1923, quando Hollywood denunciò il cemento corrotto

Ancora oggi la prima parte de The Ten Commandments (I dieci comandamenti, 1923) di Cecil B. DeMille, quella biblica, ti incatena alla poltrona. Ti chiedi di come egli abbia diretto centinaia di comparse e di animali: l’esodo del popolo ebraico dall’Egitto è semplicemente maestoso: un sinfonico alternarsi di primi piani, figure intere, campi lunghi, campi […]

Ancora oggi la prima parte de The Ten Commandments (I dieci comandamenti, 1923) di Cecil B. DeMille, quella biblica, ti incatena alla poltrona. Ti chiedi di come egli abbia diretto centinaia di comparse e di animali: l’esodo del popolo ebraico dall’Egitto è semplicemente maestoso: un sinfonico alternarsi di primi piani, figure intere, campi lunghi, campi lunghissimi di persone, animali, masserizie: un popolo in cammino. È evidente la sfida indiretta con le masse e il montaggio di Intolerance (1916) di David W, Griffith, per anni giudicato il film dalla regia più innovativa del tempo.

Lo spettatore di oggi si chiede come DeMille abbia plasticamente realizzato la lunga marcia nel deserto tra le dune con i soldati egiziani alle spalle che inseguono a cavallo (è il deserto della California). Ancora. Egli rimane attratto dai trucchi che il regista escogitò: per esempio, il fulmine scagliato da Dio (che naturalmente non vediamo) mentre scolpisce, di volta in volta, le parole dei dieci comandamenti sulle pareti della montagna in aramaico e poi, come un successivo fulmine ne traccia il perimetro rettangolare, come un


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