Cosa dimostrano le proteste in Iran. L’opinione di Quintavalle
Di fronte agli eventi che avvengono in paesi lontani e con i quali ha scarsa dimestichezza, l’analista di affari internazionali deve affrontare un duplice sforzo: il primo è raccogliere il maggior numero di informazioni possibili, il secondo è vagliarle sforzandosi di depurarle dall’ottica tipicamente occidentalista con cui queste ci arrivano, preconfezionate con una chiave di […]
Di fronte agli eventi che avvengono in paesi lontani e con i quali ha scarsa dimestichezza, l’analista di affari internazionali deve affrontare un duplice sforzo: il primo è raccogliere il maggior numero di informazioni possibili, il secondo è vagliarle sforzandosi di depurarle dall’ottica tipicamente occidentalista con cui queste ci arrivano, preconfezionate con una chiave di lettura, che anche inconsciamente condiziona il punto di vista più imparziale. Questo anche perché la lingua fondamentale dell’ambiente è l’inglese – che immaginiamo essere una lingua franca, quasi un moderno esperanto o latinorum – ma che è invece lo strumento cognitivo principale di una particolare cultura, quella anglosassone, la quale, pur se ambisce o pretende di rappresentare l’universalità concettuale in termini di diritti umani, è invece frutto, soprattutto nell’elaborazione dei neologismi, di un dibattito tutto interno a essa, in particolare agli Stati Uniti.
La prova del nove dell’affermazione di cui sopra è l’Iran. Non sappiamo che esito avranno le rivolte in corso, anzi dobbiamo sollecitare ancora una volta il mondo dei media a non aspettarsi, da noi analisti, virtù profetiche che non abbiamo. Quello che
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