11 Gennaio1944: Al termine del celebre “processo di Verona” un plutone d’esecuzione fucila 5 alti gerarchi tedeschi

Lo sbarco delle truppe anglo-americane del 9 luglio 1943 in Sicilia e i primi bombardamenti sulle città italiane, avvenuti praticamente senza incontrare resistenza, smascherano la propaganda fascista che fino ad allora aveva raccontato le campagne militari italiane come un cammino di gloria disseminato di vittorie e negli ambienti politici italiani, compresi quelli vicini agli alti ranghi governativi ed alla corona, comincia a farsi strada il timore di un’imminente inevitabile e pesante sconfitta e la necessità di chiedere un armistizio separato agli anglo-americani.

Davanti a questo progetto segreto gravava ovviamente l’ingombrante ostacolo di Mussolini e dei tedeschi i quali non avevano la minima intenzione di cedere e farsi da parte.
In realtà anche in Germania c’era chi lavorava ad un progetto analogo e un gruppo di ufficiali dell’esercito organizza persino un attentato contro Adolf Hitler; ma l’attentato fallisce, i cospiratori sono scoperti e giustiziati e la guerra continuerà ad essere portata avanti con ottusa ostinazione sino al drammatico disastro finale.

In Italia il progetto di un armistizio separato all’insaputa dei tedeschi continua invece a maturare e a farsi strada, sostenuto dal re Vittorio Emanuele III e persino da diversi membri del Gran Consiglio del Fascismo, il massimo organo politico del partito fascista diventato, dopo la presa del potere da parte di Mussolini, anche massimo organo costituzionale.

Quindici giorni dopo lo sbarco alleato, nella notte fra 24 e il 25 luglio 1943, sotto la regia del re, del gerarca fascista Dino Grandi (1895-1988) e del generale Pietro Badoglio, il Gran Consiglio, con 19 voti a favore, 7 contrari e un astenuto, approva il celeberrimo “ordine del giorno Grandi”, ossia l’atto formale di sfiducia nei confronti del duce Benito Mussolini, cui seguiranno la destituzione da capo del governo, l’arresto e l’inizio di formali trattative segrete di pace con gli anglo-americani.
Il 25 luglio 1943 è la data ufficiale della caduta del fascismo in Italia.
Le settimane che seguono sono molto confuse e difficili; l’8 settembre successivo viene diramato dal generale Badoglio, nel frattempo nominato dal re capo del governo, il famoso annuncio dell’armistizio fra l’Italia e gli anglo-americani che era stato portato avanti segretamente dal generale Giuseppe Castellano, stretto collaboratore e uomo di fiducia di Badoglio, a Cassibile, frazione di Siracusa.
Nelle ore immediatamente precedenti all’annuncio il re e la sua corte, Badoglio e tutti i principali responsabili governativi fuggono all’estero lasciando l’Italia priva di guida; particolarmente tragica sarà la posizione delle truppe italiane all’estero, in Grecia, nella penisola balcanica e in Russia, sbandati e senza guida, vittime delle rappresaglie tedesche e delle forze di resistenza locali; nemici con scarsa propensione a fare prigionieri.
Il risultato di questo caos è la divisione dell’Italia in due: quella del sud, progressivamente liberata dagli anglo-americani e quella del nord, sotto il controllo dei nazi-fascisti, denominata Repubblica Sociale Italiana (RSI), conosciuta anche come “Repubblica di Salò” perché nella cittadina situata sulla costa bresciana del lago di Garda vengono istituiti gli uffici di governo.
Durante il suo breve periodo di esistenza le forze di polizia della RSI riescono a rastrellare ed arrestar sei dei gerarchi fascisti membri del Gran Consiglio che avevano votato a favore dell’OdG Grandi: Emilio De Bono, Luciano Gottardi, Carlo Pareschi, Giovanni Marinelli, Tullio Cianetti e persino Galeazzo Ciano, genero di Mussolini.
Il desiderio di una severissima vendetta si fa rapidamente strada fra i nazi-fascisti.
Le cronache riferiscono che Mussolini, che nel frattempo era stato liberato dagli arresti da un commando tedesco, in un primo momento fosse contrario all’esecuzione dei gerarchi “traditori” ma i tedeschi e le frange più estremiste della RSI reclamano una condanna a morte esemplare.
L’allora ministro della giustizia della RSI, Piero Pisenti fa notare tuttavia come una condanna a morte formalizzata attraverso un tribunale regolare non poteva avere valide basi giuridiche perché la votazione nell’ultima seduta del Gran Consiglio si era svolta legalmente, con Mussolini presente e consenziente e con il re in carica. Inoltre mancavano atti formali importanti, come i verbali della seduta; paradossalmente gli unici atti probatori raccolti dal giudice istruttore erano le dichiarazioni degli imputati.
La tanto desiderata ed esemplare sentenza di condanna a morte rischiava seriamente di naufragare per mancanza dei presupposti minimi di regolarità giuridica; l’unica strada percorribile era quella di un tribunale speciale ad ordinamento militare, costituito ad hoc con membri ad hoc per una sentenza già scritta. E così verrà fatto.
Il processo ha inizio a porte chiuse alle 9:00 del mattino dell’8 gennaio 1944, nella sala da concerto del forte medievale detto “Castelvecchio” di Verona ed è questa la ragione per cui il processo passerà alla storia come “il processo di Verona”.
La sentenza viene emessa la mattina del 10 gennaio; dei sei imputati processati solo Tullio Cianetti, che aveva ritrattato il proprio voto con una lettera indirizzata a Mussolini, ottiene una condanna detentiva a 30 anni (che non sconterà a causa dell’avanzata degli anglo-americani, delle continue incursioni della resistenza partigiana e del conseguente rapido collasso della RSI); per gli altri cinque la sentenza dispone la fucilazione immediata alla schiena.
Agli altri 16 membri non rastrellati del Gran Consiglio, che parimenti avevano votato l’OdG Grandi, la condanna viene emessa in contumacia e non sarà mai eseguita.
L’11 gennaio di 78 anni fa, al poligono di tiro di Forte San Procolo, nella parte occidentale di Verona, un plotone d’esecuzione di 30 miliziani fascisti dà attuazione definitiva alla sentenza.

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