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La plasticosi sta colpendo gli uccelli marini

Plasticosi

La plastica è onnipresente ed è diventata così comune da avere un impatto sulla salute di animali e persone. A dimostralo drammaticamente è lo studio “‘Plasticosis’: Characterising macro- and microplastic-associated fibrosis in seabird tissues”, pubblicato recentemente sul Journal of Hazardous Materials da un team di ricercatori australiani e britannici che dimostra che «Gli uccelli marini soffrono di una malattia indotta dalla plastica chiamata "plasticosi"».
Gli scienziati spiegano che «Una nuova malattia è stata descritta negli uccelli marini, ma potrebbe essere solo la punta dell'iceberg. Piuttosto che essere causata da virus o batteri, la "plasticosi" è causata da piccoli pezzi di plastica che infiammano il tratto digestivo. Nel tempo, l'infiammazione persistente provoca cicatrici e deformazioni dei tessuti, con effetti a catena sulla crescita, la digestione e la sopravvivenza».
Uno degli autori dello studio, Alexander Bond, del Bird Group del Natural History Museum britannico, sottolinea che «Mentre questi uccelli possono sembrare sani all'esterno, non stanno bene all'interno. Con questo studio, è la prima volta che il tessuto dello stomaco è stato studiato in questo modo e dimostra che il consumo di plastica può causare gravi danni al sistema digestivo di questi uccelli».
Anche se finora la plasticosi è nota solo per una specie, la berta piedicarnicini (Ardenna carneipe) i ricercatori fanno notare che «La portata dell'inquinamento da plastica significa che potrebbe essere molto più diffusa. Potrebbe anche avere ripercussioni sulla salute umana».
La plasticosi è una malattia fibrotica causata da una quantità eccessiva di cicatrici quando un'area del corpo viene ripetutamente infiammata e impedisce alla ferita di guarire normalmente. Generalmente, il tessuto cicatriziale temporaneo si forma dopo un infortunio e aiuta a rafforzare la riparazione. Ma quando l'infiammazione si ripete ripetutamente, si può formare una quantità eccessiva di tessuto cicatriziale che riduce la flessibilità dei tessuti e provoca il cambiamento della loro struttura. Nel caso della plasticosi, l'irritazione è causata da frammenti di plastica che scavano nel tessuto dello stomaco. Gli scienziati l'hanno scoperto durante le loro attività di ricerca su Lord Howe Island, dove studiano gli uccelli marini da 10 anni. Nonostante l'isola si trovi a 600 chilometri al largo della costa australiana, nel precedente studio “Seabird breeding islands as sinks for marine plastic debris”, pubblicato su Environmental Pollution nel maggio 2021,  il team di ricercatori  aveva precedentemente scoperto che le berta piedicarnicini che nidificano solo a Lord Howe, «Sono gli uccelli più contaminati dalla plastica al mondo, poiché consumano pezzi di plastica in mare dopo averli scambiati per cibo».
Durante lo studio delle berte, i ricercatori hanno scoperto che «La cicatrizzazione del proventricolo, che è la prima camera dello stomaco dell'uccello, è diffusa e causa ferite simili negli uccelli». Una coerenza che ha portato il team a descrivere la plasticosi come una malattia specifica. Sebbene questo termine fosse stato usato per un breve periodo per descrivere la rottura della plastica nelle protesi articolari, il suo utilizzo non è mai diventato comune, quindi il  team ha ritirato fuori il nome per la sua somiglianza con altre malattie fibrotiche causate da materiali inorganici, come la silicosi e l'asbestosi.
I ricercatori evidenziano che «Finora, è noto che la plasticosi colpisce solo il sistema digestivo, ma ci sono suggerimenti che potrebbe potenzialmente colpire altre parti del corpo, come i polmoni».
Le cicatrici causate dalla plasticosi influenzano la struttura fisica del proventricolo. Con l'aumentare dell'esposizione alla plastica, il tessuto diventa gradualmente più gonfio fino a quando non inizia a rompersi. Bond aggiunge: «Le ghiandole tubulari, che secernono composti digestivi, sono forse il miglior esempio dell'impatto della plasticosi. Quando la plastica viene consumata, queste ghiandole diventano gradualmente più rachitiche fino a perdere completamente la loro struttura tissutale ai massimi livelli di esposizione. La perdita di queste ghiandole può rendere gli uccelli più vulnerabili alle infezioni e ai parassiti e influire sulla loro capacità di assorbire alcune vitamine. Le cicatrici possono anche indurire lo stomaco e renderlo meno flessibile, il che lo rende meno efficace nella digestione del cibo».
Nei giovani uccelli e nei pulcini, questo può essere particolarmente dannoso poiché i loro stomaci non sono in grado di contenere tanto cibo. Alcuni studi hanno rilevato che ben il 90% dei giovani uccelli contiene almeno un po' di plastica che era presente nel cibo fornito loro dai genitori. Portato all’estreme conseguenze, questo può far morire di fame i pulcini perché i loro stomaci si riempiono di plastica che non possono digerire.
E’ probabile che la plasticosi sia anche uno dei fattori che influenza il modo in cui la plastica influisce sulla crescita delle giovani berte. Lo studio ha scoperto che «La lunghezza dell'ala è legata alla quantità di plastica nel loro corpo, mentre il numero di pezzi di plastica è associato al peso complessivo dell'uccell»o.
Mentre gli uccelli consumano naturalmente altri oggetti inorganici, come le pietre pomice, il team ha scoperto che «Questo non provoca cicatrici. Invece, le pietre possono aiutare a scomporre la plastica in frammenti più piccoli che causano ulteriori danni».
Bond conclude: «Il nostro team di ricerca ha già esaminato in che modo le microplastiche influiscono sui tessuti. Abbiamo trovato queste particelle in organi come la milza e il rene, dove erano associate a infiammazione, fibrosi e a una completa perdita di struttura. Al momento, la plasticosi è nota solo nelle berte piedicarnicini ma, data la quantità di inquinamento da plastica è ragionevole supporre che anche altre specie siano colpite da questa malattia. È uno dei tanti modi in cui la plastica sta influenzando la salute degli animali in tutto il pianeta, compresi i cambiamenti nella chimica del sangue e le alterazioni dell'equilibrio degli ormoni».
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Il valore economico della caccia italiana

Valore della caccia

Secondo lo studio “Il Valore dell’Attività Venatoria in Italia”, curato da Nomisma e presentato ieri dalla Federazione Italiana della Caccia in Senato,  il b calore ambientale della caccia in Italia è di un miliardo: «708 milioni di euro di valore naturale generati dal mantenimento delle aree umide, degli habitat e dalla tutela delle aree naturali protette resi possibili grazie a finanziamenti e gestione del mondo venatorio. 20 milioni di euro di valore agricolo derivanti dai risarcimenti agli agricoltori per danni da selvatici e/o per misure di prevenzione. 75 milioni di euro di risparmi derivanti dalla riduzione dell’impronta ecologica e idrica prodotte dalla filiera della carne».  E’ evidente il tentativo di far passare i danni all’agricoltura per risorse. La “pronta caccia” per gestione ambientale e il goffo tentativo di contrapporre la carne sostenibile di selvaggina a quella insostenibile degli animali di allevamento. Il tutto assicurando che «Il mondo venatorio, da tempo impegnato in un percorso di rafforzamento del proprio ruolo in chiave più etica e sostenibile, è in grado di generare un valore di circa 8,5 miliardi di euro annui per la collettività in termini economici e ambientali».
Ma leggendo attentamente lo studio/rapporto/sondaggio (e distinguendo le pere dalle mele mischiate ad arte) viene fuori che il valore economico- sociale della caccia è in realtà molto ridotto e che i cacciatori spendono la grandissima parte di quelli che si vorrebbero far passare per generosi investimenti economico-ambientali  solo per armi, munizioni, abbigliamento, auto, cani, vacanze di caccia, ecc. e che, per difendere la carne di selvaggina, si mostra in realtà la crescita di contrarietà agli allenamenti intensivi soprattutto da parte della stessa fetta di opinione pubblica che è contraria alla caccia.
Questo dei cacciatori di selvaggina fatta passare per carne “sana” e poco conosciuta come valida alternativa alla carne “industrializzata” è un cambiamento di immagine che i cacciatori danno di sé stessi: si passa dal cacciatore sportivo e disinteressato a rifornire sottobanco i ristoranti (attività spesso attribuita solo ai bracconieri, anche se la realtà è ben diversa) al cacciatore del nuovo corso politico italico che si fa fornitore del mercato della carne per risolvere il problema degli ungulati, un problema che ha creato una politica venatoria scellerata di immissioni e allevamenti che non viene messa in dubbio né dallo studio né dalle nuove politiche del governo Meloni-Lollobrigida-Pichetto Fratin. Il problema è che rifornire una filiera di mercato economicamente sostenibile bisogna mantenere il problema – cinghiali ad esempio – che si dice che sarà risolto con la caccia. Un cane che si morde la coda della sostenibilità sociale e ambientale.
Ma si parte da una mutazione dei consumi verso un minor consumo di carne – evidente anche nello studio -  per   rilevare che «Tra i 45 milioni di maggiorenni che si nutrono di carne il 62% consuma anche selvaggina. Nella maggioranza dei casi si tratta di un consumo che avviene prevalentemente fuori casa (nel 39% dei casi al ristorante). Queste interessanti prospettive per la filiera alimentare della selvaggina sono rafforzate dal fatto che ben 23 milioni di consumatori italiani (il 51%) si dichiara pronto ad acquistarla per consumo domestico se fosse di più facile reperimento. Gli intervistati, inoltre, risultano particolarmente attenti e sensibili nell’attuare comportamenti sostenibili nelle proprie scelte alimentari. Rispetto alla carne acquistata, il 72% ritiene molto importante il fatto che presenti meno rischi per la salute e il 70% che provenga da una filiera tracciabile (sic!). Inoltre, il rispetto del benessere degli animali e dell’ambiente è ritenuto condizione imprescindibile dal 64% del campione, così come il 61% degli intervistati è attento al fatto che la carne non provenga da allevamenti intensivi. Il 47% considera importante che la carne acquistata sia naturale e provenga da animali selvatici e non di allevamento».
Lo studio, che divide generosamente a metà gli italiani tra contrari e favorevoli alla caccia (altri sondaggi e studi danno una schiacciante percentuale di contrari), si lamenta però che sulla caccia «Di base è presente una forte disinformazione tanto che ben 2 italiani su 3 si dichiarano non sufficientemente informati sulla tematica e solo 1 intervistato su 10 afferma di conoscere appieno norme e disposizioni che ne regolano l’operato. Rispetto ai soggetti dai quali gli italiani vorrebbero ricevere informazioni, il 60% degli intervistati individua gli enti pubblici come realtà autorevole e adeguata a fornire tali informazioni». Peccato che gli enti pubblici facciano spesso disinformazione, come dimostrano le dichiarazione carpite al presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana durante un incontro coi cacciatori in campagna elettorale.
Ma, per quanto edulcorato, anche lo studio/ricerca/sondaggio dice che gli italiani sono contrari alla caccia e che non ci vedono tutte queste ricadute economiche e sociali che vengono evidenziate da Federcaccia.
Ma Marco Marcatili, responsabile sviluppo di Nomisma, la vede in tutt’altro modo è perllui il bicchiere venatori è più chre mezzo pieno: «Per la prima volta il sistema della caccia  decide di aprirsi alla società, ascoltare la comunità e avviare un dialogo aperto e trasparente con il mondo istituzionale, agricolo e ambientale. Il lavoro di Nomisma – spiega Marcatili – è, da un lato, rassicurante perché conferma la non ostilità alla caccia, anzi una inedita apertura della comunità a inserire più selvaggina sostenibile nella propria alimentazione; dall’altro lato, però, induce la Federazione Italiana della Caccia a una responsabilità aumentata in termini di maggiore informazione e disponibilità alla caccia etica e sostenibile. Non sono molte in Italia le attività che danno un contributo annuale di 1 miliardo in termini ambientali, l’impegno in questa direzione consentirà di traguardare opportunità derivanti dai nuovi scenari climatici, come il presidio dei territori fragili e il rafforzamento delle filiere nazionali sotto il profilo alimentare e occupazionale».
Ma Nomisma ammette che dalla lettura dei risultati e delle interviste emergono anche aree di miglioramento meritevoli di attenzione.
Come sia nato il sondaggio lo spiega bene il presidente nazionale di Federcaccia Massimo Buconi: «Abbiamo deciso di affidare a Nomisma un primo bilancio ambientale dell’attività venatoria in Italia al fine di misurare il reale valore generato per Comunità e Ambiente e indagare il percepito delle famiglie italiane sul nostro operato. Siamo certi che favorire una migliore comprensione delle dinamiche che regolano i rapporti tra caccia e società possa concorrere a un giusto riconoscimento del nostro ruolo e della nostra attività, alla luce degli effetti positivi derivanti da una caccia etica e sostenibile. I risultati mostrano un sistema importante già in essere testimoniando il nostro potenziale ruolo di attori nel processo di transizione ecologica, ma evidenziano alcune aree di miglioramento, su cui strutturare un percorso di confronto con fruitori, stakeholders e Istituzioni. Intendiamo proseguire in questa direzione di dialogo, in modo costante e incisivo».
E, dopo le reiterate richieste di allungare i calendari venatori, sparare a specie protette, rigettare le normative europee, consentire la caccia nei Parchi Nazionale e nelle ZSC/ZPS, dopo che l’Italia risulta tra i peggiori pasesi del mondo per bracconaggio/abbattimento dell’avifauna migratoria.., è abbastanza spericolato che lo studio – sulla base di una senzazione di cittadini dei quali si ammette la scarsa conoscenza della materia -  nomini i cacciatori «“Sentinella del territorio” (o più tecnicamente “citizen as sensor”), in quanto soggetti volontari coinvolti nei programmi di monitoraggio delle risorse naturali per migliorarne la gestione e contribuire alla ricerca. Così come viene evidenziato il contributo che il mondo venatorio è in grado di rendere alla collettività attraverso programmi di gestione faunistica, tutela ambientale e sorveglianza sanitaria esercitata da cacciatori volontari». E qui il “successo” del ruolo svolto dalla caccia consumistica è evidente con la proliferazione dei cinghiali ibridati, la diffusione della peste suina, e l’immissione di specie alloctone e/o ibridate per la pronta caccia che hanno provocato l’estinzione locale di specie autoctone.
E, viste  le proposte fatte fin qui dal mondo venatorio su calendari, aree protette, caccia ai grandi carnivori viene davvero da pensare che ci sia bisogno di ascoltare chi ritiene necessario di «Sostenere una “caccia etica”, che non solo rispetti i regolamenti ma, soprattutto, favorisca il contenimento e il controllo delle attività illegali, promuovendo e consolidando un ruolo attivo del cacciatore nella tutela di ambiente e habitat. Altro ambito di miglioramento è rappresentato dalla sensibilizzazione del sistema venatorio nel suo complesso sulle azioni di contenimento degli impatti ambientali e su un maggiore sviluppo di un modello di caccia che sia in equilibrio con la biodiversità. A livello organizzativo e gestionale, infine, il settore venatorio italiano può mirare a una dimensione adattiva che permetta di modulare prelievi di selvaggina sulla base di un principio di sostenibilità, potenziando il monitoraggio e la programmazione dei piani di caccia e di controllo. Ciò concorrerebbe a consolidare la compatibilità tra attività venatoria e conservazione della fauna e dell’ambiente».
Ma la caccia etica – con buona pace dello studio Nimisma - Federcaccia - non è certamente quello di cui i cacciatori discutono con politici come Fontana.
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Le popolazioni di cigni che vivono nelle aree protette crescono 30 volte più velocemente

popolazioni di cigni che vivono nelle aree protette

I cigni selvatici (Cygnus cygnus) passano gli inverni nel Regno Unito e le estati in Islanda e, secondo lo studio “Demographic rates reveal the benefits of protected areas in a long-lived migratory bird”, pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences da un team di ricercatori britannici, islandesi e statunitensi «All'interno delle riserve naturali Le popolazioni di cigni selvatici crescono 30 volte più velocemente».
Il nuovo studio ha esaminato 30 anni di dati sui cigni in 22 siti del Regno Unito, 3 dei quali sono riserve naturali gestite dal Wildfowl and Wetlands Trust (WWT) e ne è emerso che «I tassi di sopravvivenza erano significativamente più alti nelle riserve naturali e la crescita della popolazione era così forte che molti cigni si sono trasferiti in siti non protetti». Sulla base di questi risultati, il team di ricerca, guidato dalle università di Exeter e Helsinki, prevede che «Entro il 2030, le riserve naturali potrebbero contribuire a raddoppiare il numero di cigni selvatici che svernano nel Regno Unito».
In realtà, i cigni che vivono nelle riserve naturali hanno una probabilità annuale di riproduzione inferiore, ma i ricercatori sottolineano che «Questi uccelli hanno più opportunità di riprodursi nel corso della vita e produrranno in media più prole».
I risultati dello studio evidenziano «Il grande effetto che le riserve naturali possono avere sulla conservazione, anche quando le aree protette sono relativamente piccole e vengono utilizzate solo durante brevi periodi del ciclo di vita di una specie».
Il principale autore dello studio, Andrea Soriano-Redondo, del Centre for ecology and conservation dell’università di Exeter e dell’Helsingin yliopisto , sottolinea che «Le aree protette sono lo strumento principale utilizzato per arginare il declino della biodiversità, e c'è un crescente consenso sul fatto che il 30% della superficie del pianeta dovrebbe essere protetto entro il 2030. Tuttavia, l'efficacia delle aree protette non è sempre chiara, soprattutto quando le specie si spostano per tutta la durata della loro vita tra aree protette e non protette. I nostri risultati forniscono una forte evidenza che le riserve naturali sono estremamente utili per i cigni selvatici e potrebbero far aumentare notevolmente il loro numero nel Regno Unito».
Il dataset ultratrentennale utilizzato per realizzare lo studio, includeva osservazioni di oltre 10.000 cigni selvatici, il team di ricerca ha costruito un modello di popolazione che prevede che i numeri invernali potrebbero raddoppiare entro il 2030.
Un altro autore dello studio, Richard Inger, un collega di Soriano-Redondo, aggiunge che «Il tasso di crescita annuale della popolazione all'interno delle riserve naturali è stato del 6%, rispetto allo 0,2% al di fuori delle riserve. Questo aumento della popolazione non è limitato alle riserve naturali: ha creato una maggiore densità di popolazione, che ha portato alcuni cigni a trasferirsi in aree non protette. I giovani cigni erano più propensi a farlo, il che significa che i benefici delle riserve naturali si estendono anche ad altre aree».
L’autore senior dello studio, Stuart Bearhop dell'università di Exeter, conferma che «Nel complesso, il nostro studio dimostra gli enormi vantaggi della protezione localizzata per le specie animali altamente mobili. Dimostra anche che misure mirate durante i periodi chiave del ciclo di vita possono avere effetti sproporzionati sulla conservazione».
Le riserve naturali del WWT comprese nello studio attuano una serie di misure per aiutare i cigni a svernare, tra le quali recinzioni anti-volpi, cibo supplementare, siti di riposo gestiti e divieti di caccia e David Pickett, center & reserve manager del WWT Caerlaverock Wetland Centre, conclude: «Questa ricerca mostra come i rifugi sicuri per la fauna selvatica delle zone umide, come quelli del WWT Caerlaverock, Welney e Martin Mere, possono aiutare una specie a sopravvivere e avere successo quando il loro siti tradizionali sono sotto minaccia. Molti uccelli selvatici fanno affidamento sui nostri siti per cibo e riparo e ci impegniamo a creare e ripristinare sempre più di questi habitat sani delle zone umide dei quali il Regno Unito ne ha persi così tanti nella nostra storia recente».
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Le sorprendenti somiglianze tra gli strumenti di pietra dei primi umani e delle scimmie

somiglianze tra gli strumenti di pietra dei primi umani e delle scimmie

Lo studio “Wild macaques challenge the origin of intentional tool production”, pubblicato su Science Advances da un team di ricercatori del Max-Planck-Institut für evolutionäre Anthropologie e della Chulalongkorn University di Bangkok e Saraburi, ha scoperto in Thailandia artefatti prodotti da scimmie che assomigliano a strumenti di pietra, che storicamente sono stati identificati come realizzati intenzionalmente dai primi ominidi. I ricercatori tedeschi sottolineano che «Fino ad ora, si pensava che gli strumenti di pietra affilati rappresentassero l'inizio della produzione intenzionale di strumenti di pietra, una delle caratteristiche distintive e uniche dell'evoluzione degli ominidi. Questo nuovo studio sfida le convinzioni di lunga data sulle origini della produzione intenzionale di strumenti nel nostro stesso lignaggio».
La ricerca si basa su nuove analisi degli strumenti di pietra usati dai macachi cinomolghi o dalla coda lunga (Macaca fascicularis) nel Phang Nga National Park in Thailandia.  I ricercatori spiegano che «Queste scimmie usano strumenti di pietra per aprire noci dal guscio duro. In questo processo, le scimmie spesso rompono i loro martelli e le loro incudini. L’assemblaggio di pietre rotte che ne risulta è consistente e diffuso in tutto il territorio. Inoltre, molti di questi manufatti presentano tutte le stesse caratteristiche comunemente utilizzate per identificare strumenti di pietra realizzati intenzionalmente in alcuni dei primi siti archeologici dell'Africa orientale».
Il principale autore dello studio, Tomos Proffitt del Max-Planck-Institut für evolutionäre Anthropologie, evidenzia che «La capacità di creare intenzionalmente scaglie di pietra affilate è vista come un punto cruciale nell'evoluzione degli ominidi, e capire come e quando ciò sia avvenuto è una domanda enorme che viene tipicamente indagata attraverso lo studio di manufatti e fossili del passato. Il nostro studio dimostra che la produzione di utensili in pietra non è esclusiva degli esseri umani e dei nostri antenati. Il fatto che questi macachi utilizzino strumenti di pietra per lavorare le noci non è sorprendente, poiché usano anche strumenti per accedere a vari molluschi. Ciò che è interessante è che, così facendo, producono accidentalmente una loro documentazione archeologica sostanziale che è in parte indistinguibile da alcuni manufatti degli ominidi».
Confrontando i frammenti di pietra prodotti accidentalmente dai macachi con quelli di alcuni dei primi siti archeologici umani, i ricercatori sono stati in grado di dimostrare che «Molti dei manufatti prodotti dalle scimmie rientrano nella gamma di quelli comunemente associati ai primi ominidi». Il co-autore principale dello studio, Jonathan Reeves, sottolinea: «Il fatto che questi artefatti possano essere prodotti attraverso la rottura di noci ha implicazioni per la gamma di comportamenti che associamo a scaglie taglienti nella documentazione archeologica...»
Gli strumenti di pietra dei macachi recentemente scoperti forniscono nuove intuizioni su come i nostri antenati abbiano cominciato a utilizzare la prima tecnologia e che la sua origine potrebbe essere stata collegata a comportamento simile a quello della rottura delle noci che potrebbe essere molto più antico dell'attuale primo dato archeologico conosciuto.
Lydia Luncz, autrice senior dello studio e capo del Forschungsgruppe Technologische Primaten del Max-Planck-Institut für evolutionäre Anthropologie, conclude: «Spaccare noci usando martelli e incudini di pietra, in modo simile a quello che fanno oggi alcuni primati, è stato suggerito da alcuni come un possibile precursore della produzione intenzionale di utensili in pietra. Questo studio, insieme a quelli precedenti pubblicati dal nostro team, apre le porte alla possibilità di identificare una tale firma archeologica in futuro».
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