Violenza sulle donne, Valeria De Vellis: «La ferita più profonda è non essere credute»

Si chiama «victim blaming» e si traduce in «colpevolizzazione della vittima», una condizione che colpisce ancora (troppo) spesso le donne che subiscono violenza. E diventano vittime due volte

«Se l’è cercata», «Non doveva andare a quella festa», «L’ha fatto per la notorietà», «Voleva un risarcimento», «Lo ha provocato». Quante volte abbiamo sentito o letto una di queste frasi riferita a una vittima di violenza? Si chiama «victim blaming» e si traduce in «colpevolizzazione della vittima», una condizione che colpisce ancora (troppo) spesso le donne che subiscono violenza nel nostro Paese. E non vengono credute, diventando vittime due volte. Una spirale che parte a volte dalle istituzioni, entra nei tribunali, sosta nelle strade e lungo i corridoi delle case di chi ha subito violenza, di qualsiasi natura essa sia: sessuale, domestica, psicologica, economica. E condanna le vittime a un abisso che sfocia spesso nella depressione, perché dopo le botte, la violenza peggiore è non essere credute. Lo ripete come un mantra l’avvocato Valeria De Vellis, specializzata in diritto di famiglia, dei minori e della persona, al fianco di tante donne che decidono di separarsi dopo avere subito a lungo.

Cos’è il victim blaming?

«In generale il victim blaming consiste proprio nella colpevolizzazione della vittima. Significa ritenere la vittima, del tutto o


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