Storia ‘diversa’ del cinema: Questione di linguaggio – Parte I
“La miglior regia è quella che non si vede; la regia deve vedersi”: in questa opposizione sta, forse, l’intera storia dei film. Un’analisi su quando la lingua cinematografica è diventata un campo a sé. Da Robert Altman a ‘Moulin Rouge!’, passando per la Nouvelle Vague
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Due concetti, opposti: la miglior regia è quella che non si vede; la regia deve vedersi. Nel momento in cui la regia prevale sul contenuto, ecco che il cinema dichiara il proprio linguaggio. Qualcosa di autonomo che si evolve rispetto alla pura rappresentazione della storia. Ci sono registi che si applicano a una storia e cercano di raccontarla nel miglior modo possibile. Ce ne sono altri ai quali preme soprattutto di imporre il proprio contrassegno. Quando David Selznick acquistò i diritti di Via col vento da Margaret Mitchell, si trovò una storia perfetta. Bastava aderire al romanzo. Assunse George Cukor, regista elegante, salottiero, più propenso a gestire i dialoghi – soprattutto fra donne – che le scene d’azione. Lo licenziò quasi subito. Poi provò Sam Wood, un duro, forse troppo: depennato. Poi gli proposero John Huston, ma il produttore disse no a priori: “È un autore, farebbe un film a sua immagine, mentre voglio che sia a immagine del romanzo”. Huston, in effetti, era un autore. Alla fine Selznick si affidò a Victor Fleming, che sapeva raccontare bene, con efficacia
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