LA RIDICOLAGGINE DEI TIFOSI GEOPOLITICI

Sono nato a Napoli ma ho passato i primi quindici anni della mia vita in un paesino della Valtiberina. E tutte le volte che tornavo al Sud a trovare i parenti, rimanevo sbigottito nel vedere la differenza tra quello che all’epoca credevo essere un piccolo centro e una metropoli. Fin quando non scoprii che Napoli, in realtà, con i suoi 117,27 km² è appena più grande di quel borgo. Tuttavia Napoli, di abitanti, ne ha novecentomila contro i quindicimila del paesino. E questo è niente, perché l’agglomerato periurbano, che si compone anch’esso di centri piccolissimi fisicamente ma densissimi (Portici, San Giorgio a Cremano, Casoria, Pozzuoli) che fanno arrivare la popolazione a due milioni di persone che ovviamente poi si riversano a Napoli, contribuisce a mandare in sovraccarico una città che potrebbe contenere al massimo 100.000 abitanti e ne contiene invece un paio di milioni.
Ovviamente, tutto questo non è privo di conseguenze. In primo luogo pratiche: un traffico allucinante che per percorrere gli 8 km che separano casa mia da quella dei miei, mi fa impiegare un tempo di gran lunga superiore a quello che impiegherei per arrivare a Salerno; un inquinamento acustico e atmosferico che ci rende, in tal senso, una delle città più inquinate d’Europa; l’annoso problema dei rifiuti che ad intervalli imprevedibili esplode; fino ad arrivare al sistemico problema della criminalità organizzata, che da noi si chiama camorra e che, in realtà, è peculiare di ogni città dove troppe persone occupano poco spazio e poche risorse. La criminalità organizzata ha, difatti, una valenza riorganizzativa e redistributiva. E’ tanto più forte in luoghi socialmente squilibrati. Dove invece la crescita avviene in armonia, semplicemente non esiste. Infatti, quando proprio alcuni camorristi inviati al confino in quel paesino toscano dove vivevo, si misero a vessare alcuni commercianti della zona, questi ultimi si misero assieme e andarono a devastare le case e le automobili dei malfattori, costringendoli alla fuga. E il motivo è ovvio: non c’era certo bisogno della camorra in un paesino dove le risorse bastavano per tutti e dove dunque si viveva in armonia.
Anche per questo, le continue narrazioni del fenomeno criminale mi lasciano totalmente indifferente, specie quando sfociano nel moralismo. La criminalità organizzata non è fatta da brutti ceffi che si svegliano di buon mattino chiedendosi, mentre si grattano la testa, a chi sparare. Semplicemente, la camorra, la mafia, la yakuza, la triade, riempiono vuoti e soddisfano esigenze che stati e comuni non possono affrontare, a meno di non farsi odiare, a meno di non diventare essi stessi criminali, tant’è che assai spesso stato e delinquenti finiscono pure per mettersi d’accordo. Affrontano, in sostanza, un problema di sovrappopolamento. Troppe persone che hanno esigenze che le risorse locali non possono contenere.

Pensando a quanto sopra, sono indifferente anche ai dettagli di quanto accade tra russi e ucraini e dunque alle tifoserie da stadio che imperversano per i social, perché non voglio abbandonare il punto di vista sistemico della questione: al mondo c’è un problema di sovrappopolamento di cui la crisi ucraina è solo l’ennesimo anello. E che, anche risolto da una pace, otterrà solo di scopare la polvere sotto il tappeto. Se un domani Putin e Zelensky dovessero decidere di fare mignolino mignolino, non sarà certo perché Gennaro Esposito o Ambrogio Brambilla mettono una bandierina ucraina sui social. Né tantomeno esistono buoni e cattivi. Credo di averlo già detto – e mi scuso dunque per la ripetitività – che considero la politica internazionale qualcosa di simile a Gomorra la fiction: un luogo dove non conta alcuna legge, se non quella dell’interesse. Naturalmente poi ognuno ha diritto alle sue simpatie e idiosincrasie personali, ma simpatizzare per Genny Savastano ha un senso solo se un minuto dopo non si trova troppo crudele Ciro l’Immortale o la famiglia Levante. Perché tutti, in quella fiction, sono crudeli. Tutti mentono, ingannano, tradiscono. E quelli che lo fanno di meno, sono non a caso quelli che muoiono per primi.
Personalmente, sia per legami affettivi con la Russia che per stima personale per il politico, ho da sempre in Putin un modello di riferimento. Ma senza idealizzarlo e senza dimenticare che il suo ispido pelo sullo stomaco, grande quanto l’Ucraina, è fiorito in un potentissimo e pericolosissimo servizio segreto come il KGB che, come ogni ambiente frequentato da spie, era una maleodorante fogna ove avvenivano le peggiori sozzerie. Parimenti è anche sciocco chiedersi chi vincerà questa guerra. Non si sa e non può saperlo nessuno. Fino a qualche giorno fa, avrei detto la Russia. Oggi la do meno per scontata anche perché, imprevedibilmente, l’Ucraina sta mostrando maggiore resistenza di quanto ci si potesse aspettare. E anche se la Russia riuscisse, come è probabile, a piegare Kiev, resta la domanda successiva tipica di ogni vittoria: “E poi?”. Se uno affronta una malattia e riesce a batterla, ma ne ricava conseguenze devastanti per il fisico tali da esporlo ad una recidiva, non è un guarito ma un sopravvissuto. I russi in teoria dovrebbero vincere senza grossi problemi. Ma come gestiranno un territorio enorme e una popolazione di quaranta milioni di poveracci che, ridotti con senza niente, diventeranno mercenari americani, impantanando la Russia in un Vietnam? Dunque fare il tifo per gli uni o per gli altri, non ha senso. Sia i russi che gli ucraini hanno storie piene di sangue da rinfacciarsi vicendevolmente. Entrambi perseguono disegni e interessi che non hanno nulla a che fare con l’universo petaloso che una certa sinistra amerebbe rappresentare. Se arriveranno alla pace non sarà certo perché uno dei due si è messo la mano sulla coscienza, ma perché troveranno conveniente arrivarci.
Interessarci di questo conflitto può avere un senso nel momento in cui, dalla vittoria dell’una o dell’altra parte, dipendesse il futuro del nostro paese. Ma per l’Italia, comunque finisca, non cambierà nulla. Noi siamo un piccolo paese che non conta nulla. Abbiamo decine di basi straniere sul nostro territorio, non abbiamo una moneta sovrana, abbiamo un debito enorme che ci sconsiglia qualsiasi iniziativa individuale.
Se Putin si mantiene in sella, le conseguenze saranno devastanti per l’Occidente, perché a quel punto a livello globale scatta il tana liberatutti: la Cina si ripiglierà Taiwan e tanti altri territori, l’India magari ricomincerà a bisticciare col Pakistan, la stessa Israele – dipendente in tutto e per tutto dagli americani – finirebbe nel mirino dell’Iran e così via, ma soprattutto a quel punto darebbe il via alla sua vendetta, che avrebbe devastanti conseguenze soprattutto sul piano energetico. Se, viceversa, Putin cadesse, cederebbe un contrappeso importantissimo, con tutte le conseguenze del caso, già viste quando trent’anni fa crollò l’URSS. Evento di cui anche nell’anticomunismo europeo si gioì molto meno di quanto si è sempre dato a vedere.

La cosa che si fa fatica a capire, mentre, aizzati da quella immonda, oscena cosa che sono i media mainstream, urliamo cori da stadio, è che il conflitto tra russi e ucraini non è una semplice disputa territoriale, ma solo l’ennesima spia di un sovrappopolamento globale che vede le grandi nazioni sempre più in difficoltà nel gestire le risorse e dunque sempre propense ad espandersi, col risultato di arrivare inevitabilmente, prima o poi, a scontrarsi. Solo che la presenza di armi atomiche in grado di ritorcersi contro chi le lancia, rende molto più difficile menare le mani, cosa che fino a cento anni fa si sarebbe verificata senza troppi rimpianti. Dopodiché le strade si biforcano tra chi crede che questo problema si possa affrontare trasformando la società in un avamposto LGBT come si fa in Occidente oppure vietando di fare troppi figli come fa la Cina; e chi invece più razionalmente sa che questi squilibri di solito si risolvono solo con guerre dagli esiti del tutto incerti e casuali. La battaglia di Waterloo che segnò la fine di Napoleone, stava in realtà per essere vinta. A cambiare le carte in tavola furono le condizioni atmosferiche. E la stessa cosa accadrà anche qui. Esistono i pronostici. E quelli dicono tutti che la Russia, al netto delle già descritte incognite del day after, è ampiamente favorita. Dopodiché, quando si scende in campo, anche un paese che in teoria parte battuto, può acchiappare la giornata storta dell’avversario e fare la partita perfetta. Gli spagnoli nel Cinquecento con la loro invencible armada, pensarono di far un sol boccone degli inglesi e invece ne ricavarono una solenne mazziata. Guai a dare per scontati gli esiti di una guerra.
Personalmente, non credo che l’apocalisse arriverà con questo conflitto. Che è solo l’esplosione di un problema annoso, che dura da trent’anni.
Il vero nocciolo della questione è il fallimento del mondo. Economico ad Occidente (perché gira un’enorme massa di carta troppo superiore rispetto alla quantità di ricchezza reale, e aumenta il divario tra chi ha troppo e chi troppo poco) e culturale ad Oriente, dove le classi dirigenti locali riescono a creare società ordinate e stabili solo trattando gli esseri umani come api di un alveare, da poter schiacciare con una semplice scarpata, a meno che non si rassegnino a marciare agli ordini dell’autocrate di turno. E l’uomo non è fatto solo di carne ma anche di spirito. Non gli si può raccontare che la sua vita debba ridursi a fare il parassita di stato, senza avere sogni, ideali, aspirazioni. Occorre a tutti prendere atto che il mondo è fallito. E non certo da oggi ma da tantissimi anni. Il covid e la guerra in Ucraina sono solo due anelli di una lunga catena che nasce dall’Ottocento e che si sta spezzando.
I tifosi di Putin e di Zelensky parlano del nulla. E l’unica magra consolazione è che questo chiacchiericcio, nell’economia del conflitto, conta meno di zero.

FRANCO MARINO
Fonte: Il Detonatore.it

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