Il fattore Måneskin

Non bastano la fortuna e il talento: «Zitti e buoni» è diventato un inno capace di intercettare i desideri e i sogni di un’intera generazione. Tutti stupiti che siano italiani: anche da Jimmy Fallon hanno esclamato «What?!?»
Seduto di fronte al computer guardo il clip di due sere fa, quando i Måneskin hanno fatto il debutto americano alla Bowery Ballroom («Con i miei fratelli e sorella italiani che ieri hanno distrutto la Bowery Ballroom. Stanno riportando da soli il Rock nel mondo mainstream», ha twittato con foto backstage Little Steven, non proprio l’ultimo della fila sul tema), e mi sale una voglia di essere lì, in platea nel delirio, i cellulari protesi e la Progress Pride Flag che sventola. «Beggin’, begging yoouuu! »… Damiano vestito di viola, alla faccia, che fa le sue mosse, appena accennate non serve di più, e non deve implorare nessuno, sono loro che lo implorano… Victoria incerottata come sempre sulle tette che salta dietro al suo basso Danelectro Longhorn, lo stesso di My Generation degli Who (che è in gran spolvero nei negozi di strumenti – la gente torna a suonare, non è questa una notizia?), Thomas in pantaloni di pelle viola e camicia rossa che sembra sempre stia per svenire ma intanto spara un riff dietro l’altro sulla seicorde, e laddietro Ethan che pompa e spinge e rulla e non sbaglia un tempo. È solo rock’n’roll, ma ci piace (quanto ci piace?). Adrenalina pura, e io qui a casetta. Malimortè.
Maneskin Bowery
La Bowery… Lì, a due passi, nella zona a Sud Est di NYC che quando ci vivevo era veramente malfamata – e molto rock’n’roll, di quello sgarrupato degli anni 70 – c’erano il Mudd Club, il club minuscolo nero e trendissimo frequentato da Bowie e Zappa, e il celebrato CBGB’s, appena più grande, sempre pareti nere e un palchetto striminzito dove hanno tagliato il nastro inaugurale i sindaci alt. di New York (Ramones, Television, Blondie, Talking Heads). Un isolato più su, a St. Mark’s Square, la chiesa sconsacrata dove Patti Smith aveva debuttato ancora prima con Lenny Kaye leggendo poesie, «Jesus died for somebody’s sins, but not mine…».
Non so chi abbia scelto di farli debuttare lì sul suolo americano, ma a naso non è stato fatto a caso, e la scelta è da applauso. È lì che hanno cominciato tutte le band della nostra generazione, è così che si fa.
Memorie in biancoenero di allora, flash in tempo reale di adesso. Non so nulla dei Måneskin non li ho mai incontrati, solo per caso la loro zia che probabilmente adesso se li starà coccolando perché vive a New York, chissà se ha mai pensato che un giorno… Non sono il solito addetto ai lavori, quindi, che sa tutto quello che è successo dietro le quinte in quest’ultimo anno, solo uno che li ha visti in tv, come tutti.
Ma quando la notte di Sanremo hanno vinto, e nessuno se lo aspettava perché «che vuoi che vinca un gruppo rock seminudo a Sanremo?», qualcosa del ventenne rokkettaro che non ne aveva viste ancora di cotte e di crude, di stelle e di stalle, si è acceso. Ho fatto un post su Fb, più stringato del solito, anzi, telegrafico. «What The Fuck, yeah!» (traducibile con un «Ecchecca**o, sì!»). Ma finalmente! Le giurie social si erano davvero impossessate di Sanremo, e invece di far vincere «le strofe languide di tutti quei cantanti/ con le facce da bambini e con i loro cuori infranti», come cantava Eugenio, avevano vinto dei lontani discendenti del Finardi e della mitologica Musica Ribelle (non sono così sciocco da non sapere che il Movimento milanese degli anni 70 e X Factor non siano nemmeno confrontabili, ma il tiro dei due pezzi – mutatis mutandis, 45 anni dopo, è lo stesso).
Il secondo «WTF, yeah» l’ho ripostato all’Eurofestival, e il 3°, ormai un serial, vedendoli alla tv americana. Che non sarà il ’56 di Elvis né il ’64 di Beatles prima e Stones poi, ma sempre un certo effetto lo fa. I commenti (mai avuti tanti) una spaccatura epocale: di qui «bravo!», e di là «proprio tu!, ma sei fuori di testa?» (sì, ma diverso da loro).
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Ma ragazzi (anzi, «signori e signore» perché ai ragazzi non va spiegato nulla, loro sono in target), abbiamo una band (ripeto, band, non trapper con autotune) che nel giro di nove mesi sbanca a sorpresa Sanremo, spacca a sorpresa (all’ultimo voto, come una rete scudetto al 95’) sul palco dell’Eurofestival, viene chiamata in tutte le tv e i Festival estivi in Europa, fa un miliardo di stream (UN MILIARDO, quello con 9 zeri) con Beggin’ nelle charts alt. rock (il rock alternativo, quello fico dei due), appare al Jimmy Fallon Show con due brani (due, in genere anche per le star è uno) con lui che fa una gag di due minuti per presentarli (la parte più bella: «they’re Italians!» «whaaat??? !!!» dalla spalla fuori campo) e annuncia che apriranno per gli Stones a Las Vegas il 6 novembre (mi sa che Mick in Sicilia nel lockdown un po’ di Rai1 se l’è vista), è candidata agli American Awards e a quelli di Mtv Europe come migliore rock band, e stiamo ancora a discutere?
Di cosa, poi? Nell’ordine, del fatto che: «non sono vero rock, vuoi mettere gli Zeppelin», «ai miei tempi sì che c’era la musica vera, vuoi mettere il prog», «sono raccomandati» (da chi? e a chi? mica siamo al ministero), «chissà chi c’è dietro» (c’è il management e la Sony dietro, chi volete che c’avessero dietro i Beatles e gli Stones e tutti quelli che hanno fatto successo? Gente che sapeva lavorare, mica leoni da tastiera), «quanto ti han dato?» («poco, mi mandi qualcosa tu?»), «domani non se li ricorderà più nessuno» (dai Beatles in poi, non si è detto di ogni artista nuovo?), «non mi fanno emozionare» (lo so, capisco, ci sta pure, ma chiedilo a tuo figlio/a), «non sono patriottico, la musica non ha frontiere» (intanto però al numero 1 non c’andavamo dai tempi di Volare, nel pleistocene).
Ogni era ha i suoi eroi, ha quelli che sanno intercettare i desideri, i sogni, la voglia di evadere, di spaccare tutto, di sentirsi diversi, di essere il più fico, di avere successo, di andare in tv e di avere mille persone (che magari, come per gli Stones, un giorno saranno 100 mila) che cantano e saltano e sudano con te. Questo è il sogno ad occhi aperti di ogni ragazzo che fa musica, guarda le facce dei Måneskin sul palco della Bowery, e capisci. Ascolta Marlena Torna A Casa, Vent’anni o Coraline, magnifici testi per due grandi rock ballads, e capisci perché i Måneskin sono in contatto con la loro generazione (e anche che sanno comporre). La stoffa c’è, dategli tempo (e voi, please, non perdete la testa).
Godere per i Måneskin oggi è come vedere Jacobs che vince i 100 metri quando nessuno se lo aspettava, e i rosiconi pensavano fosse dopato, «ma come è possibile che uno sconosciuto vinca le Olimpiadi?». E come è possibile che una band de Roma, che 4 anni si montava gli strumenti e suonava a Via del Corso in mezzo a gente che neanche si fermava, sia «on top of the world» di colpo, così, senza che nessuno ti abbia avvertito?, che screanzati.
È possibile perché siamo nell’era dei social, in cui il verbo e le note e il look fluido per arrivare in Argentina o in Corea (dove hanno già la loro cover band – in Corea! ) ci metti un click, in cui migliaia di ragazzi/e italiani/e hanno invaso YouTube e Tik Tok e hanno fatto da megafono e hanno persino tirato fuori un brano di tre anni fa, Beggin appunto, e hanno fatto sì che quella cover dei Four Seasons del ’67 diventasse la canzone più ascoltata del pianeta, dall’Australia al Canada.
Non bastano i soldi, non basta la fortuna, non basta il talento, non bastano, pensate, neanche le raccomandazioni. Serve che le stelle siano tutte allineate, che il momento si presenti, e che tu sia abbastanza bravo da essere al posto giusto nel momento giusto.
Carpe diem, come dicevano quelli che a Via del Corso passeggiavano in mezzo alle lire e alle cetre duemila anni fa. Cogli il momento. I Måneskin l’hanno colto. WTF, yeah!

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