Anna Foa: «Togliatti mi chiese: “Sembro frivolo?”. Poi il Pci mi cacciò»
Il padre Vittorio, lo zio Renzo morto in Spagna, il nonno che in Fiat epurò Agnelli e Valletta, l’espulsione dal partito a 17 anni. «Mia madre fu amica di Adriano Sofri, era sicura che non fosse il mandante dell’omicidio Calabresi». «A 40 abbracciai l’ebraismo, ma ora…»
Anna Foa è un libro di storia che cammina su due gambe. Ha imparato a conoscere i nomi dei genitori da Lessico famigliare di Natalia Ginzburg. Suo nonno Michele Giua presiedette il comitato di epurazione del Cnl che per breve tempo tolse la proprietà della Fiat al senatore Giovanni Agnelli ed estromise Vittorio Valletta, accusati di connivenza con il fascismo. Suo padre Vittorio a 9 anni scrisse la storia della rivoluzione comunista in Russia e a 22 si laureò in legge con relatore Luigi Einaudi. Fu ufficiale dell’esercito italiano agli ordini di Umberto II prima che questi diventasse l’ultimo re d’Italia e durante la Resistenza ne confortò la consorte Maria José, che gli si rivolgeva con un’invocazione angosciata: «I miei bambini, i miei bambini!». Nel 1943 entrò nel Partito d’azione, di cui divenne segretario assieme a Ugo La Malfa, Emilio Lussu e Altiero Spinelli. Fu deputato alla Costituente e alla Camera e vice di Giuseppe Di Vittorio, segretario nazionale della Cgil. Prestò il proprio cappotto a Eugenio Scalfari, futuro fondatore della Repubblica, che per servizio doveva recarsi d’inverno in Russia e ne era sprovvisto. Da ragazza, con i genitori, Anna conobbe Palmiro Togliatti («mia madre Lisa era sua stretta collaboratrice a Rinascita») e Walter Audisio, il colonnello Valerio comandante del plotone d’esecuzione che aveva fucilato Benito Mussolini e Claretta Petacci. Vide per casa (un tempo frequentata da Leone Ginzburg) Cesare Pavese, Italo Calvino, Carlo Levi, Norberto Bobbio e Pietro Zveteremich, il traduttore che portò a Giangiacomo Feltrinelli Il Dottor Živago
: «Era amico di mamma. Lo chiamavamo Zvete». Il latinista Concetto Marchesi le correggeva i compiti: «Abitava al piano di sopra». Date le premesse, era inevitabile che Anna Foa diventasse una storica.
Il suo primo approccio con la storia?
«A 7 anni. Progettai di ammazzare il generalissimo Francisco Franco. Avrei aspettato fino ai 12 per andare da sola in Spagna e gli avrei sparato con la pistola mentre stava ritto in piedi sulla sua auto scoperta che fendeva la folla».
Scenografico. Perché doveva morire?
«Lo ritenevo responsabile dell’uccisione dello zio Renzo, 24 anni, fratello di mia madre, avvenuta nel 1936 mentre in Estremadura combatteva i franchisti. Oggi mi rendo conto che il tirannicidio nasceva dal desiderio di compiacere la mamma: aveva appena partorito mia sorella Bettina ed ero rosa dalla gelosia».
Figura leggendaria, suo zio.
«Ricordo una foto di Pavese incorniciata con un rametto di ulivo raccolto da mia nonna nel luogo dove cadde il figlio. Il corpo non fu mai ritrovato».
Che cosa rappresenta oggi per lei?
«L’eroismo. Una dimensione normale nella vita di famiglia. Come la povertà. A noi bimbi davano gli spinaci, i nostri genitori bevevano l’acqua della bollitura. La mamma razionava tutto: tenne da parte un uovo per così lungo tempo da trovarvi dentro, quando lo ruppe, un pulcino. Mio padre e mio nonno passarono 8 anni e mezzo nelle galere fasciste, traditi dallo scrittore Dino Segre, in arte Pittigrilli, spia dell’Ovra che finì in Argentina a scrivere i discorsi per Evita Perón».
Ma lei darebbe la vita per un ideale?
«In teoria sì. Però come faccio a dirlo? Dovrei essere messa alla prova per scoprirlo. Se potessi, andrei in Ucraina, ma a 77 anni e con le gambe malferme…».
Suo fratello venne chiamato Renzo in memoria dello zio ucciso in Spagna?
«Sì. Nel 1990 fu nominato direttore dell’Unità. Giancarlo Pajetta insorse: “Va bene un non comunista, ma scegliere addirittura un anticomunista!”. Lo cacciarono dopo due anni. Che era stato licenziato lo seppe dall’Ansa. Rifiutò il posto di corrispondente da Mosca. Indro Montanelli lo ospitò sul Giornale».
Era già stato corrispondente da Hanoi durante la guerra del Vietnam.
«Per un anno. Rimase in piedi mentre gli americani gli bombardavano l’ufficio. Jane Fonda, in visita nella capitale, lo abbracciò: “My hero!”. Seguì una notte di passione, pare. Ignorava che Renzo non s’era gettato a terra per evitare di sporcarsi il vestito appena lavato e stirato».
Lei fu espulsa dalla Gioventù comunista a 17 anni. Con quale accusa?
«“Entrismo”. M’imputavano di far entrare il trotzkismo nel Pci. Un mese prima avevo incontrato Togliatti in ferie a Cogne. Fu garbato: “Che cosa pensa questa giovane rivoluzionaria del fatto che il segretario del suo partito si diletta di letture così frivole?”, e additò I tre moschettieri di Alexandre Dumas nell’edizione La Pléiade, aperto sul tavolo. Finimmo a discutere su Anna d’Austria e il Duca di Buckingham: erano o no amanti?».
Caspita, un vero dibattito politico.
«Nella sezione romana di Campo Marzio solo due votarono a favore dell’espulsione: mio fratello e mio cugino. Sette anni dopo, la mamma uscì dal Pci con una lettera di dimissioni in cui definiva il partito un’associazione a delinquere».
E divenne seguace di Mao Zedong.
«Per anni vestì la casacca blu d’ordinanza dei maoisti. Lasciata Rinascita, andò a Lotta Continua. Raccoglieva fondi per Solidarnosc. Fu amica di Adriano Sofri, sicura che non fosse il mandante dell’omicidio Calabresi. Passò a Reporter, il cui direttore, Enrico Deaglio, divenne anche il suo medico personale».
Scelta eccentrica, ma molto comoda.
«La mamma aveva una vena anarchica. Conosceva il russo, spiegava l’Urss a mio padre. Traduceva le opere di Nikolaj Bucharin, il direttore della Pravda che alla morte di Lenin era passato con Stalin».
Ma suo padre non fu mai comunista.
«È così. Militò nel Psi, nel Psiup e in Democrazia proletaria. Prese la tessera solo del Pd. Era contro la Russia. In casa vivevamo questa doppia verità. Quando i sovietici invasero prima l’Ungheria e poi la Cecoslovacchia, la mamma disse solo: “Se fossimo al di là della cortina di ferro, ci avrebbero messi al muro”. Eppure il giorno del 1953 in cui la radio annunciò la morte di Stalin, io e Renzo, mi spiace dirlo, scoppiammo a piangere».
Suo fratello in seguito diventò cattolico, mentre lei si convertì all’ebraismo.
«Manco lo sapevo che si nasce ebrei solo per parte di madre. Nell’agosto 1944 la mamma fu catturata dai fascisti della banda Koch e portata a Villa Triste, famigerato luogo di tortura a Milano. Era incinta di me. Il cardinale Ildefonso Schuster ottenne che fosse visitata da un ufficiale medico della Wehrmacht. “La prima faccia umana che vidi dopo tre mesi”, ricordava lei. Fu trasferita nell’infermeria di San Vittore. Venne liberata da un commando partigiano guidato da Gigliola Spinelli, sorella di Altiero. Mi partorì alle Molinette di Torino. Era una partigiana latitante, con documenti falsi, perciò mi fece chiamare Annalisa Rizzini. Solo dopo la Liberazione fu registrato all’anagrafe il mio vero nome. Ma prima, per potermi riconoscere, papà e mamma dovettero dichiararmi “figlia di N.N.”».
Come scoprì di non essere ebrea?
«Ho sempre creduto di esserlo. Mia nonna mi guardava di profilo e sospirava: “Con questo naso i nazisti ti avrebbero spedito ad Auschwitz”. A 40 anni decisi di sottopormi all’esame davanti al tribunale rabbinico. Mi chiesero: “Che cosa pensa delle 613 mitzvòt, i precetti dell’ebraismo?”. Replicai: una scelta di libertà. Una risposta che piacque molto al rabbino Elio Toaff, ma che oggi non darei più. Fui mandata tutta sola nei sotterranei della sinagoga di Roma, a immergermi fin sopra i capelli, completamente nuda, nel vascone di marmo alimentato dall’acqua di fonte. Divenni ebrea così».
E rispettava le 613 mitzvòt?
«Per un paio d’anni consumai cibi kasher. Poi, in Israele, mi resi conto che gli ebrei ortodossi frequentavano solo i loro simili e non mi piacque. Ricordo che un amico, un diplomatico, un sabato mi disse: “Vado a trovare una moribonda”. Ma è kippur!, obiettai scandalizzata. E lui: “Pensi che il Signore sarebbe più contento se passassi la notte a digiunare e pregare, lasciando questa donna ad agonizzare da sola?”. Mi aprì gli occhi. Rinunciai all’osservanza. E quando mi separai dal mio compagno ebreo, per ribellione presi le posate da carne e da latte, che devono restare rigorosamente distinte, le gettai sul letto e le mischiai».
Oggi non si considera più ebrea?
«Mi sento molto ebrea. Ma non sono né credente né sionista. Ho appena ultimato per Laterza un libro sull’ebraismo in Italia. È la mia storia. Mi identifico con quella. Non con un popolo, non con una terra, non con Dio. Nella mente mi risuonano le misteriose parole in ebraico che il nonno mormorava il venerdì sera, ponendo le mani sulla mia testa e su quella di mio fratello. Era stato nostro padre a chiedergli di benedirci».
Vittorio Foa era un uomo severo?
«L’unico schiaffo me lo diede il giorno in cui accesi la radio con il volume al massimo. Poi si profuse in mille scuse».
Che fare con chi ritiene che la Shoah sia solo un’invenzione degli ebrei?
«Ero contraria alla legge contro i negazionisti. Oggi non so. Ho solo dubbi. Che puoi fare con chi nega la storia?».
Pensa che nella Chiesa ci sia chi vi ritiene ancora «perfidi e deicidi»?
«Non nella gerarchia, tant’è che fui la prima ebrea arruolata dall’Osservatore Romano come collaboratrice fissa. Ma sono stata chiamata a parlare ai docenti di religione della provincia di Napoli e uno di loro ha chiesto: “Se siete perseguitati da sempre, non ci sarà in questo la mano di Dio?”. Non posso dimenticare che Domenica Primerano, direttrice del Museo diocesano di Trento, s’è dovuta dimettere per aver osato sfatare la leggenda di san Simonino, fino al 1965 venerato come beato. Molti trentini sono tuttora convinti che questo bimbo sia stato rapito e sgozzato dai giudei per celebrare con il sangue la Pasqua del 1475».