Ogni anno il 17 gennaio Viterbo ricorda i terribili bombardamenti che devastarono la città.
17 gennaio 1944 l’apocalisse!
Poi, è arrivato il grande, terribile bombardamento del 17 Gennaio del 1944.
Non è stato l’unico, ma tra i più devastanti, fu senza alcuna pietà.
Gli aeroplani in 5 minuti riuscirono a buttarci addosso 90 tonnellate di bombe. Una vera apocalisse!
Un bombardamento che sarà ricordato negli annali della storia.
Era il giorno di Sant’Antonio, una giornata limpida, piena di sole, bellissima, sembrava quasi di stare in piena estate, quando sentimmo suonare l’allarme, ma quasi nessuno diede troppa importanza, tanta era l’abitudine.
Del resto lo sentivamo suonare due, tre volte il giorno, a volte anche di più; gli aerei in genere passavano e proseguivano, magari per andare a bombardare Attigliano, Terni.
La gente si era ormai abituata, sia all’ululato delle sirene, sia al passaggio degli aerei, e continuava a sbrigare le proprie faccende quotidiane.
Quando si sentivano i quadrimotori passare, le cosiddette fortezze volanti, chi si trovava dentro le proprie case addirittura si affacciava alle finestre per guardare, così pure faceva chi stava per la strada; si alzavano gli occhi al cielo e si guardava quasi ammirati il passaggio di questi enormi uccelli metallici, sembravano d’argento con il sole che batteva loro sopra.
Ma non restammo affascinati quel giorno, il 17 gennaio 1944.
Erano circa le 13 e15, quando, con gli occhi rivolti al cielo per guardare questi “uccelli d’argento” vedemmo scendere qualcosa dagli aerei, sembravano palloncini, ma non facemmo in tempo a pensare: ”Guarda, buttano i palloncini!” che si scatenò l’inferno.
Iniziammo a sentire gli scoppi delle bombe incessanti, la contraerea da terra iniziò a sparare all’impazzata. La giornata da assolata, limpida e serena che era, all’improvviso si trasformò.
Di colpo, sembrava che fosse scesa una fitta nebbia, quasi non si vedeva più niente, la polvere delle macerie che si sollevava da terra si mischiò con il fumo delle bombe che esplodevano.
Dal Molino Medori all’inizio di Viale Trieste, vicino al passaggio a livello e anch’esso colpito, si sollevarono quintali di farina che si propagarono nell’aria.
In un attimo Viterbo era ammantata di polvere, farina e fumo. Anche il sole non riusciva a penetrare in quella fitta nebbia anomala.
Colpirono anche la chiesa di San Francesco, la stazione di pullman Garbini, quella ferroviaria della Roma Nord. In mezzo a questo caos, le sirene continuavano a urlare.
Presto m’infilai la fascia dell’UNPA e corsi insieme a mio fratello verso piazza della Rocca per vedere cosa avremmo potuto fare; quello che si presentò ai nostri occhi, fu tremendamente indimenticabile”.
Di nuovo Francesco s’interrompe per l’emozione, gli occhi sono pieni di lacrime, mi chiede scusa per l’interruzione. Anche io sono molto impressionata e commossa dalle sue parole. Quasi mi sembra di vedere queste scene apocalittiche che lui racconta. Poi di nuovo le sue parole.
“Ci scuotemmo dallo smarrimento iniziale, poi cominciammo a prestare i primi soccorsi.
Era difficile non farci prendere dall’emozione, soprattutto furono le urla, gli strilli della gente che ci straziavano il cuore, chi urlava di dolore perché era ferito, chi chiedeva aiuto perché incastrato da una trave o altro, chi cercava il proprio caro, un figlio, il marito, la mamma.
Ovunque c’erano pezzi umani sparsi tra le macerie. Il rosso del sangue formava macchie sinistre sul bianco dei calcinacci.
Con le mani iniziammo a scavare freneticamente, soprattutto dove sentivamo un lamento, una voce che chiedeva soccorso. Le nostre mani si spellavano, ferite dai sassi, ma noi non sentivamo nessun dolore, dovevamo e volevamo salvare tutti.
Tutta la popolazione, quella rimasta illesa, corse a dare una mano per tirare fuori più persone possibili da quelle montagne di macerie. Civili, Militari, Pompieri, Croce Rossa, infermieri, tutti accorsero.
Anche i contadini arrivarono con i loro carretti per aiutare a caricare i resti umani.
Seppure con raccapriccio, raccolsero dove una gamba, dove un braccio, i morti erano sparsi ovunque. I feriti, caricati sopra i mezzi di fortuna, cercavamo di portarli il più presto possibile all’ospedale.
Un’altra cosa m’impressionò tantissimo, sotto il cancello del garage Garbini riconobbi un noto veterinario, il dott. Antonelli con la figlia, rimasto schiacciato dal pesante cancello di ferro. Era morto e deturpato sul viso, i vetri degli occhiali, ormai rotti, gli si erano conficcati dentro i bulbi oculari.
alle ore 13, e 15’…..
Una mamma urlava straziata, perché non riusciva a trovare il figlio.
”Un attimo fa, lo tenevo per mano! Non c’è più, non c’è più. Dov’è mio figlio! Vi prego aiutatemi!”
Passava da un mucchio di macerie all’altro, gridava, chiedeva aiuto, senza darsi pace.
Noi ci mettemmo a scavare ancora più freneticamente, spostavamo pietre, mobili rotti, materassi, nella disperata speranza di poterglielo ritrovare.
Quando un volontario timidamente si avvicina alla povera donna e le domanda se per caso quel ragazzo ormai esanime non fosse il figlio che tanto cercava.
La donna si chinò su di lui.
Sì, quel giovane dal petto squarciato, con il sangue che continuava a uscire, tingendo di rosso la maglietta strappata e il bianco delle macerie, era suo figlio, ma lei, pur avendolo visto, nella disperazione, non era riuscito a riconoscerlo.
Lo sollevò da terra, se lo strinse forte sul suo petto, lo chiamava, lo implorava di non morire, di rispondere ai richiami, di non lasciarla, ma l’anima del ragazzo era già in volo.
Quella mamma non accettava di aver perso suo figlio e continuava a scuoterlo, lo supplicava, lo chiamava.
Solo quando vide anche la sua camicetta bianca macchiata di sangue, del sangue dell’amato figlio, capì che ormai era morto, che non avrebbe più sentito la sua adorata voce.
Un urlo ancora più straziante si levò nell’aria, il dolore di quella mamma ci entrò nel cuore, ci bloccammo attoniti, nessuno più parlava, né incitava i compagni a scavare, il rumore dei sassi spostati erano spariti, tutto si fermò.
In quell’attimo, anche gli angeli si misero a piangere!
Ho scritto questo episodio immedesimandomi all’accaduto. Mentre scrivevo ho vissuto veramente il dolore di questa mamma. Mi sono dovuta fermare più volte per frenare le lacrime che da sole scendevano sul mio viso.
Speriamo si possa ritornare alla normalità e rendere omaggio a quanti perirono sotto le bombe.
Rosanna De Marchi