La morte vista con gli occhi di un bambino – Marcello Veneziani

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Da bambino fui educato a rimuovere la morte, i suoi segni e i suoi riti. I bambini non vanno ai funerali, diceva mia madre, stanno lontani dalla morte, vanno preservati. Sicché vedevo i morti e i loro congiunti come un’etnia distinta da noi vivi; consideravo i neri segni del lutto come l’appartenenza a un’altra specie, quelli con la morte in casa. Nelle preghiere della sera, all’Ave Maria omettevo adesso e nell’ora della nostra morte amen, sostituendo con ora e sempre, amen. Piccola riforma liturgica ad usum delphini. Delle morte avevo sfiorato solo cimeli, come i capelli donati alla Madonna di ragazze defunte. Scalpi puerili di corpi ormai scheletriti.
Tra le prime esperienze indirette della morte ricordo un fine agosto di tanti anni fa, la morte della madre di un amico che abitava al piano di sotto. Ricordo quel pomeriggio con la salma in linea d’aria a tre metri da me, sotto la stanza in cui ero disteso a letto alla controra; non riuscivo a giocare, la realtà così attigua della morte risucchiava l’immaginazione, vivevo un raccolto e muto orrore guardando il pavimento: pensavo, se fosse di vetro, se ci fosse una botola o una feritoia, mi troverei nella stanza della morta. Temevo le mosche come messaggere e reduci di quella dolorosa vicinanza, perché immaginavo che si fossero posate sul corpo della morta o sui volti tumefatti di lacrime dei suoi famigliari. Quella fisica prossimità con la morte mi sgomentava, come l’irruzione di un mistero tremendo tra le pareti domestiche, sotto il pavimento. Camminavo sopra la morte, fingendo noncuranza solo grazie a pochi centimetri d’ipocrisia fatta di cemento e mattoni. Fu un giorno doloroso anche per me. Poi sentii scendere tra

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