Covid: l’enzima che blocca la diffusione del virus. Una scoperta italiana
Se c’è una cosa su cui la comunità scientifica mondiale concorda è che per uscire da questa maledetta pandemia i vaccini da soli non bastano.
Servono anche farmaci per curare i malati, compresi quelli affetti da Long Covid, e in grado di mantenere la loro efficacia anche contro nuove varianti del virus Sars-Cov-2. Un bisogno urgente, questo, che ha portato una poderosa collaborazione internazionale, a forte partecipazione italiana, a individuare una nuova strada per colpire il virus e un farmaco che potremmo potenzialmente usare in tempi brevi.
Se c’è una cosa su cui la comunità scientifica mondiale concorda è che per uscire da questa maledetta pandemia i vaccini da soli non bastano. Servono anche farmaci per curare i malati, compresi quelli affetti da Long Covid, e in grado di mantenere la loro efficacia anche contro nuove varianti del virus Sars-Cov-2. Un bisogno urgente, questo, che ha portato una poderosa collaborazione internazionale, a forte partecipazione italiana, a individuare una nuova strada per colpire il virus e un farmaco che potremmo potenzialmente usare in tempi brevi.
“Anziché bloccare l’ingresso del virus nelle cellule abbiamo cercato di capire come bloccarne l’uscita”, spiega Giuseppe Novelli, genetista dell’Università Tor Vergata di Roma primo autore dello studio . “Abbiamo così identificato una classe di enzimi, chiamata E3-ubiquitin ligasi, che sono necessari al virus per uscire dalle cellule e diffondersi in altri tessuti dell’organismo”, aggiunge. L’azione di queste proteine, descritta in uno studio pubblicato sulla rivista Cell Death & Disease, è simile anche in altri virus, come quello dell’Ebola. “E cosa non meno importante è che queste proteine non sono del virus, ma nostre e, quindi, non risentirebbero delle variazioni del virus”, precisa Novelli. I ricercatori hanno dimostrato che i livelli di questi enzimi sono elevati nei polmoni dei pazienti e in altri tessuti infettati con il virus.
Una volta scoperta questa nuova strada, i ricercatori hanno individuato anche un possibile nuovo farmaco. “E’ l’Indolo-3 Carbinolo (I3C), già utilizzato nel trattamento di patologie rare, e che abbiamo dimostrato, per il momento in vitro, di essere in grado di bloccare l’uscita del virus”, dice Novelli. “Se impediamo o anche solo rallentiamo la replicazione del virus ne possiamo compromettere anche la sua sopravvivenza”, aggiunge. Si tratta di risultati promettenti, tanto che si inizia a pensare a uno studio sui malati. “Dobbiamo testare il farmaco in studi clinici con pazienti Covid-19 per valutare rigorosamente se può prevenire la manifestazione di sintomi gravi e potenzialmente fatali”, sottolinea Novelli. “Avere opzioni per il trattamento, in particolare per i pazienti che non possono essere vaccinati, è di fondamentale importanza per salvare sempre più vite umane e contribuire ad una migliore condizione e gestione della salute pubblica”, aggiunge.
La pandemia, ormai è chiaro, è un nemico che va combattuto con più armi. “Dobbiamo pensare a lungo termine”, afferma Pier Paolo Pandolfi, scienziato dell’Università di Torino e del Nevada che, insieme a Novelli, ha coordinato lo studio. “I vaccini, pur essendo molto efficaci, potrebbero non esserlo più in futuro, perché il virus muta, e quindi è necessario disporre di più armi per combatterlo. La scoperta su I3C – continua – è importante, e ora dobbiamo avviare studi clinici per dimostrare la sua potenziale efficacia. Sarà importante valutare se I3C possa anche ridurre le gravissime complicazioni cliniche che molti pazienti sperimentano dopo aver superato la fase acuta dell’infezione. Questo rappresenterà un grave problema negli anni a venire, che dovremo gestire”.
Lo studio, sostenuto dalla Fondazione Roma, è stato condotto in collaborazione con l’Ospedale Bambino Gesù di Roma, l’Istituto Spallanzani, l’Università San Raffaele di Roma e diverse istituzioni americane (Harvard, Yale, Rockfeller, NIH, Mount Sinai, Boston University), canadesi (Università di Toronto) e francesi (INSERM Parigi el’Hôpital Avicenne).
Fonte: La Repubblica.it