
Come sono nati i semi di cannabis autofiorenti?
Quando si parla di semi di cannabis, si apre un capitolo ricco di alternative. Una delle più popolari sono i semi autofiorenti.
Molto richiesti online – se ti interessano le loro caratteristiche puoi ricavare, non a caso, informazioni utili da Sensoryseeds, il sito di una delle seeds bank più celebri al mondo – sono caratterizzati da una genetica che i collezionisti si impegnano ogni giorno a conservare.
Approfondirne la storia è interessante perché dimostra come il mix perfetto tra l’influenza della natura e il genio umano sia in grado di influenzare la quotidianità pratica di chi coltiva.
Nel caso della cannabis autofiorente, tutto ciò si traduce, giusto per citare un esempio, in piante che crescono rapidamente e che si prestano per questo molto bene alle esigenze di chi ha poco tempo a disposizione per dedicarsi alla coltivazione della cannabis o vuole, nei casi in cui la legge consente di piantare i semi, più raccolti nel corso di uno stesso anno.
Alla scoperta delle origini della cannabis autofiorente
Sono ancora in corso, dopo diversi decenni dalla sua immissione sul mercato, vivaci dibattiti in seno alla comunità internazionale dei breeder per quanto riguarda le origini della cannabis autofiorente.
Per dare qualche data sicura, fissiamo innanzitutto il 1924, anno in cui, grazie a un intraprendente botanico russo, venne scoperta la cannabis ruderalis, una varietà tipica di una delle zone climaticamente più rigide a livello mondiale, ossia la Siberia.
Per amor di precisione, è il caso di ricordare che, negli anni, esemplari di questa varietà di cannabis straordinariamente resistente sono stati trovati anche in Canada e in Nord America.
Nota per le sue dimensioni medie contenute – esistono delle eccezioni che è doveroso citare, ossia piante che hanno raggiunto altezze più che ragguardevoli, pari a 180 cm – e per il fatto di fiorire in tempi brevi, dettaglio necessario in quanto consente di concentrare tutti gli sforzi in un intervallo rapido e di evitare di subire troppo le conseguenze del freddo e del buio, secondo autorevoli fonti iniziò, negli anni ‘70, a essere impiegata in esperimenti con diversi ibridi.
Capitanati da una figura leggendaria per gli appassionati di cannabis, ossia il breeder australiano Nevil Martin Schoenmakers, nato nel 1957 e venuto a mancare nel 2019 a soli 62 anni, si impegnarono a fondo, sempre secondo la versione più accreditata della storia della cannabis autofiorente, per ottenere ibridi stabili frutto dell’incrocio fra ruderalis e sativa.
La svolta all’inizio del terzo millennio
Con l’inizio del terzo millennio, si ebbe una svolta storica nel percorso di sviluppo della cannabis autofiorente. A fungere da spartiacque è stato l’arrivo sul mercato, nel 2000, della Lowryder, la primissima varietà di cannabis autofiorente a essere proposta su larga scala.
Interessante è sottolineare che sulle sue origini c’è incertezza. Fra le tante teorie, due in particolare si sono affermate. Secondo la prima, la Lowryder sarebbe frutto di esperimenti portati avanti per ben nove generazioni di piante.
Secondo chi sposa questo punto di vista, a questo lungo lavoro dobbiamo la possibilità, oggi come oggi, di apprezzare diversi vantaggi tipici della cannabis ruderalis quando coltiviamo le autofiorenti.
Qualche esempio? La fioritura rapida già menzionata e la possibilità di ottenere piante ad altezza contenute, il che è il massimo per chi vuole coltivare mantenendo il massimo livello di privacy.
Guardando, invece, al secondo orientamento, ricordiamo che quest’ultimo parla della presenza, alla base del processo di creazione della cannabis autofiorente, di un’ibridazione tra la varietà ruderalis e la Northern Lights #2, a sua volta frutto dell’unione fra ceppi afghani e thailandesi.
Nonostante il suo indubbio valore storico, la Lowryder è stata comunque oggetto di critiche. Tra queste, rientra il suo essere caratterizzata da un contenuto ridotto di THC.