rinuncia allo sviluppo o cristallizzazione dell’esistente?
La risposta è nella espressione sostenibilità. Ambientale, sociale, economica.
In altri termini saper considerare come unitari i destini delle popolazioni del pianeta.
Il cambiamento climatico provoca, come sappiamo, conseguenze nefaste.
Si registra ormai da tempo una drammatica diminuzione della biodiversità, in gran parte legata all’abbattimento delle foreste pluviali equatoriali, con la scomparsa di decine di migliaia di specie viventi ogni anno, una perdita irreparabile di varietà genetica, ecosistemi, di habitat.
Con importanti conseguenze sulla dislocazione della specie umana su un pianeta che vede diminuire progressivamente le aree di insediamento. Si tratti dell’innalzamento delle acque nei mari - che pone a gravissimo rischio la sopravvivenza di numerose isole e delle popolazioni che le abitano - si tratti dell’allargamento progressivo dei fenomeni di desertificazione, si tratti di abbandono di aree marginali.
Il fenomeno dei profughi “climatici”, oltre che di quelli dei conflitti, è drammaticamente davanti a noi.
L’impronta dell’uomo sui cicli biogeochimici – da quello del carbonio a quelli dell’azoto e del fosforo, a quello dell’acqua e dell’ossigeno – tutti elementi fondamentali della vita, è determinante.
Con il crescere della minaccia è aumentata anche la consapevolezza dei gravissimi rischi che l’umanità sta correndo.
In primo luogo grazie all’opera delle Nazioni Unite nel quadro dell’Agenda 2030 e, soprattutto, del Programma per l’Ambiente.
Lo scorso anno abbiamo celebrato la ricorrenza del cinquantesimo anniversario dalla sua istituzione, che proprio qui a Nairobi ha sede, grazie ad una decisione coraggiosa e lungimirante del Primo Presidente del Kenya, Jomo Kenyatta.
Passi avanti sono stati compiuti.
Dalla Conferenza di Montreal del 1987 sulla riduzione del “buco dell’ozono”, al Summit della Terra di Rio de Janeiro del 1992, fino al Protocollo di Kyoto e all’Accordo di Parigi del 2015, tanti momenti hanno consolidato la determinazione collettiva nel prevenire gli scenari più catastrofici legati all’innalzamento delle temperature globali.
Lo scorso anno, qui a Nairobi, nell’ambito dell’Assemblea delle Nazioni Unite per l’Ambiente è stata raggiunta una storica decisione, che porterà alla definizione di un trattato giuridicamente vincolante per contrastare l’inquinamento derivante dalla plastica.
Infine, nei giorni scorsi, alle Nazioni Unite è stato approvato il Trattato che intende proteggere entro il 2030 il 30% delle acque marine.
Sono risultati importanti, che dimostrano come la lotta al cambiamento climatico non sia più trascurata nelle priorità dell’agenda internazionale.
Gran parte del merito di questa nuova sensibilità va attribuito alla società civile e, in particolare, ai tanti giovani come voi che in tutti i continenti – dall’Africa all’Europa, dall’Asia alle Americhe – mantengono alta la pressione sui Governi e sul settore privato, pretendendo azioni immediate e incisive.
È la vostra generazione a essere interpellata, anzitutto.
Perché ne va del vostro futuro.
Soprattutto in Africa se ne vivono le drammatiche conseguenze sulla povertà, la malnutrizione, l'accesso alla salute e le prospettive di crescita.
Il vostro ruolo è e sarà sempre più esigente ed essenziale.
La Repubblica Italiana è fortemente convinta della necessità di sostenere la partecipazione attiva delle giovani generazioni ai negoziati sul clima.
Lo abbiamo fatto in occasione del forum Youth for Climate a Milano durante la preparazione della COP26. E siamo lieti che sia diventato un foro permanente, che speriamo possa contribuire al successo della prossima COP di Dubai.
Dobbiamo, tuttavia, chiederci: tutto questo è sufficiente?
Credo che, in tutta onestà, sia difficile rispondere positivamente a questa domanda.
In segmenti della società e in alcuni Paesi non è presente il senso profondo dell’urgenza e della necessità di interventi incisivi.
Eppure, lo aveva sottolineato il Presidente Ruto alla COP27, in un intervento che ho molto apprezzato per lucidità e coerenza: “di fronte alla catastrofe imminente, i cui segnali premonitori sono già insopportabilmente disastrosi, un’azione dai contorni limitati sarebbe poco saggia; l’inazione infedele e sarebbe fatale”.
Il continente africano è senza dubbio uno fra i più colpiti, pur avendo contribuito molto meno di altri all’attuale degrado della situazione.
La tremenda siccità che ha reso aride vaste regioni del Corno d’Africa e anche del Kenya settentrionale, per l’eccezionale durata del fenomeno, assume oramai i contorni di preoccupante nuova normalità piuttosto che di sporadica emergenza.
Sono a rischio i laghi, i fiumi, tradizionali veicoli e custodi di biodiversità e ambiti di collegamento tra i territori.
Il Mediterraneo – mare in cui insiste l’Italia e regione che custodisce un patrimonio fra i più significativi anche in termini di ricchezza socio-culturale, grazie alla sua caratteristica unica di crocevia di tre continenti – è uno dei luoghi maggiormente in pericolo.
Quella della siccità è peraltro soltanto una fra le crisi climatiche.
Secondo uno degli ultimi rapporti del Panel Internazionale sul Cambiamento Climatico, i ghiacciai sul monte Kenya rischiano di scomparire nel prossimo decennio, mentre quelli sul Monte Kilimanjaro potrebbero non resistere oltre il 2040.
È un destino che queste magnifiche vette africane rischiano di condividere con quelle delle Alpi in Europa, dove già oggi la neve è molto meno frequente.
Non si può fuggire dalla realtà.
La riduzione delle emissioni nei tempi e nelle modalità indicate dalla comunità scientifica costituisce un obbligo ineludibile, che riguarda tutti.
Non ci si può cullare nell’illusione di perseguire prima obiettivi di sviluppo economico per poi affrontare in un secondo momento le problematiche ambientali.
Non avremo un “secondo tempo”.
Se vogliamo lasciare alle future generazioni, a voi che mi state ascoltando oggi, un pianeta dove l’umanità possa vivere e prosperare in pace, dovremo compiere, tutti assieme, progressi decisivi nella transizione verso un’economia decarbonizzata.
I Paesi di più antica industrializzazione hanno contribuito in maniera sicuramente preponderante, con quel modello di sviluppo e crescita, alle emissioni di gas ad effetto serra.
Negli ultimi decenni, nuovi protagonisti hanno conosciuto una travolgente crescita economica, che li ha portati a raggiungere, e a superare, l’impatto di quelli che hanno generato la prima rivoluzione industriale.
Con effetti altrettanto devastanti sull’ambiente.
Gli sforzi dei Paesi industrializzati, che devono essere significativamente accresciuti proporzionalmente alle loro responsabilità, per essere efficaci devono essere accompagnati da un analogo convinto impegno di Paesi - inclusi quelli emergenti -, il cui peso demografico ed economico è diventato prevalente.
Care studentesse, cari studenti,
Lo sviluppo tecnologico e industriale ha permesso all’umanità di modificare in profondità gli equilibri complessivi del pianeta.
Il rapporto tra popolazione e risorse fa sì che l’ambiente che ci circonda non sia più uno scenario immutabile, semplice sfondo alle singole vicende umane.
Il passaggio da meri spettatori a forza attiva e consapevole, capace di plasmare il mondo in cui viviamo ci impone un’assunzione di responsabilità collettiva, da cui non possiamo e non dobbiamo tirarci indietro.
Per sottolineare questa circostanza, alcuni scienziati hanno suggerito di chiamare l’epoca attuale “antropocene”.
Non entro nel dibattito, tuttora in corso, sulla correttezza o meno di questa definizione, ma trovo il termine uno stimolo interessante se consente di riflettere sulla necessità di un cambio di paradigma per affrontare l’emergenza climatica.
Innanzitutto, è evidente come a tal fine la dimensione del singolo Stato sia totalmente inadeguata.
Gli sforzi di unità e indirizzo, realizzati a partire dalla costituzione dell’Onu, con le organizzazioni di integrazione continentale come l’Unione Africana e l’Unione Europea, non saranno mai sufficienti.
Soltanto un’azione collettiva può essere capace di coniugare efficacia e solidarietà per evitare gli scenari catastrofici in atto e quelli che si annunciano.
È il momento dell’unità, della coesione, non di divisioni fra Nord e Sud, fra Est e Ovest del mondo.
Affrontare le sfide che si pongono all’umanità, tutta insieme, significa abbandonare gli scenari di guerra e di conflitto interno che gravano, purtroppo, sui destini di tante popolazioni e progettare congiuntamente il futuro.
La brutale aggressione della Federazione Russa all’Ucraina sta riportando i rapporti internazionali indietro di ottant’anni, come se non vi fosse stato, in questo arco di tempo, un mirabile progresso sul terreno della indipendenza, della libertà e della democrazia, della crescita civile di tante nazioni.
Siamo cresciuti nella interdipendenza tra i nostri destini e gravissime sono le conseguenze degli atti della Federazione Russa sulla sicurezza alimentare, su quella energetica di tanti Paesi, sulla pace, anche nel continente africano, e nel Medio Oriente.
Il contrasto al cambiamento climatico è obiettivo unificante che richiama al dialogo multilaterale, al rispetto degli impegni liberamente assunti in sede internazionale.
La applicazione di piani per la transizione energetica rappresenta di per sè una modalità che può permetterci di addivenire a un sistema economico globale più equo, più sostenibile, più giusto.
È una grande opportunità per dare vita a forme di cooperazione internazionale equilibrate, che affrontino il tema dello sviluppo in modo sostenibile, con il necessario trasferimento tecnologico da parte dei Paesi più avanzati e mettendo a disposizione le risorse finanziarie necessarie a beneficio dei Paesi più vulnerabili.
Il tema della giustizia climatica è fondamentale e l’Unione Europea sostiene l’iniziativa, lanciata in occasione della recente COP 27 a Sharm El Sheikh di istituire un meccanismo per sostenere i Paesi più esposti agli eventi estremi derivanti dal mutamento climatico, tramite la creazione di un Fondo sulle perdite e i danni, che agisca sulla base del principio di solidarietà e non del mero risarcimento.
Particolarmente rilevante è il ruolo delle Istituzioni Finanziarie Internazionali per il sostegno alle iniziative finalizzate a ridurre le emissioni e consentire l’adattamento della società alle nuove condizioni.
Care studentesse, cari studenti,
in uno degli ultimi scritti, dell’Arcivescovo e Premio Nobel Desmond Tutu si legge: “Essere i custodi del creato non rappresenta un titolo vano; impone di agire e con tutta l’urgenza che la situazione richiede”.
La tutela dell’ambiente e il contrasto al cambiamento climatico rappresentano responsabilità ineludibili, che ricadono su tutta l’umanità, nessuno escluso.
Ciò detto, sono fermamente convinto che su questo tema, così come su molti altri, Africa ed Europa possano e debbano assumere congiuntamente un ruolo di guida.
La cooperazione fra Europa e Africa – il cui futuro è in comune - è determinante per promuovere obiettivi ambiziosi.
L’Africa detiene chiavi essenziali per il successo delle strategie di de-carbonizzazione del pianeta.
La produzione di energia pulita e la sua efficace distribuzione sono fondamentali per lo sviluppo dell’Africa, come indicato nella strategia dell’Unione Africana sul clima.
La transizione energetica, con la sua enfasi sulle energie rinnovabili e sull’economia circolare, apre nuovi e promettenti orizzonti di collaborazione per i nostri continenti.
A questo riguardo, con l’istituzione di uno specifico Fondo per il Clima, l’Italia intende proporsi come soggetto di primo piano per interventi di finanza climatica.
Dai grandi progetti per l’utilizzo dell’energia solare ed eolica, all’agricoltura 4.0, fino alla produzione di idrogeno verde, le potenzialità per il partenariato fra Africa e Europa sono numerose e tutte altamente promettenti.
La chiave di un successo, che per essere durevole non potrà che essere comune, sta nel rafforzare la consapevolezza della complementarietà fra Africa ed Europa, complementarietà che un frangente storico così complesso rende ancora più evidente.
Condividiamo la tensione verso un nuovo umanesimo, che ponga al centro, a livello nazionale e internazionale, l’uomo e la sua aspirazione a vivere con dignità in società più eque, inclusive e sostenibili.
Nel percorso di intensificazione dei rapporti, l’Italia e l’Unione Europea contano sulla interlocuzione con quei Paesi, come il Kenya, con cui costruire un partenariato fondato, oltre che sulla convergenza verso comuni interessi, su valori condivisi. Quali il rispetto per la dignità di ogni persona e di ogni comunità, la promozione dei valori democratici, l’attenzione per la crescita e lo sviluppo delle giovani generazioni, la cura dei beni comuni globali, a cominciare - appunto - da quello, preziosissimo, dell’ambiente.
Come affermò la stessa Wangari Maathai in occasione della cerimonia di consegna del Premio Nobel, “non può esserci pace senza sviluppo; e non vi può essere sviluppo senza una gestione sostenibile dell’ambiente in uno spazio pacifico e democratico”.
In queste sue parole ci riconosciamo pienamente.
Grazie.
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Clean Cities 2023: città italiane ancora lontane dagli obiettivi 2030

Claean Citties 2023

«Le città italiane sono ancora lontane dagli obiettivi di mobilità, riduzione delle emissioni e sicurezza fissati al 2030». E’ la sintesi del bilancio finale di Clean Cities, la campagna itinerante di Legambiente che ha messo in luce il ruolo che i capoluoghi italiani possono svolgere per guidare il paese verso una mobilità a zero emissioni.
Per misurare la distanza tra le attuali politiche di mobilità e quelle necessarie per raggiungere gli obiettivi prefissati al 2030, il tour della Clean Cities Campaign, ha toccato Avellino, Bari, Bergamo, Bologna, Catania, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Padova, Palermo, Perugia, Prato, Frosinone, Roma, Torino, Trieste – alle quali si aggiunge la tappa spin off di Taranto -  e ne è venuto fuori che «Tutte le città monitorate superano i futuri limiti di legge per la qualità dell'aria e presentato ritardi rispetto agli indici di sicurezza e all’implementazione di servizi e infrastrutture di mobilità sostenibile».  Ma Legambiente evidenzia che ci sono notevoli differenze territoriali: «Per esempio, Catania, Perugia, Avellino e Roma hanno i tassi di motorizzazione più elevati, mentre solo Milano e Genova si avvicinano al limite Ue di 35 auto ogni 100 abitanti».
Troppe città hanno registrato un numero elevato di feriti e morti in incidenti stradali, superiori alla media nazionale e sono lontane dagli obiettivi di dimezzamento delle vittime della strada al 2030 stabilito dal Piano Nazionale Sicurezza Stradale. Inoltre, spesso presentano una scarsa offerta di trasporto pubblico e mancano di alternative adeguate come i mezzi in sharing. Tendenza ravvisabile, soprattutto ad Avellino, Palermo, Prato, Perugia, Pescara, Catania e Napoli. Per quanto riguarda l'estensione della rete stradale a velocità ridotta (30 km/h), in generale si è molto lontani dagli obiettivi indicativi che Legambiente propone al 2030, pari all'80% delle strade urbane.
Il presidente nazionale di Legambiente Stefano Ciafani ha commentato: «Le città italiane devono compiere un importante cambiamento per diventare più vivibili e meno inquinate, ponendo al centro della loro strategia la mobilità pubblica, condivisa, elettrica, attiva e intermodale. Mentre il governo sembra muoversi in direzione opposta, decisamente anacronistica rispetto agli obiettivi comunitari di riduzione delle emissioni - tra cui il phase-out delle auto alimentate da combustibili fossili - le città hanno la responsabilità e il potere di fare la differenza. Possono diventare veri motori di cambiamento, rispondendo finalmente alle esigenze di tutti i cittadini e posizionando il nostro Paese tra i più avanzati dell'Unione Europea. In particolare, le 9 città pioniere - Bergamo, Bologna, Firenze, Milano, Padova, Parma, Prato, Roma e Torino - incluse nella Missione per la Neutralità Climatica devono definire un percorso chiaro per raggiungere l'obiettivo del net-zero entro 7 anni».
E’ stato anche presentato il sondaggio Ipsos-Legambiente "Tipi mobili nelle città italiane", promosso in collaborazione con Unrae,  che ha analizzato le abitudini di mobilità su scala nazionale con un focus su Roma, Napoli, Firenze, Milano e Torino e dal quale  emerge che «I comportamenti degli italiani riguardo alla mobilità sono molto variegati e segmentati, e ognuno di essi richiede una risposta diversa.  In particolare, una fetta consistente del campione nazionale, il 23%, è rappresentato dagli “aperti al pubblico”, ovvero da coloro che userebbero di più i mezzi pubblici e condivisi a fronte di un potenziamento dei servizi e una diminuzione dei costi. A Milano sono il 25%, a Napoli il 24%, a Torino il 23%, a Firenze 18%, a Roma il 16%.  Il 19% del campione nazionale è, invece, rappresentato dagli "obbligati ma insoddisfatti", che preferiscono camminare o andare in bicicletta perché conviene. Sono disposti a rinunciare del tutto all'auto di proprietà, a fronte di una maggiore sicurezza stradale e un potenziamento dei servizi sharing.  Questo gruppo è cresciuto dopo il lockdown e vive soprattutto nelle grandi città, come Roma (27%) e Torino (25%), seguita da Napoli (22%) e Milano (22%) e Firenze (19%). Tra coloro che si muovono tanto (oltre un’ora al giorno in viaggio) nelle periferie e nei piccoli centri prevalgono gli “Irriducibili individualisti - mai fermi ma incollati al volante” (14% del campione), che, a Milano si dimezzano in favore degli “attenti per scelta - multimobili e multimodali”, ovvero chi usa in modo prevalente bici, metropolitana e i servizi di sharing (il 13% dei milanesi)».
Secondo Andrea Poggio, responsabile mobilità di Legambiente, «I dati emersi dalla campagna e dal sondaggio sono chiari: i cittadini sono disposti a cambiare il loro modo di muoversi, ma il trasporto pubblico in Italia è molto al di sotto della media europea, con soltanto un quarto delle metropolitane, treni veloci, linee tranviarie e autobus elettrici rispetto agli altri paesi. Per rendere le città veramente sostenibili e inclusive, occorre adottare politiche che rendano i quartieri e le città più accessibili in bici e con mezzi elettrici condivisi (con zone a basse emissioni e a pedaggio per le auto private) adottando le nudge policies (o spinte gentili) attraverso incentivi economici, abbonamenti e miglioramenti dei servizi. Queste misure devono andare di pari passo, poiché l'esperienza di tutte le città del mondo dimostra che senza l'una, l'altra non può funzionare».
Per trasformare le città italiane in vere “clean cities”, il Cigno Verde sottolinea che «Bisogna dunque disegnare percorsi prioritari ciclo-pedonali, incrementare i mezzi pubblici, creare zone scolastiche, aumentare i servizi e le infrastrutture di mobilità elettrica e condivisa, progettare zone cittadine a "zero emissioni", anche per la distribuzione delle merci».
E’ stato presentatto anche il progetto MOB realizzato della Fondazione Unipolis in partnership con Legambiente, che ha l’obiettivo dell’engagement dei giovani tra i 16 e i 21 anni. Durante il tour sono state raggiunte ben 50 classi delle scuole secondarie di secondo grado e ingaggiate altrettante squadre, che si sfideranno assieme ad altri 100 team - in rappresentanza di classi, oratori, associazioni sportive e culturali - in un grande torneo nazionale con l’app MUV Game. Dal 20 marzo al 28 maggio si affronteranno e saranno premiate muovendosi a piedi, in bicicletta, in autobus, in car pooling o con mezzi elettrici e saranno poi impegnate nella definizione di interventi per rendere la mobilità della propria città più sostenibile ed efficiente.
La campagna è stata anche l'occasione per i volontari di Legambiente di accendere i riflettori sull'impatto che l'inquinamento atmosferico ha sugli ecosistemi e sulla biodiversità, oltre che sulla salute umana. Flash mob in diverse città italiane grazie al progetto LIFE MODErn (NEC), guidato dall’Arma dei Carabinieri del CUFAA e supportato, tra gli altri, da Legambiente, che ha l'obiettivo di migliorare il sistema di valutazione degli impatti dell'inquinamento atmosferico sugli ecosistemi forestali e di acqua dolce. Gli attivisti sono scesi in strada muniti di una maschera antigas collegata ad una piccola teca contenente una piantina con il messaggio "Respiriamo grazie a loro. Non soffochiamole".
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Qual è lo stato dei boschi in Toscana?

lo stato dei boschi in Toscana

Un convegno regionale per fare il punto sullo stato dei boschi nella nostra regione organizzato da Legambiente Toscana, per fare il punto sulla copertura boschiva, parlare di manutenzione, legislazione nazionale e gestione sostenibile. Si tratta di Boschi in Toscana: il pomeriggio di dibattito che avrà luogo alla Casa del Popolo dell’Impruneta, sabato 18 marzo dalle ore 15 alle ore 19.
Tanti gli ospiti in programma per affrontare il dibattito sulla copertura forestale in Toscana, una delle regioni con la maggior copertura forestale nazionale. Il convegno si aprirà alle ore 15 con l’introduzione del presidente regionale di Legambiente Toscana, Fausto Ferruzza e Simone Secchi, presidente Legambiente Chianti Fiorentino. Crisi climatica, dati sulla copertura forestale e aspetti legislativi saranno al centro della prima sessione del convegno che vedrà gli interventi di Bernardo Gozzini, amministratore unico del Lamma, Raffaello Giannini referente foreste dell’Accademia dei Georgofili. Si racconteranno i boschi messi alla prova dall’aumento delle temperature, dall’abbandono delle montagne, da incendi e dissesto idrogeologico. Poi, si approfondirà il contesto legislativo regionale con Nicoletta Ferrucci, docente ordinaria di Diritto Forestale e Ambientale di Unifi.
Il convegno continuerà con una seconda sessione sulla gestione dei boschi e dei servizi ecosistemici, approfondendo il dibattito su criticità, diverse posizioni e proposte. A partire dall’intervento di Paolo Mori, amministratore unico della Compagnia delle Foreste su manutenzione boschiva e relative problematiche e Giuseppe Vignali, direttore Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano. In seguito, si passerà al tema della certificazione d’impresa, con Antonio Brunori segretario generale della PEFC Italia e le aziende che lavorano nell’ambito di tagli boschivi, con Sandro Orlandini, Vice Presidente regionale CIA/agricoltori italiani e poi continuare con il punto sulle inchieste su illeciti forestali, condotte dal gruppo CC Forestale di Firenze con il Comandante Luigi Bartolozzi. Un programma che si concluderà con un dibattito sui diversi punti di vista relativi alla gestione sostenibile dei boschi.
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L’estinzione silenziosa degli anfibi africani

Lestinzione silenziosa degli anfibi africani

Lo studio “Continent-wide recent emergence of a global pathogen in African amphibians”, pubblicato su Frontiers in Conservation Science da un team di ricercatori statunitensi descrive dettagliatamente l'emergere e la diffusione relativamente recenti del fungo killer Batrachochytrium dendrobatidis (o Bd) tra gli anfibi in Africa.  Uno degli autori, il biologo Eliseo Parra della San Francisco State University, spiega che «Quando la pelle [degli anfibi] inizia a cambiare spessore, fondamentalmente crea una condizione in cui non possono mantenere i loro processi interni e muoiono. Se un fungo infetta  un mammifero, potrebbe colpire le sue unghie o qualcosa che non noteremmoi nemmeno, ma gli anfibi (rane, salamandre) usano la loro pelle per respirare. È una parte molto critica del loro corpo».
L’autore senior dello studio, Vance Vredenburg (California Academy of Science, Museum of Vertebrate Zoology dell’università della California Berkeley e San Francisco State University), ricorda che «Il fungo è letale per molte popolazioni di anfibi ma non per altre» de il suo laboratorio voleva capire dove si trova il fungo, come ci è arrivato e perché è mortale per alcuni anfibi, in particolare in Africa dove è stato poco studiato.
Nel 2016, la classe di Vredenburg, desiderosa di essere coinvolta nella ricerca sulla conservazione, ha letto articoli su Bd e valutato i dati pubblicati in precedenza. Parallelamente, il laboratorio di Vredenburg, in collaborazione con la California Academy of Sciences, ha valutato lo stato di infezione di esemplari di anfibi provenienti dall'Africa. Questi due approcci hanno fornito al progetto quasi 17.000 dati da analizzare provenienti da 165 anni di osservazioni su come questo fungokiller  interagisce con gli anfibi in tutto il continente africano.
Il team ha constatato «Ua bassa prevalenza di Bd e una diffusione limitata della malattia in Africa fino al 2000, quando la prevalenza è aumentata dal 3,2% al 18,7% e Bd è diventato più diffuso»
Vredenburg fa notare che «Non solo il fungo infetta gli anfibi, ma sta causando conseguenze negative (spesso mortali) rispetto alla dormienza».
I ricercatori hanno anche scoperto due lignaggi del fungo in Africa: uno era un lignaggio globale - considerato la versione più pericolosa del fungo - mentre il secondo era precedentemente ritenuto più benigno, ma il team della San Francisco State University ha trovato prove che potrebbe anche essere distruttivo. In Camerun, il lignaggio Bd-CAPE del fungo si sta diffondendo e sembra essere più virulento di quanto si pensasse in precedenza.
Utilizzando questi dati, il team di ricerca statunitense ha creato un modello secondo il quale l'Africa orientale, centrale e occidentale è l’area più vulnerabile al Bd.
Vredenburg spiega ancora: «Stiamo cercando di estendere le nostre scoperte e fare previsioni su cosa potrebbe accadere in futuro. E’ il modo migliore per rendere il nostro studio degno del lavoro fatto. Ci sono quasi 1.200 specie di anfibi in Africa. Volevamo dire dove sono i luoghi più a rischio di focolai. Quelli saranno probabilmente i luoghi in cui avremo il maggior numero di hosts in un unico posto.
Un altro autore dello studio, il biologo Hasan Sulaeman  della SFState,  sottolinea che «E’ molto importante notare che Bd, in un modo o nell'altro, non si è diffuso in tutto il mondo senza l'aiuto degli esseri umani. Non è il primo agente patogeno che colpisce centinaia di specie in tutto il mondo e non sarà l'ultimo».
Il team di ricercatori sottolinea che «Questo progetto non si adatta agli schemi tradizionali per i documenti di ricerca o per le revisioni della letteratura scientifica». E Vredenburg ab ggiunge: «Anche il fatto che un articolo scientifico sia il risultato di una ricerca svolta in una classe è raro» e attribuisce questa impresa scientifica al talento e alla motivazione dei sui studenti.
Sia Parra che Sulaeman hanno partecipato al progetto come studenti nella classe di un seminario e come ricercatori nel laboratorio di Vredenburg. Sono tra gli studenti che hanno continuato a essere coinvolti per una parte dei 5 anni successivi nel progetto semestrale iniziale. Attraverso questa esperienza, hanno acquisito preziose informazioni sul processo di pubblicazione scientifica - qualcosa che non è banale o rapido – già all'inizio della loro carriera.
Vredenburg e i suoi colleghi hanno scoperto che in Guinea Equatoriale c’è stata una significativa diminuzione della prevalenza del fungo Killer, ma non ne conoscono il motivo.
In alcuni casi la sua diffusione è riconducibile ai viaggi aerei o marittimi, che hanno incrementato i collegamenti tra Paesi diversi e con le isole. Vredenburg ricorda che «Nei Caraibi, le rane che si sono intrufolate con le spedizioni di banane sembrano aver trasportato il fungo da un'isola all'altra. Man mano che aumentiamo la connettività, interromperemo milioni di anni di evoluzione tra agenti patogeni e ospiti».
Per Vredenburg, la diffusione del fungo Bd  gli ricorda che inizialmente non si era reso conto di quanto fosse una minaccia per le rane che aveva studiato nella Sierra Nevada: «Queste popolazioni di rane sono così robuste: sono qui da milioni di anni sulla montagna - ricorda di aver pensato in quel momento – Ero convinto che fossero abbastanza al sicuro, il fungo è penetrato e le ha spazzate via. Ho visto decine di migliaia di rane morte».
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Il cambiamento climatico altera la relazione uomo – rapaci

relazione uomo rapaci

In alcune aree dello Stato di Washington, negli Usa nord-occidentali, tra aquile di mare testabianca (Haliaeetus leucocephalus)  e produttori di latte esiste da tempo una relazione reciprocamente vantaggiosa in alcune parti dello. Secondo il nuovo studio “A win–win between farmers and an apex-predator: investigating the relationship between bald eagles and dairy farms”, pubblicato su Ecosphere da Ethan Duvall (Cornell University), Emily Schwabe (università di Washington – Seattle) e Karen Steensma (Trinity Western University), «Questa relazione "win-win" è stata uno sviluppo molto recente, guidato dall'impatto del cambiamento climatico sulla tradizionale dieta invernale delle carcasse di salmone delle aquile, nonché dall'aumento dell'abbondanza di aquile dopo decenni di sforzi di conservazione».
Duvall  ricorda che «Tradizionalmente. la narrativa sui rapaci e gli agricoltori è stata negativa e conflittuale, a causa principalmente delle affermazioni sulla predazione del bestiame. Tuttavia, i produttori di latte nel nord-ovest di Washington non considerano le aquile delle minacce. In realtà, molti agricoltori apprezzano i servizi che le aquile forniscono, come la rimozione delle carcasse e la deterrenza per i parassiti».
Per comprendere meglio questa relazione unica, il team di ricerca statunitense e canadese ha intervistato agricoltori di aziende lattiero-casearie di piccole, medie e grandi dimensioni nella contea di Whatcom. Lo studio è stato motivato dalla ricerca più recente di Duvall che mostra che, negli ultimi 50 anni, le aquile si stavano ridistribuendo dai fiumi ai terreni agricoli in risposta alla diminuzione della disponibilità di carcasse di salmone. Duvall spiega che «Il cambiamento climatico ha alterato il programma di deposizione delle uova dei salmoni, facendoli arrivare prima in inverno. Ora i salmoni si riproducono quando l'inondazione annuale del fiume Nooksack è al suo apice. I pesci che depongono le uova e muoiono vengono spazzati via dall'acqua alta, invece di essere depositati sulla riva dove le aquile possono facilmente accedervi. Lo spostamento dei tempi di riproduzione ha ridotto il numero di carcasse disponibili sul fiume, non il numero di singoli salmoni. Tuttavia, molti fiumi nel nord-ovest del Pacifico hanno subito un drastico calo della popolazione di salmoni, eliminando anche le risorse invernali per le aquile».
Per compensare la riduzione del loro approvvigionamento alimentare naturale, le aquile di mare testabianca si sono rivolte al flusso costante di sottoprodotti dell'allevamento caseario derivanti dalla nascita e dalla morte delle mucche e predano alcune popolazioni di uccelli acquatici che si nutrono e riposano nelle aree agricole dello Stato di Washington. Le aquile calve tengono anche sotto controllo i tradizionali parassiti delle fattorie, come roditori e storni.
Duvall conclude: «Sappiamo che questa interazione positiva tra agricoltori e aquile di mare testabianca non è la norma in molte altre aree agricole, specialmente vicino alle fattorie di pollame ruspanti dove le aquile catturano i polli. Ma questo studio mi dà la speranza che, andando avanti, agricoltori, gestori della fauna selvatica e ambientalisti possano riunirsi per pensare in modo critico a come massimizzare i benefici per le persone e la fauna selvatica negli spazi che condividono».
L'articolo Il cambiamento climatico altera la relazione uomo – rapaci sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.

Passare all’idrogeno potrebbe prolungare il problema del metano

Passare allidrogeno

Secondo lo studio “Risk of the hydrogen economy for atmospheric methane”, pubblicato su  Nature Communications  da Matteo Bertagni,  Stephen Pacala e Amilcare Porporato  della Princeton University e da  Fabien Paulot  della National Oceanic and Atmospheric Administration Usa, «Il potenziale dell'idrogeno come combustibile pulito potrebbe essere limitato da una reazione chimica nella bassa atmosfera». Questo perché il gas idrogeno reagisce facilmente nell'atmosfera con la stessa molecola che è la principale responsabile della scomposizione del metano, un potente gas serra. I ricercatori evidenziano che «Se le emissioni di idrogeno superano una certa soglia, quella reazione condivisa porterà probabilmente all'accumulo di metano nell'atmosfera, con conseguenze climatiche decennali».
Bertagni, ricercatore post-dottorato all’High Meadows Environmental Institute che lavora alla Carbon Mitigation Initiative, sottolinea che «L'idrogeno è teoricamente il carburante del futuro. In pratica, tuttavia, pone molte preoccupazioni ambientali e tecnologiche che devono ancora essere affrontate».
Nello studio, i ricercatori hanno modellato l'effetto delle emissioni di idrogeno sul metano atmosferico e hanno scoperto che «Al di sopra di una certa soglia, anche quando si sostituisce l'uso di combustibili fossili, un'economia dell'idrogeno con perdite potrebbe causare danni ambientali a breve termine aumentando la quantità di metano nell'atmosfera. Il rischio di danni è aggravato per i metodi di produzione di idrogeno che utilizzano il metano come input, evidenziando la necessità critica di gestire e ridurre al minimo le emissioni derivanti dalla produzione di idrogeno».
Porporato, che insegna Civil and Environmental Engineering  a Princeton e all’'High Meadows Environmental Institute, ricercatore principale della Carbon Mitigation Initiative ed è anche docente al'Andlinger Center for Energy and the Environment, aggiunge: «Abbiamo molto da imparare sulle conseguenze dell'uso dell'idrogeno, quindi anche se il passaggio all'idrogeno, un combustibile apparentemente pulito, non crea nuove sfide ambientali».
In una recensione dello studio, Colton Poore, dell’Andlinger Center for Energy and the Environment di Princeton, spiega che «Il problema si riduce a una piccola molecola difficile da misurare nota come radicale ossidrile (OH). Spesso soprannominato "il detergente della troposfera", l'OH svolge un ruolo fondamentale nell'eliminazione dei gas serra come il metano e l'ozono dall'atmosfera. Il radicale idrossile reagisce anche con l'idrogeno gassoso nell'atmosfera. E poiché ogni giorno viene generata una quantità limitata di OH, qualsiasi picco nelle emissioni di idrogeno significa che verrebbe utilizzato più OH per abbattere l'idrogeno, lasciando meno OH disponibile per abbattere il metano. Di conseguenza, il metano rimarrebbe più a lungo nell'atmosfera, estendendo i suoi effetti sul riscaldamento».
Bertagni fa notare che «Gli effetti di un picco di idrogeno che potrebbe verificarsi con l'espansione degli incentivi governativi per la produzione di idrogeno potrebbero avere conseguenze climatiche decennali per il pianeta. Se si emette  un po' di idrogeno nell'atmosfera ora, porterà a un progressivo accumulo di metano negli anni successivi. Anche se l'idrogeno ha solo una durata di vita di circa due anni nell'atmosfera, tra 30 anni da quell'idrogeno avremo ancora il feedback del metano».
Nello studio, i ricercatori hanno identificato il punto critico in cui le emissioni di idrogeno porterebbero a un aumento del metano atmosferico e quindi minerebbero alcuni dei benefici a breve termine dell'idrogeno come combustibile pulito. Identificando tale soglia, i ricercatori hanno stabilito obiettivi per la gestione delle emissioni di idrogeno: «E’ essenziale che siamo proattivi nello stabilire soglie per le emissioni di idrogeno, in modo che possano essere utilizzate per informare la progettazione e l'implementazione della futura infrastruttura per l'idrogeno», ha sottolineato Porporato.
Per l'idrogeno verde, che viene prodotto scindendo l'acqua in idrogeno e ossigeno utilizzando elettricità da fonti rinnovabili, Bertagni dice che «La soglia critica per le emissioni di idrogeno si aggira intorno al 9%. Questo significa che se più del 9% dell'idrogeno verde prodotto si disperdesse nell'atmosfera, sia nel punto di produzione, durante il trasporto o in qualsiasi altro punto lungo la catena del valore, nei prossimi decenni il metano atmosferico aumenterebbe, annullando alcuni dei benefici climatici dell'abbandono dei combustibili fossili».
E per l'idrogeno blu, prodotto tramite il reforming del metano con successiva cattura e stoccaggio del carbonio, la soglia per le emissioni è ancora più bassa: «Poiché il metano stesso è l'input principale per il processo di riformazione del metano, i produttori di idrogeno blu devono prendere in considerazione la perdita diretta di metano oltre alla perdita di idrogeno», avverto i ricercatori che hanno scoperto anche che «Con un tasso di perdita di metano pari allo 0,5%, le perdite di idrogeno dovrebbero essere mantenute al di sotto del 4,5% circa per evitare l'aumento delle concentrazioni atmosferiche di metano».
Per Bertagni, «La gestione dei tassi di perdita di idrogeno e metano sarà fondamentale. Se si ha  solo una piccola quantità di perdite di metano e un po' di perdite di idrogeno, allora l'idrogeno blu che si produce potrebbe non essere molto migliore rispetto all'utilizzo di combustibili fossili, almeno per i prossimi 20 o 30 anni».
I ricercatori hanno sottolineato l'importanza della scala temporale sulla quale  viene considerato l'effetto dell'idrogeno sul metano atmosferico. Bertagni conclude: «A lungo termine (nel corso di un secolo, ad esempio), il passaggio a un'economia dell'idrogeno produrrebbe ancora probabilmente benefici netti per il clima, anche se i livelli di perdite di metano e idrogeno fossero sufficientemente elevati da provocare un riscaldamento a breve termine. Alla fine, ha affermato, le concentrazioni atmosferiche di gas raggiungeranno un nuovo equilibrio e il passaggio a un'economia dell'idrogeno dimostrerà i suoi benefici per il clima. Ma prima che ciò accada, le potenziali conseguenze a breve termine delle emissioni di idrogeno potrebbero portare a danni ambientali e socioeconomici irreparabili. Pertanto, se le istituzioni sperano di raggiungere gli obiettivi climatici di metà secolo, le perdite di idrogeno e metano nell'atmosfera devono essere tenute sotto controllo mentre le infrastrutture per l'idrogeno iniziano a svilupparsi. E poiché l'idrogeno è una piccola molecola notoriamente difficile da controllare e misurare, la gestione delle emissioni richiederà probabilmente ai ricercatori di sviluppare metodi migliori per monitorare le perdite di idrogeno lungo la catena del valore. Se aziende e governi sono seriamente intenzionati a investire denaro per sviluppare l'idrogeno come risorsa, devono assicurarsi di farlo in modo corretto ed efficiente. In definitiva, l'economia dell'idrogeno deve essere costruita in modo da non contrastare gli sforzi di altri settori per mitigare le emissioni di carbonio».
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Le api sentinelle del Molise

api sentinelle del Molise

La scorsa settimana, al dipartimento di agricoltura, ambiente e alimenti dell’università degli studi del Molise sono stati presentati i risultati del monitoraggio ambientale condotto nell’ambito del progetto “Biomonitoraggio del territorio con “api sentille”.
Ma in che modo è stata monitorata la qualità ambientale del territorio?
Nell’ambito del progetto, finanziato dall’azione 19.2.16 del PSL del Gal Molise verso il 2000, sono stati presi in considerazione i diversi metodi e le diverse tecniche di biomonitoraggio del territorio, in questo caso il territorio di riferimento è quello del Gal Molise verso il 2000 (ma in precedenti studi anche in altre aree della regione), e da un'analisi delle diverse possibilità alla fine è stata adottata come agente di biomonitoraggio l’ape da miele. Le motivazioni risiedono principalmente nella completezza di informazioni che questo insetto è in grado di fornire. Nei limiti del tempo e delle risorse a disposizione, sono state scelte 5 diverse località nell'ambito del Gal Molise verso il 2000. Pertanto, a partire dai punti ritenuti strategici per il biomonitoraggio si è cercato di confrontare le aree potenzialmente esenti da una grossa pressione antropica, con aree, invece, in cui ci aspettiamo un maggior carico di inquinanti. Quindi la filosofia di fondo è stata quella di distribuire queste stazioni di biomonitoraggio con api da miele sul territorio con lo scopo di comparare i diversi ambienti analizzati.
Perché sono state scelte le api da miele per il monitoraggio?
L’ape da miele è risultato il bioindicatore, in senso lato, più adatto per due ragioni principali:
1 Per la sua vasta diffusione su tutto il territorio e questo permette di avvalersi anche della collaborazione delle associazioni apistiche, che hanno una presenza capillare sul territorio stesso, per cui in ogni ambiente è possibile monitorare uno o più allevamenti di api.
2 L'ape è in grado di esplorare tutti i comparti ambientali: aria, con la sua attività di volo; suolo, perché si poggia continuamente a terra, asportando anche eventuali particelle inquinanti e portandoli sul corpo; acqua, perché l’ape è un animale che fa un elevato uso di acqua e la vegetazione quindi praticamente è in grado di monitorare tutto il territorio con milioni di micro prelievi giornalieri per ogni alveare.
Cosa rende le api bioaccumulatori e biocollettori?
Un ulteriore vantaggio delle api è che sono contemporaneamente bioindicatori, bioindicatori veri, bioaccumulatori e biocollettori: ovvero le quattro categorie di bioindicatori universalmente riconosciute. Nello specifico bioaccumulatore è un organismo che accumula gli inquinanti nei tessuti corporei, per cui analizzando gli inquinanti presenti all'interno del corpo delle api la utilizziamo proprio come bioaccumulatore. Biocollettore invece significa che l'organismo accumula gli inquinanti nei propri prodotti di secrezione o di escrezione. Nel caso delle api è possibile ritrovare questi agenti inquinanti nella cera e nella pappa reale (che sono entrambi prodotti di secrezione), nel miele che è un prodotto misto, poiché proviene dall'elaborazione del nettare, che le api prendono dalle piante, attraverso la secrezione della loro saliva (si potrebbe paragonare, in ambito umano, al latte materno che può essere usato come biocollettore).
Quali inquinanti sono stati cercati? Ci sono delle aree con una maggiore concentrazione?
Gli inquinanti ricercati in questo progetto sono stati i due che normalmente si attenzionano in prima battuta in una campagna di biomonitoraggio, vale a dire i metalli pesanti (attualmente meglio definiti come elementi in traccia potenzialmente tossici) e gli agrofarmaci. La scelta degli inquinanti è legata alle particolari caratteristiche del territorio oggetto di esame. Queste due categorie di inquinanti sono state ricercate sia con un monitoraggio della mortalità delle api, per quanto riguarda prodotti fitosanitari, ed eventuale analisi chimica successiva e l'uso di matrici apistiche (ad esempio miele, cera oppure il corpo delle api stesse) per la ricerca dei metalli pesanti. Da un punto di vista della mortalità acuta fortunatamente non è stata rilevata mortalità da prodotti fitosanitari; d’altra parte, in tutte le matrici analizzate sono state elevate, anche se al di sotto dei limiti di legge, tutti i metalli pesanti ricercati.
Sono stati rilevati inquinanti nel miele? Se sì, bisogna preoccuparsi?
Nelle aree monitorate, in traccia, sono stati rilevati effettivamente tutti gli inquinanti ricercati. Questo non deve assolutamente destare preoccupazioni, perché il tipo di inquinanti ricercati, nella fattispecie alcuni metalli pesanti, sono ubiquitari. Quello che fa la differenza è la concentrazione all'interno della matrice analizzata, ovvero il miele, difatti nelle diverse stazioni sono state riscontrate concentrazioni diverse e sempre al di sotto dei limiti ammessi dalla legge, ma variabili in funzione soprattutto dell'antropizzazione del sito. In conclusione, nelle zone con una maggiore attività umana e con insediamenti produttivi le concentrazioni sono leggermente più alte anche se nei limiti ammessi.
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