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Il Rinascimento di Bosch incanta Milano

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Onirico, visionario, immaginifico, Jheronimus Bosch è conosciuto in ogni angolo del globo e la sua fama travalica ampiamente i confini del mondo dell’arte. Eppure le opere che gli sono unanimemente attribuite sono molto poche, e riunirle in un unico luogo è stata finora un’impresa pressoché impossibile. Ci sono riusciti gli organizzatori della grande mostra presentata oggi a Palazzo Reale, a cura di Bernard Aikema, già professore di Storia dell’Arte Moderna presso l’Università di Verona, Fernando Checa Cremades, docente di Storia dell’Arte all’Università Complutense di Madrid ed ex direttore del Museo del Prado, e Claudio Salsi, direttore Castello Sforzesco, Musei Archeologici e Musei Storici, nonché docente di storia dell’incisione presso l’Università Cattolica di Milano. Per trasformare il progetto in realtà sono stati necessari cinque anni e un imponente lavoro di ricerca e cooperazione culturale internazionale, frutto degli sforzi congiunti di Comune di Milano-Cultura, Palazzo Reale e Castello Sforzesco con 24 Ore Cultura. Il risultato è “una mostra unica per la potenza del racconto di un’intera epoca artistica e per l’importanza e la varietà dei confronti” presentati, spiegano gli organizzatori. Jheronimus Bosch, Trittico delle Tentazioni di Sant’Antonio, 1500 circa. Olio su tavola. Lisbona, Museu Nacional de Arte Antiga © DGPC/Luísa OliveiraDal 9 novembre al 12 marzo 2023, circa 100 opere tracceranno il ritratto di un artista singolare e misterioso, sul quale gli esperti non hanno mai smesso di dibattere, e delle passioni che è riuscito ad accendere dal Cinquecento ad oggi, influenzando grandi maestri, attraendo prestigiosi collezionisti e dando vita a un gusto diffuso che autorizza a parlare di un vero e proprio “fenomeno Bosch”. L’affascinante tesi dei curatori è che il pittore fiammingo, così diverso dagli altri grandi artisti dell’Europa del suo tempo, sia l’emblema di un Rinascimento “alternativo”, lontano anni luce dagli ideali umanisti e classicisti del XV secolo, e dunque la prova dell’esistenza di una pluralità di Rinascimenti, ciascuno con proprie caratteristiche e un proprio centro di gravità. Altra ipotesi fondante è l’idea che il “fenomeno Bosch” non nasca nelle Fiandre, patria dell’artista, ma nel mondo mediterraneo, e precisamente tra la Spagna e l’Italia del Cinquecento. Bottega di Jheronimus Bosch, La visione di Tundalo, 1490-1525 circa. Olio su tavola. Madrid, Museo Lázaro Galdiano © Museo Lázaro Galdiano, MadridProprio per questo la mostra milanese non è una tradizionale monografica, bensì un dialogo fluido tra  le opere di Bosch e quelle di maestri fiamminghi, italiani e spagnoli, che evidenziano come “l’altro Rinascimento” abbia in seguito influenzato artisti di estrazioni diverse, da Tiziano a Raffaello, da Gerolamo Savoldo a El Greco. Lungo il percorso troviamo dipinti, sculture e incisioni, ma anche arazzi, volumi antichi e oggetti rari provenienti dalle wunderkammer di facoltosi collezionisti. Tra i capolavori di Bosch spicca il monumentale Trittico delle Tentazioni di Sant’Antonio del Museu Nacional d’Arte Antiga di Lisbona, mai stato esposto in Italia,che nel corso del Novecento ha lasciato il Portogallo soltanto due volte, mentre proviene dal Groeningenmuseum di Bruges il Trittico del Giudizio Finale, anticamente nelle collezioni del cardinale veneziano Marino Grimani. Altri prestiti straordinari sono arrivati dal Museo del Prado, dal e dal Museo Làzaro Galdiano di Madrid e dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Jheronimus Bosch, Le Tentazioni di Sant’Antonio, 1500 circa. Olio su tavola. Lisbona, Museu Nacional de Arte Antiga © DGPC/Luísa OliveiraSenza precedenti è l’esposizione dell’intero ciclo degli arazzi tratti dalle opere di Bosch, che accosta per la prima volta i quattro pezzi del Monastero dell’Escorial e il cartone del quinto arazzo andato perduto, conservato nelle collezioni delle Gallerie degli Uffizi: oggetti d’arte preziosissimi, autentici status symbol nell’Europa cinquecentesca, che oggi testimoniano la fortuna dell’artista fiamminghi presso i vertici dell’aristocrazia dell’epoca. Copia da Jheronimus Bosch, Scena con elefante, XVI secolo. Olio su tela. Firenze, Gallerie degli Uffizi © Gabinetto Fotografico delle Gallerie degli UffiziLe incisioni, a partire da quelle di Pieter Bruegel il Vecchio, furono invece il medium principale grazie al quale l’immaginario fantastico e notturno di Bosch viaggiò lungo tutto il continente, e perfino oltre l’Atlantico. Nelle corti del XVI e XVII secolo, infine, il gusto bizzarro dell’artista fiammingo si accordò perfettamente con lo spirito delle wunderkammer: lo scopriremo nell’ultima sala di Bosch e un altro Rinascimento, allestita proprio come una camera delle meraviglie, dove oggetti rari e preziosi evocano le atmosfere del più celebre capolavoro di Bosch, il Trittico del Giardino delle Delizie. Manifattura di Bruxelles, Il giardino delle delizie, 1550-1570 circa. Arazzo. Madrid, Patrimonio Nacional, Palacio Real © Patrimonio Nacional, Madrid

L’altro Segantini. Anticipazioni da una grande mostra

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Sarà un Segantini insolito quello che vedremo dal 12 novembre ad Arco: ai piedi delle Dolomiti e a un passo dal Lago di Garda, la città natale del pittore si prepara ad accogliere la grande mostra che racconterà lo sviluppo della sua arte dalla “maniera scura” degli esordi alla luminosa pittura divisionista che lo ha reso celebre. Nelle sale della Galleria Segantini di Arco seguiremo passo dopo passo l’evoluzione di un maestro della pittura tardo ottocentesca cresciuto fuori dai percorsi accademici: lo vedremo uscire dallo studio milanese, abbandonarsi alla potenza della luce ed entrare in simbiosi sempre più intima con la natura che ancora oggi sembra respirare nei suoi quadri. Prestiti prestigiosi e capolavori di casa dialogheranno in uno spettacolo inedito, frutto di un importante lavoro di ricerca, mentre due display interattivi e un documentario permetteranno di saperne di più sull’artista.Ne parliamo con il curatore Niccolò D’Agati, che ci regala una preziosa anteprima del progetto.  “Verso la luce. Giovanni Segantini, dalla maniera scura alla pittura in chiaro affronta una fase nodale della pittura di Segantini”, racconta D’Agati: “Parliamo degli esordi dell’artista, un momento di grande sperimentazione poco noto al grande pubblico e finora poco indagato anche dagli studiosi. In tre sale il percorso della mostra porta in scena una vera e propria metamorfosi, che dagli accordi cromatici bassi degli inizi conduce fino all’alba del Divisionismo e al trionfo della luce naturale sulla tela”. “Per questa esposizione siamo riusciti a riunire opere molto importanti che arrivano dal Segantini Museum di St. Moritz, dalle collezioni di Intesa Sanpaolo, dai Musei Civici del Castello Visconteo di Pavia, dal Museo d’Arte dei Grigioni a Coira. Per dirne una, il capolavoro di A messa prima non tornava nella città di Arco dal lontano 1958”, prosegue il curatore. “La mostra, inoltre, inaugura il nuovo corso della Galleria Segantini di Arco, ora completamente autonoma dopo le collaborazioni con il MAG e il MART. I progetti per il futuro non mancano. Per la prossima primavera, per esempio, abbiamo in cantiere una mostra sul tema del paesaggio nella pittura divisionista”.Giovanni Segantini, La falconiera, 1870-1880 circa. Olio su tela. Musei Civici di Pavia Ci parli del Segantini pre-divisionista, quello che conosciamo meno…“È un artista che lavora prevalentemente in studio, non si è mai cimentato con la pittura en plein air. La tavolozza è piuttosto scura, lo stile quello tradizionale del tardo Romanticismo lombardo. Segantini si serve delle intonazioni basse per drammatizzare la luce e forzare l’espressione poetica del colore. In mostra questa fase sarà illustrata da dipinti di grande valore: ci saranno il Campanaro del MART, la Falconiera dei Musei Civici di Pavia e tre opere esposte insieme per la prima volta dal 1880, l’anno del debutto di Segantini a Brera”. La seconda tappa ci porta nelle campagne della Brianza…“Dopo Milano, Segantini si trasferisce in Brianza: la vita contadina, le scene pastorali, la rappresentazione degli animali e del paesaggio sono i temi caratteristici di questo periodo. Anche qui possiamo contare su prestiti importantissimi, come la Benedizione delle pecore di St. Moritz o la raccolta dei Bozzoli delle Gallerie d’Italia a Milano. Dalle collezioni del museo di Arco proviene invece la Testa di vacca, che Segantini dipinse verso la fine degli anni Ottanta insieme all’Ora mesta, un capolavoro che ci porta già in fase divisionista”.Giovanni Segantini, L'ora mesta, 1892, olio su tela, 45,5x83 cm. Collezione privata Come avviene la trasformazione? Perché Segantini cambia radicalmente il proprio modo di dipingere?“Fu il suo maestro Vittore Grubicy de Dragon a spingerlo verso il cambiamento, convinto che la pittura dal vero fosse la vera strada verso il moderno. All’epoca Grubicy faceva il mercante d’arte e viveva in Olanda. Nel 1883 scrive a Segantini una lunga lettera dall’Aja, in cui lo esorta a dipingere all’aperto e a studiare la luce naturale. Gli suggerisce di studiare i lavori di Anton Maris e Willem Mauve (entrambi presenti in mostra), che in Olanda stanno portando avanti ricerche simili a quelle francesi della scuola di Barbizon: Vittore ne è rimasto impressionato. In seguito andrà a trovare Segantini e gli farà ridipingere l’Ave Maria a trasbordo utilizzando in maniera empirica la tecnica divisionista. Grubicy ha una grande influenza sull’artista, la cui pittura appare subito rischiarata. L’opera più famosa di questa fase è Alla Stanga della Galleria Nazionale d’Arte Moderna”. La mostra si chiude con un celebre capolavoro…“L’ultima sala è un’immersione nel dipinto A messa prima, l’opera simbolo del nuovo corso di Segantini, della quale i visitatori potranno seguire la genesi passo dopo passo attraverso quattro tele. La prima versione risale al 1885 e arriva dal Segantini Museum di St. Moritz: rispetto alle tele precedenti, la luce appare molto più naturale, chiara, cristallina. Poi avremo due studi preparatori, uno proveniente dal museo di Coira e un altro di collezione privata. Infine l’ultima evoluzione del tema realizzata intorno all’87, quando Segantini sta già sperimentando la pittura divisa: rappresenta il momento culminante di questo studio dal vero sulla luce”.Giovanni Segantini, La raccolta dei bozzoli, 1882 – 1883. Olio su tela, 70 x 101 cm © Collezione Intesa Sanpaolo, Gallerie d’Italia - Piazza Scala, Milano Dietro l’esposizione di Arco c’è un notevole lavoro di ricerca. Quali scoperte vi ha regalato?“Il progetto della mostra nasce da un percorso di rilettura delle attività di Segantini, in particolare della prima fase della sua opera. Come emerge chiaramente dal catalogo in pubblicazione, studio, ricerca e analisi delle fonti sono stati il nostro primo obiettivo, accanto naturalmente al desiderio di offrire al pubblico una mostra accattivante, ricca di capolavori e prestiti importanti. I più interessanti elementi di novità riguardano proprio A messa prima”. Di che si tratta?“Indagini non invasive condotte sul capolavoro di St. Moritz hanno permesso di ricostruirne dettagliatamente la genesi, gli interventi di correzione, l’uso dei colori, in pratica di osservare materialmente come si è evoluta la pittura di Segantini in un momento cruciale della sua storia artistica. Sotto l’immagine visibile a occhio nudo, siamo riusciti a rintracciare un altro dipinto. La versione iniziale si intitolava Non assolta e raffigurava una donna nubile incinta che scendeva le scale di una chiesa. Tre anziane la osservavano con malignità perché non aveva ricevuto il perdono dal confessore. Segantini espose questo quadro nel 1885, poi all’improvviso decise di modificarne il soggetto. Ridipinse parte della tela e inserì la figura del prete, che sarebbe diventato un personaggio iconico ricorrente nelle sue opere”.Giovanni Segantini, Alla stanga, 1886. Olio su tela. Galleria Nazionale d'Arte Moderna, Roma

Da Parmigianino ai misteri della Daunia, la settimana in tv

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Con la sua esistenza inquieta, la pennellata sciolta, lo spirito d’avventura affine a quello dell’impetuoso Caravaggio, Parmigianino concepì figure monumentali imbevute da risvolti psicologici, al centro di una pittura folgorante. L’eccentrico pittore ossessionato dal disegno, artista trasversale che riuscì a conferire ai volti l’intensità degli sguardi femminili di Goya e la posa fotografica della pittura più tarda sarà il grande protagonista della settimana sul piccolo schermo. Da Goya e Degas ai misteri della Daunia, terra lontana dalle rotte più turistiche, battuta con passione dall’archeologo Andrea Angelucci, ecco qualche appuntamento da non perdere in tv nella settimana appena cominciata.Edgar Degas, Autoritratto con Evariste de Valernes, 1864, Parigi, Musée d’OrsaySu Sky Arte Parmigianino e Goya Descritto dagli amici come un uomo brillante in grado di suscitare allegria, ma anche terrore, in chi gli stava accanto, Edgar Degas era noto per l’ossessiva rielaborazione delle sue opere. Una mania che, in molte occasioni, lo spinse persino a chiedere ai committenti di riavere indietro i suoi quadri per poterli ulteriormente ritoccare anche dopo averli consegnati. Riscopriamo questo artista grazie al docufilm Degas-Passione e perfezione, in onda mercoledì 9 novembre alle 12.50 su Sky Arte, una galoppata artistica tra cavalli e fantini, ballerine, nudi di donne colte in attività quotidiane, e ancora opere in cera “dalla terribile realtà”. Su tutto la ricerca del movimento e l’intento ossessivo di cogliere l’istantaneità del presente. Giovedì 10 novembre alle 21.15 una prima visione ci guida invece nella seconda stagione di Sky dedicata ai Grandi maestri della pittura. Ci addentriamo così nell’affascinante universo di Parmigianino, una delle personalità più interessanti e dirompenti del Cinquecento italiano. Anticlassico per definizione, Girolamo Francesco Maria Mazzola, punto di riferimento per tutti quegli artisti che, nel Cinquecento, cercano nuovi codici e una maniera alternativa di dipingere, si racconta sul piccolo schermo attraverso Paolo Cova, docente di Storia dell’arte, e Marcella Culatti, storica dell’arte. Preparatevi a un viaggio tra gli affreschi della prima e seconda cappella di sinistra di San Giovanni Evangelista a Parma, tra quelli a Rocca Sanvitale (Fontanellato) e tra i diversi ritratti ed autoritratti dell’artista. Venerdì 11 novembre raggiungiamo idealmente le sale della National Gallery di Londra per riscoprire l’acclamata mostra Goya: the Portraits, guidati dal primo curatore Xavier Bray. Il film di David Bickerstaff, Goya - Visioni di carne e sangue svela la vita drammatica e l'arte straordinaria del maestro spagnolo restituendo al pubblico un ritratto avvincente del pittore attraverso opinioni di esperti internazionali, capolavori tratti da collezioni di fama mondiale e visite ai luoghi in cui l'artista visse e lavorò. Il film schiude inoltre le porte del Museo Nazionale del Prado a Madrid, scrigno di una serie di importanti opere come La famiglia di Carlo IV, fornendo un raro accesso al “Notebook italiano” di Goya, uno sketchbook realizzato in Italia tra il 1769-1771, che mette gli spettatori a tu per tu con le riflessioni più intime dell'artista spagnolo.Francisco Goya, Il Duca di Wellington, 1812-14, Olio su mogano, 64.3 x 52.4 cm, Londra, National Gallery Su Rai 5 tra i misteri della Daunia Il mercoledì di Rai 5 fa rima con Art Rider. Il 9 novembre alle 21.15 la terza puntata del format alla ricerca dei luoghi d’arte meno conosciuti d’Italia, condotta dal giovane e dinamico archeologo Andrea Angelucci, una produzione GA&A Productions, in collaborazione con Rai Cultura, ci accompagna da Manfredonia a Venosa. Andrea schiuderà agli spettatori le porte della Daunia, una zona che si estende dalla Puglia fino ad arrivare al confine con la Basilicata e la Campania, terra misteriosa, lontana dalle rotte più turistiche. Su Arte tv Albrecht Dürer e il mistero degli autoritratti Pittore dal talento precoce, Albrecht Dürer nasceva nel 1471 a Norimberga, "cuore" del Sacro Romano Impero. All'età di 13 anni, con l’aiuto di uno specchio convesso, eseguiva il primo autoritratto, a 15 lasciava il laboratorio orafo del padre per entrare nello studio del pittore Michael Wolgemut. Con in tasca la passione per l'incisione, tecnica sviluppata cinquant'anni prima e che favorirà la diffusione delle sue opere, l’artista fece lunghi soggiorni a Basilea e a Venezia, occasioni che gli permisero di studiare la prospettiva e i maestri del Quattrocento. Albrecht Dürer: il mistero degli autoritratti, in onda su Arte tv è un viaggio attraverso 12 autoritratti che ripercorrono la carriera del pittore tedesco celebrandone il genio.Albrecht Dürer Ritratto a mezzo busto di una giovane veneziana, 1505, olio su tavola, cm. 32,5x24,2. Prestatore: Vienna, Kunsthistorisches Museum

Lee Miller e Man Ray, un racconto d’amore e di fotografia

134171 12 ManRay Natahsa 1930 1980 FondazioneMarconi Milano

“Preferisco fare una foto che essere una foto”, ha detto una volta Lee Miller. Eppure ancora oggi molti la conoscono per essere stata la modella e amante di Man Ray. Mentre al cinema si prepara l’uscita del biopic Lee, con Kate Winslet nel ruolo della protagonista, a Venezia una grande mostra rende omaggio alla fotografa surrealista. Dal 5 novembre al 10 aprile, 140 fotografie, oggetti d’arte e rari documenti video ne illustreranno i numerosi talenti a Palazzo Franchetti, restituendo finalmente la realtà del legame con Man Ray, prima suo mentore, poi compagno e infine grande amico. Man Ray, Autoritratto, 1931 (1982). Collezione privata I Courtesy Fondazione Marconi, Milano © Man Ray 2015 Trust / ADAGP-SIAE 2022Si deve a Suzanna, defunta moglie di Anthony Penrose (il secondo marito di Lee), la riscoperta delle mille vite di quest’artista straordinaria. Galeotte furono alcune scatole dimenticate in soffitta con un mondo dentro: 60 mila fotografie, negativi, documenti, riviste, lettere e oggetti. Musa, fotografa, icona del Novecento, prima donna reporter di guerra a documentare gli orrori dei campi di concentramento liberati dalle truppe americane, Lee Miller ha attraversato la vita con incredibile passione e determinazione. Il percorso curato da Victoria Noel-Johnson ripercorre le tappe della sua avventura tra scatti segreti e immagini che hanno scritto la storia, con prestiti dai Lee Miller Archives e Fondazione Marconi. “La mostraci permette di rivivere l'intensità degli anni ruggenti, la Parigi crocevia di moda, letteratura e arte che si apriva al Surrealismo. E poi la Miller testimone dell’orrore della Seconda Guerra Mondiale… Estetica e storia, bellezza e tragedia”, sintetizza Vittorio Verdone, direttore Corporate Communication e Media Relation di Unipol, che ha sostenuto il progetto. George Hoyningen-Huene, Lee Miller and Agneta Fisher, Vogue, 1932 © George Hoyningen-Huene Estate ArchivesA Venezia scopriremo Lee nelle vesti di modella e icona di stile sulle pagine di Vogue, dove approdò negli anni Venti su invito del celebre editore Condé Nast. O a Parigi negli ambienti dell’avanguardia, tra ritratti di Pablo Picasso, Max Ernst, Jean Cocteau, e delle amiche fotografe Dora Maar e Meret Oppenheim. Ne ripercorreremo amori e matrimoni, dal businessman egiziano Aziz Eloui Bey al surrealista britannico Roland Penrose, e riconosceremo nell’arte il riflesso di questi incontri. Dalla fascinazione dell’Egitto, per esempio, nacque l’indimenticabile Portrait of Space, che con la sua tenda strappata sull’infinito ispirò il Bacio di Magritte. Lee Miller, Portrait of Space, Al Bulwayeb, near Siwa, Egypt, 1937 © Lee Miller Archives England 2022. All rights reserved. www.leemiller.co.ukCuore della mostra è il rapporto con Man Ray, raccontato attraverso intense fotografie scattate da entrambi. Come The Neck, che ritrae il collo lungo ed elegante di Lee: dopo una lite furibonda, l’amante lo avrebbe rappresentato tagliato da un rasoio e adorno di gocce di inchiostro rosso. Nel 1933, invece, un Man Ray accecato dal dolore della separazione sostituì l’occhio del suo celebre metronomo Perpetual Motif con quello di Lee Miller. Profonda, sensuale e travolgente per entrambi, la relazione tra i due riserva sorprese che vanno al di là della narrazione di un amore. Pochi sanno per esempio, che fu Lee a scoprire la tecnica fotografica della solarizzazione, passata alla storia come una rivoluzionaria innovazione di Man Ray. Man Ray, The Tears (Les deux yeux, le nez et les larmes), 1930 (1988). Collezione privata I Courtesy Fondazione Marconi, Milano © Man Ray 2015 Trust / ADAGP – SIAE – 2022Quando l’amore finisce, Miller torna a New York e apre uno studio fotografico di successo, l’unico in città fondato e gestito da una donna. Ma la vita la porterà presto altrove: in Egitto, a Londra e sui teatri del secondo conflitto mondiale. Come corrispondente di guerra e fotoreporter per Vogue, Lee documenterà i bombardamenti di Londra, la liberazione di Parigi, i campi di concentramento di Buchenwald e Dachau, e nel 1944 sarà accreditata come corrispondente dell'esercito americano. Il faccia a faccia con le brutalità del Novecento non la lascerà indifferente. Lee Miller soffrirà di depressione e disturbi post-traumatici, Man Ray le sarà vicino per sempre. Lee Miller, Fire Masks, 21 Downshire Hill, London, England, 1941 (3840-8) © Lee Miller Archives England 2022. All rights reserved. www.leemiller.co.ukA cura di Victoria Noel-Johnson, Lee Miller Man Ray. Fashion Love War sarà visitabile a Palazzo Franchetti dal 5 novembre 2022 al 10 aprile 2023. Il catalogo edito da Skira contiene testi di Anthony Penrose e di Ami Bouhassane, rispettivamente figlio e nipote dell’artista.  "Lee Miller Man Ray. Fashion, Love, War", Palazzo Franchetti, Venezia 

Orizzonti tremanti: Olafur Eliasson torna a Torino con sei nuove installazioni immersive

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Olafur Eliasson fa il bis. Mentre è ancora in corso la grande mostra di Palazzo Strozzi, l’artista scandinavo conquista Torino con una nuova serie di installazioni. Luci e colori trasformano la Manica Lunga del Castello di Rivoli in un paesaggio immersivo, che gioca con i sensi, lo spazio e il tempo sfidando le percezioni del pubblico. “In Orizzonti tremanti”, racconta la curatrice Marcella Beccaria, “Eliasson ci invita ad aprire il nostro sguardo oltre i confini del visibile, dalla vertigine dello spazio profondo all’emozione dell’incontro con noi stessi e i nostri paesaggi interiori. Coinvolgendo corpo e mente, le sue opere contribuiscono a rendere percepibile il ruolo di ciascuno nella produzione della realtà e nella costruzione di questo instabile presente”. Nello studio di Olafur Eliasson, testando le proiezioni di luce, 2019. Foto Maria Pilar Garcìa Ayensa / Studio Olafur EliassonNei Kaleidorama fasci di luce elettrica si riflettono in bacini d’acqua e sistemi di lenti, dando origine a mondi di linee, forme e motivi da percorrere e abitare. Temi o stati d’animo differenti caratterizzano le singole installazioni, dal Kaleidorama curioso e quello riflessivo, esitante, potente, fino al Kaleidorama vivente e alla Memoria del Kaleidorama. Oggetti ibridi e mutanti, i Kaleidorama sono il frutto delle ultime sperimentazioni condotte da Eliasson a Berlino e nascono da un incrocio tra i dispositivi ottici del caleidoscopio e del panorama. Queste opere “usano l’effetto specchio del caleidoscopio per evocare spazi panoramici o paesaggistici che sembrano più grandi del luogo fisico in cui vengono mostrati”, spiega l’artista: “Aprono nuovi orizzonti grazie alle loro superfici specchianti, spalancando spazi in cui si incontrano onde, linee dell’orizzonte, riflessi, bande di luce diffratte nei colori dello spettro visibile, e le ombre moltiplicate, la tua e quella degli altri visitatori. Stando all’interno dei Kaleidorama, ci si sente come di fronte al tempo mentre si svolge. È un’opportunità per riconsiderare il nostro senso della proporzione e del tempo, come quando si guardano le immagini di un telescopio, uno spazio profondo ai confini della nostra immaginazione”. Esperimenti di luce per la mostra "Orizzonti tremanti" al Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, 2022. Foto Tegan Emerson I Courtesy Studio Olafur EliassonLa dimensione sensoriale incontra le istanze ecologiche - altro tema centrale nella ricerca di Eliasson - nell’opera Your non-human friend and navigator, che segna il culmine del percorso torinese. In parte sospesa nell’aria, in parte distesa sul pavimento, l’installazione è composta da driftwood, tronchi trasportati dal mare e logorati dall’azione degli elementi che l’artista ha raccolto sulle spiagge dell’Islanda, dove spesso approdano resti di legname partiti da paesi lontani. Una calamita orienta la parte sospesa dell’opera lungo l’asse Nord-Sud, mentre a terra le sottili velature di acquerello applicate sul legno rievocano l’azione dell’acqua e delle correnti che lo hanno sospinto per migliaia di chilometri. “L’opera di Olafur Eliasson contiene echi dell’Arte povera, in particolare di Giuseppe Penone, Pier Paolo Calzolari, Giovanni Anselmo e Marisa Merz”, osserva il direttore del museo Carolyn Christov-Bakargiev: “Nella sua arte, il pensiero processuale ed ecologico degli anni Sessanta si collega alla visione contemporanea attraverso uno sviluppo organico”. Olafur Eliasson, Navigation star for utopia, 2022. Foto Jens Ziehe In corso al Castello di Rivoli fino al prossimo 26 marzo, Orizzonti tremanti trova una naturale appendice nelle collezioni del museo, dove l’artista ha già esposto due volte: nel 1999, in occasione della sua prima mostra fuori dalla Scandinavia, e nel 2008 durante la Biennale di Torino. Lo testimonia una coppia di installazioni site-specific, allestite negli ambienti per i quali furono originariamente concepite: Your circumspection disclosed (1999) nel mezzanino della Manica Lunga e The sun has no money (2008) nella sala a volta del Settecento. Esperimenti di luce per la mostra "Orizzonti tremanti" al Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, 2022. Foto Tegan Emerson I Courtesy Studio Olafur EliassonLeggi anche: • “Nel tuo tempo”. Al via la grande mostra di Olafur Eliasson a Firenze• Nella Vita Reale: Olafur Eliasson al Guggenheim di Bilbao

Ester Coen racconta Boccioni, il pittore irruento che sfidò i cubisti a colpi di luce e dinamismo

133717 638px States of Mind  The Farewells by Umberto Boccioni 1911

Della chiassosa brigata di artisti italiani a Parigi, desiderosi di sganciarsi dalla tradizione per rinnovare la cultura italiana di quel momento, Umberto Boccioni, stravagante con i suoi pantaloni dalla piega perfetta e i calzini di colori diversi, fu certamente il più vivace e irruento.Marinetti fu la sua scintilla, riuscendo ad accendere in lui quello spirito vitale che definiva la sua personalità, quel desiderio di rompere e di trovare nuovi modi per creare un linguaggio moderno, contemporaneo. Quando, nel 1912, Boccioni e i colleghi futuristi esposero alla Galleria Bernheim Jeune di Parigi, imbracciati i pennelli, si trovarono a sfidare, fino all’ultimo colpo di colore, i colleghi francesi, in primo luogo i cubisti, a casa loro. Questa sfida fu un realtà un reciproco scambio. Lo spiega bene la storica dell’arte Ester Coen, il cui contributo è uno dei preziosi interventi che arricchiscono il documentariodal titolo FORMIDABILE BOCCIONI disponibile in esclusiva su ItsART. Scritto da Eleonora Zamparutti e Piero Muscarà con la regia di Franco Rado, prodotto da ARTE.it Originals in collaborazione con ITsART e Rai Cultura, il documentario ripercorre, a 140 anni dalla nascita, la vita e le opere dell’artista inquieto, primo attore del Futurismo, che dedicò la sua carriera a inventare un nuovo linguaggio contemporaneo per esprimere la modernità in pittura e in scultura. Frame da Formidabile Boccioni | © ARTE.it“Quando i futuristi, nel febbraio del 1912, espongono alla Galleria di Bernheim Jeune - racconta Ester Coen - la loro carica violenta è fortissima, perché devono contrapporsi a un sistema dell'arte che è già ben definito, e cioè a quella pittura francese che, dall’impressionismo in poi attraverso Cézanne, era arrivata a quelle conseguenze di diversificazione pittorica. La violenza, anche fisica, con la quale i futuristi irrompono sulla scena parigina è sicuramente un modo per creare un interesse”. Che cos’è che diversifica il futurismo dal cubismo? “Certamente l'ideale futurista, e cioè il voler rappresentare l'essenza del movimento, il dinamismo, la velocità mostrata in una dimensione statica, riuscire a oltrepassare quella statica visione del dipinto”. In che modo si contrappongono i futuristi ai cubisti? “Secondo Boccioni e i futuristi la visione cubista è una visione ferma, statica, dove l'oggetto viene analizzato in tutte le sue proporzioni secondo una visione tridimensionale. L'oggetto viene frammentato e ricomposto all'interno della superficie, ma è sempre una visione legata a un oggetto fermo che appartiene a una realtà fisica. Quello che i futuristi, e in particolare Boccioni, cercano di rappresentare attraverso una luminosità diversa, attraverso quindi una frammentazione della luce e non attraverso la frammentazione volumetrica dell'oggetto, è invece questo senso di energia, questa carica dinamica, questa carica vitale che deve espandersi proprio dal soggetto e occupare tutta la realtà dell'ambiente circostante”. Umberto Boccioni, Stati d'animo: Quelli che partono, 1912. Museum of Modern Art, New YorkQuando Boccioni va a Parigi incontra Picasso (pare frequentasse il suo studio). Che idea aveva di lui? “Boccioni a Parigi incontra Picasso, ma incontra anche tutti i personaggi della scena artistica parigina. Picasso, insieme a Braque, è una figura direi quasi mitica. Insieme rappresentano quella forza iniziale di rottura di uno schema che ancora appartiene al passato. Boccioni riconosce a Picasso la volontà di rompere con il passato, riconosce la grandezza di questo artista e la grandezza della prima fase cubista alla quale Picasso e Braque sono legati”. E invece che cos’è che Boccioni rimprovera alla pittura cubista? “Il fatto di non andare oltre la realtà oggettiva del mondo reale. Boccioni accusa i cubisti di ricreare un mondo parallelo, ma che non è in realtà molto diverso da quello reale. Rimprovera di non andare oltre l’oggetto, di non creare una visione astratta della realtà. I futuristi invece insistono sull’aspetto delle linee dinamiche di forza, che distruggono la visione esteriore dell’oggetto e della figura umana. La ricerca di universalità da parte di Boccioni e dei futuristi è legata senza dubbio anche alle nuove ricerche scientifiche dell’epoca, si pensi per esempio a Bergson, alla teoria della relatività di Einstein, alla scoperta dei primi studi sull'atomo, agli studi sui raggi X”.Quindi Boccioni non butta proprio tutto della pittura cubista. Qualche elemento lo fa suo… “Apollinaire, nel primo articolo che scrive dopo l'incontro con Boccioni, racconta di avere incontrato questo artista che sta dipingendo il tema delle stazioni…Sarà la prima fase degli Stati d'animo, quella sorta di trittico che Boccioni dipinge tra il 1910 e il 1911 e del quale conosciamo due versioni, una prima direi quasi espressionista dove è la pennellata che guida il senso di direzonalità delle linee. Invece nella versione più nota, oggi al Museum of Modern Art di New York, c'è stato uno sguardo al cubismo dal quale Boccioni fa derivare alcuni elementi, ma comincia già a definire le sue idee sul futurismo. Qui si vede che, sia dal punto di vista formale che stilistico, Boccioni apprende alcuni elementi dalla pittura cubista, ma allo stesso tempo comincia già a definire in modo molto chiaro quelle che sono le sue idee sul futurismo”.Umberto Boccioni, Stati d'animo - Gli addii, 1911, Olio su tela, 71 × 96 cm | Foto: Carrà | Courtesy of Museo del Novecento, Milano Nella seconda versione di Stati d’animo Boccioni riesce invece a definire la sua idea... “La seconda versione degli Stati d’animo è quella più complessa e completa nella quale Boccioni riesce a definire la sua idea. Nel primo dipinto, che è quello legato alla partenza, vediamo linee molto confuse che vanno in tutti i sensi. Questo senso di circolarità di linee di forze raduna all'interno della stazione personaggi che si abbracciano. Al centro notiamo la locomotiva con i numeri, ci sono colori molto vivi, rossi brillantissimi, verdi, azzurri. Enfatizzano la confusione del momento in cui le persone si separano sui binari della stazione. Nel secondo dipinto, Quelli che vanno, le persone si trovano già sul treno e quindi a prevalere è questo senso legato al linearismo della prospettiva che Boccioni vuole dare, una partenza in diagonale con i volti tagliati dalla velocità del movimento del treno, e con l'azzurro a definire il senso della malinconia di questa partenza. Il terzo dipinto, Quelli che restano, raffigura le persone sul binario, ormai distaccate da chi è già andato. Le linee verticali rendono bene questa idea di chi è ancora lì sul binario. E il verde crea questo stato d’animo di abbandono”. Umberto Boccioni, Stati d'animo: Quelli che restano, 1912. Museum of Modern Art, New YorkBoccioni o Picasso ? Chi ha vinto la sfida nel Novecento? “Tutti e due, ma in maniera molto diversa e straordinaria. Se Picasso cerca di uscire dalla realtà per creare una dimensione diversa, per dare una carica oggettiva e per uno studio fenomenologico della della realtà, Boccioni, pur essendo forse più indietro dal punto di vista pittorico-stilistico, è quello che ha una maggiore carica vitale. Quella dimensione teorica che appartiene al futurismo, quella ricerca di un’estasi del moderno, come la definiscono i futuristi, forse è più moderna rispetto a quella di Picasso”.E Parigi? Era pronta ad accogliere i futuristi? “Parigi era più che pronta ad accogliere i futuristi anche se si pone in una posizione più difensiva nei loro confronti. La città brulicava di ricerche di tutti i generi intorno al cubismo. Mondrian, Diego Rivera erano tutti lì a cercare di trovare attraverso il cubismo forme nuove di espressione. I futuristi arrivano a Parigi con tutte le armi possibili per cercare di scalfire quel confine che avevano posto i cubisti e tutto l’ambiente parigino. Ed è proprio questo un motivo centrale per i futuristi per affilare le armi e accrescere la loro violenza, quell’irruenza che mettono in scena anche in Italia nei teatri, per fare presa sul pubblico”. Paris, Montmartre, Frame da Formidabile Boccioni | © ARTE.itParigi (e in qualche modo Picasso) furono quindi una scintilla nell’arte di Boccioni. Perché nel 1912 proprio dopo il viaggio a Parigi a Boccioni viene in mente di dedicarsi alla scultura? “Il manifesto della scultura futurista viene scritto di getto dopo un viaggio a Parigi. Boccioni visita numerosi studi e conosce anche tutta la scultura che viene realizzata in quegli anni, come ad esempio quella di Brancusi o dello stesso Picasso. Era quindi consapevole che le ricerche pittoriche si stavano dirigendo anche verso ricerche plastiche diverse. Questo lo stimola verso la ricerca e l'applicazione di quelle che sono le teorie della velocità, l’idea di rappresentare il dinamismo anche attraverso la scultura”. Per esempio qual è un’opera nella quale compaiono elementi che poi Boccioni trasporterà nella scultura? Materia è un dipinto che - rispetto per esempio a Rissa in galleria o Idolo moderno - ha una costruzione più volumetrica, più plastica. La figura della grande madre è chiaramente ispirata alla figura della madre di Boccioni, figura mitizzata, ideale, molto verticale. La forza che viene impressa nel dipinto è proprio nell'incrocio delle diagonali, nelle mani nodose che sprigionano forza. All'interno di questo quadro troviamo elementi che poi Boccioni trasporterà nella scultura, elementi che fanno parte di una realtà esteriore rispetto alla figura umana, come la balconata, il cavallo che corre in lontananza. Questi elementi verranno trasportati nella scultura tentando di creare un insieme plastico polimeterico che dia l’idea di una sintesi tra la figura e il suo ambiente”. Umberto Boccioni, Materia, 1912. Olio su tela, 226 x 150 cm. Collezione Gianni Mattioli, Museo del Novecento, MilanoChe fine hanno fatto le sculture di Boccioni dopo la sua morte? “È grande mistero. Ci sono in realtà varie versioni. C’è chi afferma che dopo la mostra del 1916 organizzata da Marinetti a Palazzo Cova queste sculture siano state lasciate in un deposito e che quindi siano andate distrutte per le intemperie. C’è invece chi dice che queste sculture siano state affidate allo scultore Pietro da Verona il quale, in un atto di furore, probabilmente quasi a voler nullificare l'opera di Boccioni, le avrebbe distrutte. Marco Bisi - il nipote che era stato adottato dalla sorella di Boccioni - avrebbe recuperato una delle sculture, Bottiglia nello spazio”. Perchè a suo avviso Boccioni è più famoso come scultore che come pittore sebbene le sue sculture siano andate distrutte? Forme uniche della continuità nello spazio è una scultura che propone una dimensione diversa rispetto alla scultura tradizionale. Mentre gli artisti cubisti cercano di ricreare quella particolarità dell'assemblaggio della scultura e della pittura cubista, Boccioni ricerca quell'attenzione dinamica delle masse attraverso l'impulso dinamico. Cerca di sciogliersi dalla dimensione fisica, ma, allo stesso tempo, cerca un aggancio con la realtà esteriore. E questa è una novità straordinaria sia dal punto di vista stilistico che estetico”. Cosa rimane oggi di Boccioni? “Rimane la sua straordinaria vitalità, l'idea di una costruzione architettonica delle masse che ritroviamo per esempio anche nell'architettura contemporanea, basti pensare a Frank Gehry, l'idea di andare oltre la realtà fisica. C’è questo sondare lo spazio, quello sfondare la realtà della tela che ritroviamo nell'opera di Fontana. C'è la dimensione di un aleatorietà della pittura che ritroviamo nelle ricerche degli artisti contemporanei come Olafur Eliasson. Quello lasciato da Boccioni è un segno straordinario, di una ricerca che va al di là dei fenomeni fisici della realtà pur partendo da quegli elementi”. Leggi anche:• In viaggio con Boccioni, I capolavori da ammirare nel mondo• La Collezione Mattioli al Museo del Novecento: il racconto dei protagonisti• Le opere di Boccioni da vedere in Italia

L’arte e i tormenti di Munch in un docufilm

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In una notte d’inverno, davanti al focolare, una giovane donna legge ai bambini una fiaba norvegese. Siamo nella casa di Edvard Munch ad Åsgårdstrand, immersi nel Grande Nord, dove i venti sussurrano, gli orsi trasportano le ragazze sulla schiena, i troll sfoderano malvagi incantesimi. Eppure, quella che vede protagonista Edvard Munch è una favola priva di lieto fine, che si conclude con la morte di sua madre e della sorella Sophie, con la devastante depressione del padre, eventi che segneranno per sempre la vicenda umana e artistica del pennello de L’Urlo. Il docufilm Munch. Amori, fantasmi e donne vampiro, prodotto da 3D Produzioni e Nexo Digital, diretto da Michele Mally che firma la sceneggiatura con Arianna Marelli, al cinema il 7, 8 e 9 novembre, ci invita in sala per guardare con nuovi occhi l’uomo dal fascino profondo e misterioso, precursore e maestro per tutti coloro che vennero dopo di lui. Oltre a gettare nuova luce su Munch, il nuovo docufilm de La Grande Arte al Cinema, distribuito con i media partner Radio Capital, Sky Arte, MYmovies.it e in collaborazione con Abbonamento Musei, è anche un viaggio attraverso la Norvegia di Munch. Un invito rivolto agli spettatori a ricercare le radici e l’identità di un artista universale, a interrogarsi sull’idea di tempo, tema principale e ricorrente nel suo multiforme lavoro. Munch. Amori fanstasmi e donne vampiro - Edvard Munch, Ceneri, Munch, OsloCome racconta la sua biografa, Sue Prideaux, Munch visse ottant’anni travagliati, tra alcolismo, problemi psichiatrici, isolamento. Ma la lettura psicoanalitica della sua opera non basta. Storici dell’arte come Jon-Ove Steihaug, direttore del Dipartimento Mostre e Collezione del Museo MUNCH di Oslo, Giulia Bartrum, per decenni curatrice del British Museum, e Frode Sandvik, curatore del Kode di Bergen, passano in rassegna i temi e le ossessioni presenti nella sua opera, oltre alle abilità artistiche. Le tecniche sperimentali che l'artista ha scelto di adottare nei suoi lavori rendono le sue opere, come spiega la restauratrice Linn Solheim, estremamente fragili, dense di quella ricerca sull’animo umano e del tentativo di tradurre le emozioni su tela o carta.Munch. Amori fantasmi e donne vampiro, Ingrid Bols Il docufilm non trascura l’esperienza, cruciale, della bohème fin de siècle. Come spiega il direttore del Museo MUNCH, Stein Olav Henrichsen, “gli artisti sono sempre in opposizione al proprio tempo, anche se - guardando indietro - li consideriamo rappresentativi di un particolare periodo della storia”. E Munch in opposizione con il suo tempo c’è stato, vivendo da bohémien prima a Kristiania - dove rideva dei morti viventi borghesi insieme allo scrittore anarchico Hans Jæger, al pittore Christian Krohg e alle donne dallo spirito libero che incarnavano una figura femminile indipendente nella società - e in seguito a Berlino, dove si innamora di Dagny Juel, frequentando satanisti e dottori che sperimentano l’uso della cocaina.Il grande schermo analizza anche il complesso rapporto di Munch con le donne, che non si esaurisce solo con le vicende biografiche, come la burrascosa relazione con Tulla Larsen, una delle “Donne Vampiro” che Munch incontrò durante la sua vita e che sparò al pittore durante una lite. Per l’artista trauma e arte, tormento e desiderio si intrecciano e si fondono in maniera incessante in un’intensa riflessione sulla donna: una “sirena” ed enigmatica “sfinge” che, come ha sottolineato anche la scrittrice Gunnhild Øyehaug, attrae e atterrisce l’uomo.Munch. Amori fantasmi e donne vampiro - Edvard Munch, Vampiro, Munch, Oslo I legami più intimi con i paesaggi del Nord e i suoi colori vividi si fanno musica nelle composizioni di Edvard Grieg, che trascorreva le sue estati nella natura della collina di Troldhaugen a Bergen. Il compositore norvegese ha saputo ricreare quella stessa sensazione del “trovarsi a casa”, come anche il pianista Leif Ove Andsnes. In questa continua ripetizione, così come negli esperimenti visivi attraverso il cinema e la fotografia, possiamo trovare - come suggeriscono gli storici dell’arte Elio Grazioli e Øivind Lorentz Storm Bjerke - la chiave per entrare nel tempo di Munch. Un tempo variabile che si dilata verso l’eternoe insieme fissa attimi che diventano successivamente ossessioni.E noi, in qualche modo suoi eredi, accogliamo la sua richiesta di salvezza, una sorta di apertura agli spiriti, ai fantasmi che ci aleggiano intorno. A tessere la storia di Munch sono, nel docufilm, anche gli interventi di Erik Höök, direttore dello Strindbergsmuseet di Stoccolma, della soprano e imprenditrice Siri Kval Ødegård, di Carl-Johan Olsson, curatore Pittura del XIX secolo al Nationalmuseum di Stoccolma, e la colonna sonora del film, che include brani di repertorio, come quelli del compositore e organista norvegese Iver Kleive. A firmare le musiche originali del film - che saranno contenute sull’album Munch. Love, ghosts and lady vampires – Music insipired from the film, in uscita a novembre su etichetta Nexo Digital e distribuzione Believe Digital - è invece il musicista e compositore Maximilien Zaganelli.Munch. Amori fantasmi e donne vampiro. Edvard Munch, Autoritratto, Munch, Oslo

Cento capolavori per una grande storia: i 25 anni della Fondation Beyeler

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Entrano nel vivo le celebrazioni per i 25 anni della Fondation Beyeler. Dopo due importanti mostre dedicate alla pittrice americana Georgia O’Keeffe e al maestro dell’astratto Piet Mondrian, il museo svizzero punta i riflettori sulla propria collezione permanente in un allestimento senza precedenti.  Fino all’8 gennaio, nell’elegante edificio progettato da Renzo Piano e Peter Zumthor, potremo ammirare in un solo colpo un’impressionante selezione di capolavori, per un totale di 100 pezzi e oltre 30 artisti in mostra.Fondation Beyeler, Jubilaeums Ausstellung. Photo Mark Niedermann I Courtesy Fondation Beyeler Opere di Vincent Van Gogh, Claude Monet, Paul Cézanne, Henri Rousseau introducono i gioielli modernisti di Henri Matisse, Pablo Picasso, Alberto Giacometti, in un viaggio attraverso il meglio dell’arte del Novecento che includerà Mark Rothko, Andy Warhol, Francis Bacon, Louise Bourgeois, fino a icone del contemporaneo come Marlene Dumas, Anselm Kiefer, Roni Horn, Felix Gonzalez-Torres, Tacita Dean, Rachel Whiteread, Wolfgang Tillmans. Lungo tutto il percorso della mostra, le sculture iperrealistiche dell’artista statunitense Diane Hanson sorprenderanno i visitatori da posizioni impreviste, instaurando dialoghi inattesi con i tesori e gli spazi della Fondation Beyeler.Fondation Beyeler, Jubilaeums Ausstellung. Photo Mark Niedermann I Courtesy Fondation Beyeler Il risultato è un’esplorazione a tutto tondo di una delle più prestigiose raccolte europee di arte moderna e contemporanea, messa insieme in 50 anni da una coppia di collezionisti che a questo progetto ha dedicato la vita. Circa 400 pezzi compongono oggi la collezione di Ernst e Hildy Beyeler, che nel 1997 hanno deciso di renderla accessibile a tutti con un’idea molto chiara: creare un museo aperto e vivace che potesse trasmettere la passione per l’arte al pubblico più vasto possibile. Tra alberi secolari e stagni di ninfee, il gioiello architettonico creato da Renzo Piano ai piedi della Foresta Nera coniuga natura e cultura in un mondo di luce e di bellezza. Il successo non si è fatto attendere: oggi la Fondation Beyeler è il museo d’arte più visitato in Svizzera ed è considerato uno dei più belli al mondo.Fondation Beyeler, Jubilaeums Ausstellung. Photo Mark Niedermann I Courtesy Fondation Beyeler

L’Ombra di Caravaggio – La nostra recensione

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Un uomo tormentato, sovversivo nell’aspetto, pronto a sfoderare la spada dal fianco per scatenare la rissa, la barba, i velluti un po’ consunti, i capelli scarmigliati dal taglio un po’ anarchico, cerca e ritrova nel proprio volto lo sguardo di Golia. Di mestiere fa il pittore, i pantaloni aderenti come un paio di jeans, le scarpe sporche di fango, una camicia cosparsa di ogni vernice, spesso di sangue, colore incrostato sulle mani, sotto le unghie. E lui stesso, Caravaggio lo “scornacchiato”, assomiglia a una tela, come i personaggi che il suo sguardo rapisce dalla Suburra romana - e dalla Chiesa di Santa Maria in Vallicella, dove Filippo Neri toglie la fame ai tanti derelitti - per trasferire nei quadri quella realtà putrida fatta di ladri e prostitute pronti a prestare i loro volti alle madonne e ai santi più celebri della storia dell’arte. Rissoso frequentatore di taverne e donne di strada, il Caravaggio di Michele Placido è l’espressione più autentica di quel “vero” che da sempre ossessiona l’artista che depone sulla tela i tanti cristi in croce trovando nella realtà quei Vangeli che conosce a memoria e alla cui lettura si commuove. Dal 3 novembre L’Ombra di Caravaggio, una co-produzione italo-francese siglata da Goldenart Production con Rai Cinema e per la Francia Charlot, Le Pacte e Mact Production porta al cinema la complessa esistenza di Michelangelo Merisi (interpretato da Riccardo Scamarcio) con Michele Placido a firmare il suo quattordicesimo film da regista, Sandro Petraglia, Fidel Signorile e lo stesso Placido alla sceneggiatura, e un cast di grandi nomi. Riccardo Scamarcio (Caravaggio) e Isabelle Huppert (Costanza Colonna) nel film L'Ombra di Caravaggio | Foto: © Luisa CarcavaleRibelle e inquieto, devoto e scandaloso, indipendente e trasgressivo, il Caravaggio 2.0 che Placido porta al cinema è un artista pop venuto a Roma, a quell’epoca centro del mondo, per attingere da quell’universo di immigrati, preti, prostitute, pellegrini, cardinali, principi e malviventi, e che oggi vivrebbe la sua vorticosa esistenza in uno studio qualunque di Londra o New York. A fronte di una chiesa controriformista che chiede statue, cupole e dipinti per celebrare la propria opulenza in un gigantesco cantiere delle meraviglie, Caravaggio, al pari di un regista neorealista ante litteram, vicino all’ala pauperista della chiesa, cerca invece un ritorno ai valori evangelici. Lo trova in Filippo Neri e nelle donne della sua vita, nella marchesa Costanza Colonna (Isabelle Huppert), molto più di un’amica, che lo protegge fin dall’infanzia, in Lena (Micaela Ramazzotti), una delle prostitute più famose di Roma, rappresentata spesso come Maria, la madre di Gesù, e poi in Annina, il volto di uno dei suoi più grandi capolavori, La morte della Vergine, oggi al Museo del Louvre di Parigi, “la morte più viva che sia mai stata dipinta”.Micaela Ramazzotti (Lena), L'Ombra di Caravaggio | Foto: © Luisa CarcavaleColpisce l’intensità con la quale il regista allestisce la scena della Morte della Vergine, e non solo, con una teatralità che commuove. Una teatralità alla quale il Placido “parolaio” e uomo di teatro non poteva rinunciare. Piacciono questi echi di teatro che affiorano dall’allestimento della spettacolare festa del Cardinal Dal Monte allestita a Villa Aldobrandini, nell’apparecchiamento della Conversione di San Paolo e della Crocifissione di San Pietro, nel dialogo potentissimo con Giordano Bruno. Nel sublime confronto tra Caravaggio e il frate domenicano (Gianfranco Gallo), girato nei sotterranei di Napoli a rappresentare le prigioni nella Roma del tempo, c’è tutta la ricerca della verità agognata da due uomini. Come il filosofo degli infiniti mondi anche Caravaggio gioca a dadi con la morte da quando pesa su di lui la terribile condanna. Michelangelo Merisi da Caravaggio, Crocifissione di San Pietro, Cappella Cerasi, Santa Maria del Popolo, RomaNel film i protagonisti diventano opere d’arte viventi. Se per Caravaggio la realtà viene prima di ogni cosa, anche il regista fa sì che la pelle, i piedi, le pulsioni, i vizi, il sangue, gli sguardi dei suoi soggetti scompiglino le corde dello spettatore prima di depositarsi sulla tela. Lo studio dove il pittore realizza i suoi capolavori, ambientato nel film a Cinecittà, è un via vai di bottegai, prostitute, nobili e prelati grandi collezionisti d’arte come il Cardinale Francesco Del Monte. Così Placido, ed è questo uno dei punti di forza del film, snocciola una serie di personaggi, solitamente poco considerati, ma contemporanei di Caravaggio, emblematici per annusare il contesto storico del pittore e forse un po’ anche la sua arte, oltre che i fermenti di un’epoca, il Seicento, dove a Roma la Vallicella diventa la variegata fucina della sua verità. La Roma di Caravaggio è anche la Roma di Orazio e Artemisia Gentileschi e ancora di Filippo Neri, di Scipione Borghese e del Cavalier d’Arpino. Michele Placido, Riccardo Scamarcio (Caravaggio) e Louis Garrel (l'Ombra) ne L'Ombra di Caravaggio | Foto: © Luisa CarcavaleLungi dall’essere protagonista di una scena laccata, scolasticamente delineata da una sfilza di opere corredate da didascalia, il Caravaggio di Michele Placido vive alimentandosi dalla realtà, dalla veracità degli accenti romaneschi che esplodono dalla bocca di Ranuccio (Brenno Placido) e di suo fratello (Michelangelo Placido). La sfida che consisteva nella ricerca dell’aderenza storica e in una ricostruzione d’epoca che non mirasse alla spettacolarizzazione retorica ma piuttosto alla sostanza materica degli ambienti risulta vinta. Come probabilmente anche la trovata dell’Ombra (Louis Garrel) un agente segreto del Vaticano, a tratti nel film un po’ troppo statico, al quale Papa Paolo V decide di commissionare una vera e propria indagine che mette sul banco degli imputati Caravaggio e la sua arte. Sarà lei a decidere se concedere o meno la grazia che il pittore chiedeva dopo la sentenza di condanna a morte per aver ucciso in duello un suo rivale. E sarà l’Ombra, l’unico personaggio di fantasia del film, ad avviare le sue attività di spionaggio sul pittore che, con la sua vita e con la sua arte, affascina, sconvolge, sovverte. Al termine del film sarà questo stesso personaggio di fantasia a decretare un finale che potrebbe apparire antistorico. Ma la licenza d’autore può anche concedersi di giocare con il mistero fittissimo che si cela intorno alla fine di Caravaggio.Riccardo Scamarcio nel film L'ombra di Caravaggio I Courtesy 01 DistributionMolto attento risulta nel film il lavoro sugli arredi e gli oggetti di scena, dai libri ai quadri di Caravaggio, che rispecchia la volontà di superare una rappresentazione iconografia già vista. Le opere sono state preparate su tela con basi materiche che al momento della stampa sono state patinate proprio per rendere le texture dei quadri molto più veritiere rispetto alle semplici riproduzioni fotografiche. Seguendo l’incessante peregrinare di Caravaggio da un posto all’altro lo spettatore incontra diverse location che frantumano gli stereotipi dei luoghi del maestro, in un’ambientazione sporca, decisamente lontana dalla tentazione di una rappresentazione iconografica o patinata. La presenza dei luoghi nel film si fa potente e trascina dagli sfarzosi palazzi pontifici e nobiliari come Villa Chigi, dove è stata ambientata parte della dimora dei Colonna, alle osterie popolari, tra le chiese e le fortezze, lungo i sotterranei di Caracalla trasformati in strade cittadine piene di sporcizia, brulicanti di cloache e mendicanti. Ritroviamo Napoli con le sue chiese del Rinascimento e inizio Barocco napoletano, dove sono state ricostruite la Cappella Contarelli e la Cappella Cerasi, ma anche Sant’Agostino (la Curia di Roma non ha permesso che le riprese venissero effettuate all’interno delle chiese romane). A Castel Dell’Ovo prendono invece vita i sotterranei di Malta con la Decollazione di San Giovanni, una delle ultime opere di Caravaggio prima del ritorno a Napoli. Michelangelo Merisi Da Caravaggio, Decollazione di San Giovanni Battista, 1608, Olio su tela, 361x320 cm, Concattedrale di San Giovanni, La Valletta, MaltaIn questa sfida priva di patinature retoriche, finalizzata a restituire tutta la dimensione terrena, umana, dolorosa e carnale del pittore e del suo tempo, convincono i costumi per i quali Carlo Poggioli si è ispirato agli abiti che Caravaggio amava indossare, sottolineando talvolta il legame tra l’abbigliamento e i cambiamenti nell’esistenza del pittore che, dagli abiti molto semplici e poveri nella prima fase della sua vita, passa a un guardaroba un po’ più vario e colorato quando la sua fama comincia ad affermarsi. Al netto di salti temporali un po' troppo altalenanti che riflettono l’incessante peregrinare del maestro, ma che in alcuni momenti fanno un po’ smarrire lo spettatore rallentando un po’ il focus sul protagonista, la fotografia di Michele D’Attanasio convince, il finale sorprende. E se davvero l’amore è sinonimo di verità - un po' come l'universo di Giordano Bruno realizzato da un Dio altrettanto infinito, da amare infinitamente - il messaggio finale consegnato da Placido attraverso la frase di Virgilio, ripresa da Caravaggio, Omnia vincit amor, è davvero l'epilogo perfetto di quella ricerca del vero che Caravaggio ha difeso con convinzione fino alla fine dei suoi giorni.Michelangelo Merisi da Caravaggio, Amor vincit Omnia, Gemäldegalerie, Staatliche Museum, Berlino Leggi anche:• Michele Placido racconta il suo Caravaggio, il "regista" solitario che cercava la verità nella pittura• Nove splendidi dipinti da riconoscere nel film L'Ombra di Caravaggio• L'Ombra di Caravaggio, dal 3 novembre solo al cinema• Riccardo Scamarcio è Caravaggio nel nuovo film di Michele Placido

Michele Placido racconta il suo Caravaggio, il “regista” solitario che cercava la verità nella pittura

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All’ombra della statua di Giordano Bruno a Campo de’ Fiori, alimentate dal vento del Sessantotto che consegnava al cinema di Pasolini il mondo autentico delle borgate, le vicende del frate filosofo disegnavano nella mente di un giovane Michele Placido sogni di progetti futuri che avevano come cornice quella Roma in fermento teatro del mondo. Tre secoli prima, in quella stessa Roma di rivolte e rivoluzioni, anche Caravaggio, contemporaneo di Giordano Bruno, aveva cercato il suo spazio nel mondo trovandolo nella Suburra, tra prostitute, ladri, vagabondi, trasfigurati sulla tela in santi e madonne immortali. “Mi fa molto sorridere il fatto che Caravaggio nei suoi quadri sia riuscito a trasformare uomini e donne della Suburra in santi e madonne ancora oggi venerati nelle chiese. Molti di coloro che ammirano i suoi capolavori non sanno che non si trovano di fronte a personaggi di fantasia, ma a uomini e donne realmente esistiti. Sei anni fa con l’amico sceneggiatore Sandro Petraglia, con il quale avevamo già scritto Romanzo Criminale e altri lavori, abbiamo deciso di affrontare questo sogno impossibile”. Michele Placido, Riccardo Scamarcio (Caravaggio) e Louis Garrel (l'Ombra) ne L'Ombra di Caravaggio | Foto: © Luisa CarcavaleIl sogno impossibile del quale Michele Placido parla, mentre lo raggiungiamo al telefono in una delle località dove è impegnato a promuovere il suo film, si chiama L’Ombra di Caravaggio, una co-produzione italo-francese siglata da Goldenart Production con Rai Cinema e per la Francia Charlot, Le Pacte e Mact Production che arriverà nelle sale il 3 novembre. Il film, scevro di patine scolastiche o accademiche, è un viaggio insolito nell’intricata esistenza di Michelangelo Merisi, raccontato nelle sue profonde contraddizioni e nelle oscurità del suo impenetrabile tormento. Se fosse un nostro contemporaneo oggi questo Caravaggio sarebbe probabilmente un artista pop di base a New York o a Londra, i pantaloni aderenti come un paio di jeans, le scarpe infangate, una camicia sporca di ogni vernice. E lui stesso sarebbe una tela, colore incrostato sulle mani, sotto le unghie, tra la barba, lo sguardo alle donne della sua vita: una marchesa, una delle prostitute più famose di Roma, e un’altra pronta a prestare il volto a uno dei suoi più grandi capolavori. Dal suo laboratorio contemporaneo proiettato nel futuro, il Caravaggio 2.0 sarebbe un uomo ossessionato dalla voglia di raccontare attraverso la sua pittura una visione religiosa rivoluzionaria, che si origina nella strada, in una sorta di neorealismo ante litteram. Mentre parla del suo film Placido ci coinvolge nella danza che dal grande schermo conduce al "suo" teatro, come quando interpreta, dall’altra parte del filo, alcune pagine di Yannick Haenel o quando ripropone qualche battuta del Cardinal del Monte. Seguire la genesi del film diventa così un piacere doppio.Micaela Ramazzotti (Lena) ne L'Ombra di Caravaggio | Foto: © Luisa CarcavaleL’ombra di Caravaggio arriva dopo cinquant'anni di carriera e vede la luce dopo quattro anni di studio. Come nasce l’idea di questo film? “Sono arrivato a Roma da un paesino molto piccolo che non aveva né un cinema né un teatro. Nasco come parolaio, ero affascinato dalla parola, nel senso più bello del termine, sognavo di diventare attore. La voglia, il piacere la passione di far conoscere Caravaggio ha origini lontanissime. Quando ero ancora allievo dell’Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" correva il 1968, un anno rivoluzionario un po’ dappertutto. Si percepiva il fermento dei giovani figli che volevano cambiare il mondo, diventando protagonisti e non più succubi dei padri. Furono a mio avviso anni straordinari. Volevamo essere protagonisti, andavamo nelle piazze, partecipavamo alle manifestazioni. In questo clima attecchisce la mia educazione culturale. I miei compagni di viaggio all’Accademia erano scenografi, attori, e molte notti bivaccavamo a piazza Campo de’ Fiori dove c’era la statua di Giordano Bruno...” E poi cos'è successo?“Giordano Bruno è stato per me una sorta di ponte per arrivare all’arte e a pittori come Caravaggio. Oltre ad aver scardinato in ambito scientifico il sistema astronomico aristotelico fu uno scrittore di opere teatrali. Mi affascinava. E poi sempre in quegli anni, su suggerimento di amici più colti di me nel campo della pittura e della scultura, abbiamo cominciato a visitare le chiese romane. E il pittore che più ci trasmetteva emozioni proprio per il periodo storico era Caravaggio che, a suo modo, è stato anche un pittore politico, magari inconsciamente”.Riccardo Scamarcio (Caravaggio) e Isabelle Huppert (Costanza Colonna) nel film L'Ombra di Caravaggio | Foto: © Luisa CarcavaleCon una trovata accattivante ricorre alla figura dell’Ombra, interpretata nel film da Louis Garrel. Si tratta dell’unico personaggio di fantasia nel film, ma con una plausibilità storica riconducibile all’Inquisizione. Questo enigmatico investigatore avrà in mano il potere assoluto, di vita o di morte, sul destino di Caravaggio. L’ombra è, assieme alla luce, una componente fondamentale nell’arte di Caravaggio. Ed è curioso come questa stessa ombra che avvolge parte della vita di questo artista cerchi di far luce sulla sua esistenza. Chi è l’Ombra? L’Inquisizione, la Chiesa, la censura…O forse tutti noi? "(Ride) Forse sì, siamo tutti noi. Mi chiedo quanti di coloro che oggi apprezzano Caravaggio, a quei tempi sarebbero stati d’accordo con la sua scelta di trasformare gli ultimi in santi e madonne ancora oggi venerati”.Nel film incontriamo diversi outsider oltre a Caravaggio. Tra questi Filippo Neri, interpretato da Moni Ovadia. La Chiesa di Santa Maria in Vallicella, legata a questa figura, è stata, con i suoi derelitti, una fucina per l’arte di Merisi. Qui si concentravano le figure abiette che, come dice lo stesso Caravaggio “diventano il suo dio”. Che ruolo hanno avuto Filippo Neri e la Vallicella per il pittore? “Caravaggio cerca una luce nuova e, come il film racconta, la trova alla Vallicella. È lì che lui trova la sua strada. Filippo Neri era una grande personalità e rappresentava all’epoca un’altra chiesa che andava verso gli umili e non verso i nobili. Caravaggio credo fosse un grande mistico che, specie all’inizio, ha vissuto molto la solitudine, ed è forse per questo che ha trovato in Filippo Neri la persona giusta per andare avanti in questa sua prospettiva artistica”. Michelangelo Merisi da Caravaggio, Crocifissione di San Pietro, Cappella Cerasi, Santa Maria del Popolo, RomaInsomma Caravaggio la affascina... “Sto leggendo un bellissimo libro di Yannick Haenel intitolato Solitudine Caravaggio. Ho iniziato a leggerlo durante il montaggio, non quando lo abbiamo girato. Dice l'autore...(subentra Placido attore ndr) Contrariamente a quello che può aver detto Poussin Caravaggio non è venuto al mondo per distruggere la pittura, ma Caravaggio non amava altro che la pittura. E ancora...Caravaggio si è forse impegnato per battere strade più serene della sua arte? La saggezza sembra estranea all’emozione di Caravaggio...Mai nessun artista si è tanto logorato i nervi nel tentativo di cogliere la verità in pittura. Mi piace”. Oltre a firmare la regia lei interpreta il Cardinal del Monte, grande mecenate e collezionista, ma soprattutto il più grande sostenitore di Caravaggio. Nel film vediamo il cardinale in una veste insolita, nel bel mezzo di una festa spettacolare girata a Villa Aldobrandini. Che cosa ha scoperto di questo personaggio? “Quando l’Ombra gli domanda come giudichi Caravaggio essendo un uomo di chiesa il cardinal Del Monte risponde: Sì, sono un uomo di chiesa, ma sono anche un uomo che ama l’arte. E questo la dice lunga sul suo percorso. In fondo il suo sogno era quello di diventare papa. Frequentava anche lui la Suburra, di notte partecipava spesso a festini, ma soprattutto all’interno di Palazzo Madama c’era una vera e propria scuola d’arte di pittura e scultura. Lui fu il primo, tramite rappresentazioni teatrali, a inventarsi l’opera cantata dai castrati, voci straordinarie. Era un po’ fuori dal percorso ecclesiastico e in molti scrivono che fosse omosessuale. Tutto questo gli impedì di diventare papa e l’aver scoperto Caravaggio fu anche la sua condanna”. Caravaggio, Morte della Vergine, 1604-1606, Olio su tela,  245 x 369 cm, Parigi, Museo del LouvreChe cos’è che più la accomuna a Caravaggio oltre al nome? A quale quadro si sente più legato? “Credo che il quadro che più mi rappresenta sia La morte della Vergine. Venendo io dal teatro credo che Caravaggio sia stato un grande regista”. In che senso regista? “Sono convinto che nel suo studio, che si trovava nel quartiere Campo Marzio, avesse una vera e propria succursale della chiesa della Vallicella. Per preparare un quadro impiegava giorni e giorni, non tanto per la ricerca della luce, ma perché amava “provare” quegli attori. Questo avviene anche in teatro. Sono stato a lezione da Strehler e anche lui faceva le prove della messa in scena e solo dopo trovava la luce a seconda della costruzione drammaturgica del quadro. Questo era possibile perché Caravaggio aveva una conoscenza non solo della grande pittura italiana di quel periodo, ma anche del Vangelo. A teatro si cerca di rivelare la verità della vita e la drammaticità del percorso umano. Ecco perché, da questo punto di vista, mi sento molto legato alla Morte della Vergine”. Uno dei momenti più intensi del film è quello in cui le figure si fanno tela e La morte della Vergine diventa un vero e proprio allestimento teatrale. Ci racconta come è stata costruita questa scena? “Durante la preparazione del film siamo andati in una piccola chiesa vicino Roma e abbiamo provato per giorni per cercare di capire come rappresentare quel momento in cui Caravaggio è arrivato al quadro. È una messa in scena molto contemporanea, moderna, scarna, affatto opulenta”. Parliamo del finale, molto coraggioso, dove lei si prende qualche licenza artistica...Cosa c’è dietro questa fine apparentemente antistorica? (No spoiler) “Su questo abbiamo riflettuto molto con gli sceneggiatori. Storicamente ci sono varie supposizioni sulla fine di Caravaggio. Molti dicono sia morto di malaria, altri di consunzione, qualcun altro ritiene sia stato assassinato con il taglio della testa. Ma il suo corpo non si è mai trovato. Ma soprattutto su di lui pesava una condanna a morte i cui mandanti potevano essere in molti, dalla famiglia dei due Tomassoni ai nemici all’interno della chiesa”. Caravaggio, Scudo con testa di Medusa, 1595-1598, Olio su tela, 60 × 55 cm, Firenze, Galleria degli UffiziDove avete girato? Nelle chiese di Roma avete trovato le porte chiuse...“La Curia romana non ci ha dato la disponibilità di girare nelle chiese di Roma, o meglio nelle Cappelle che custodiscono i quadri più famosi di Caravaggio. Abbiamo mandato alla Curia il nostro copione e loro lo hanno rispedito al mittente dicendo che non potevano collaborare. Tuttavia, conoscendo molto bene Napoli , dove ci sono chiese similari a quelle barocche romane, abbiamo chiesto consiglio alla Curia napoletana e ci sono state segnalate alcune chiese affidate ad associazioni culturali napoletane che si occupano del decoro di questi luoghi non più attivi spiritualmente. Sempre a Napoli il Museo di Capodimonte ci ha dato una mano. Nei sotterranei di Napoli abbiamo inoltre ambientato la scena con Giordano Bruno”. E a Roma? “Il comune di Roma ci ha concesso la disponibilità dei sotterranei di Castel Sant’Angelo. Grazie allo scenografo Tonino Zera abbiamo ricostruito a Cinecittà la Suburra romana, ma anche la bottega di Costantino, la bottega del Cavalier D’Arpino dove Caravaggio mosse i primi passi nel periodo romano, la Casa di Lena e lo studio di Caravaggio”.Quest’anno ricorrono i cento anni dalla nascita di Pasolini, anche lui, come Caravaggio un outsider, ma della penna. Che cos’è che accomuna Pasolini al suo Caravaggio? “Sono due artisti che sono venuti a Roma e che a Roma hanno trovato il palcoscenico ideale, la Suburra, ma anche gli splendori della città. Come Caravaggio Pasolini ha frequentato i grandi palazzi della cultura romana, ma alla fine la sua ispirazione spirazione l’ha trovata tra la gente delle borgate”.L'Ombra di Caravaggio I Courtesy of 01 Distribution Leggi anche:• Nove splendidi dipinti da riconoscere nel film L'Ombra di Caravaggio• L'Ombra di Caravaggio• Riccardo Scamarcio è Caravaggio nel nuovo film di Michele Placido