Senza dare al momento troppo nell’occhio, lo Stato italiano e quello francese hanno lanciato un’alleanza per provare a far tornare l’energia nucleare nel Bel Paese, puntando al contempo ad aumentarne la diffusione nel resto d’Europa.
Il gruppo Ansaldo (dove il ministero dell’Economia ha un ruolo determinante tramite la partecipazione di Cdp), Edison (controllata da Edf) ed Edf (controllata dallo Stato francese, nonché primo produttore di energia nucleare al mondo) hanno infatti siglato una lettera d’intenti per «collaborare allo sviluppo del nuovo nucleare in Europa e favorirne la diffusione, in prospettiva anche in Italia».
«Obiettivo dell’accordo – spiegano le tre società – è di valorizzare nell’immediato le competenze della filiera nucleare italiana, di cui Ansaldo nucleare è capofila, a supporto dello sviluppo dei progetti di nuovo nucleare del gruppo Edf, e al contempo di avviare una riflessione sul possibile ruolo del nuovo nucleare nella transizione energetica in Italia».
In particolare, i tre firmatari della lettera d’intenti «si impegnano a verificare le potenzialità di sviluppo e di applicazione del nuovo nucleare in Italia, date le crescenti esigenze di sicurezza e indipendenza energetica del sistema elettrico italiano».
Non è ben chiaro quale sia il «nuovo nucleare» cui si fa riferimento nell’accordo, perché le tecnologie cui si accenna sono in realtà discusse già da decenni: gli European pressurized water reactor (Epr) e gli Small modular reactor (Smr).
Un ottimo esempio della tecnologia Epr è fornito dalla centrale nucleare di Flamanville 3, un progetto che Edf sta cercando di concludere su suolo francese dal 2007: avrebbe dovuto completarsi in 6 anni, mentre l’attuale stima è di 15 anni. In compenso «il progetto prevedeva un costo dell’impianto di 3,3 miliardi di euro, che sarà di 12,4 miliardi secondo Electricité de France (Edf); ma la Corte de Conti francese ha rifatto il calcolo e ha detto che sarà di 19,1 miliardi di euro. Quasi sei volte tanto», come sottolinea l’esperto di energia e già docente di Fisica del reattore nucleare Giovanni Battista Zorzoli.
In merito agli Small modular reactor, invece, la situazione è ancora più aleatoria: «Parliamo di reattori dei quali si è iniziato a parlare negli anni Ottanta del secolo scorso e attualmente sono in esercizio giusto tre prototipi. Uno che non produce elettricità, uno in Russia molto discusso perché installato su una piattaforma galleggiante, mentre il terzo è in Cina e se ne sa molto poco».
Ciononostante, non sorprende la scelta di approfondire il «ruolo del nuovo nucleare nella transizione energetica in Italia», dato che la maggioranza politica che sostiene il Governo Meloni si è espressa più volte a favore.
Ignorando così sia l’esito di due referendum popolari, sia i profili di insostenibilità ambientale ed economica che suggeriscono di non puntare sul nucleare per decarbonizzare il mix energetico italiano; se è vero che le fonti rinnovabili intermittenti (come eolico e solare) necessitano di tecnologie aggiuntive per poter coprire in modo efficace la domanda di energia baseload del Paese, questo è un obiettivo che può essere più agevolmente raggiunto investendo in sistemi di accumulo e in fonti rinnovabili non intermittenti (teoricamente la geotermia, da sola, potrebbe coprire il quintuplo del fabbisogno nazionale di energia).
In ogni caso, è difficile dirsi quanto la lettera d’intenti firmata da Ansaldo, Edison ed Edf avvicini davvero l’ipotesi di un ritorno nucleare in Italia. Anche perché quando si passa dagli slogan politici alle ipotesi di localizzazione impiantistica, neanche lo stesso Governo Meloni sembra credere più di tanto alla boutade.
Basti osservare cosa sta accadendo al Deposito unico nazionale dei rifiuti radioattivi, un’infrastruttura indispensabile per gestire in sicurezza tutti i rifiuti di questo tipo che abbiamo prodotto e che continuiamo ancora adesso a generare (ad esempio nei settori della medicina nucleare e dell’industria) nel nostro Paese.
L’iter per la realizzazione del Deposito è iniziato nel 2010, durante il Governo Berlusconi IV, ed il completamento è atteso per il 2025; di fatto, ad oggi non è stata resa nota neanche la Carta nazionale delle aree idonee, tanto che il Governo Meloni ne ha fatto slittare la pubblicazione «verosimilmente entro il corrente anno», mentre il Deposito vero e proprio potrebbe entrare in esercizio nel 2030. Ovvero lo stesso anno per cui il leader della Lega Matteo Salvini fantasticava, in campagna elettorale, il completamento della prima centrale nucleare italiana.
L'articolo Edf, Edison e Ansaldo siglano un accordo per portare il «nuovo nucleare» in Italia sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.
Aprendo la 67esima sessione della Commission on the Status of Women (CSW), la vice.segretaria generale dell’Onu e direttrice esecutiva di UN Women, Sima Bahous, ha detto che «Ora il mondo si confronta con un nuovo tipo di povertà, che esclude le donne e le ragazze in modi devastanti: quella della povertà digitale.
Il digital divide è diventato il nuovo volto della disuguaglianza di genere, aggravata dall’ostracismo contro le donne e le ragazze che vediamo oggi nel mondo».
Alla vigilia dell’8 marzo, la giornata internazionale della donna, la Bahous ha però evidenziato che «La rivoluzione digitale offre opportunità senza precedenti per donne e ragazze. Allo stesso tempo, ha anche dato origine a nuove profonde sfide, aggravando fortemente le disuguaglianze di genere. La relazione del Segretario generale è inequivocabile. Non raggiungeremo la parità di genere senza colmare il digital divide».
Infatti, nel suo intervento António Guterres ha osservato che «Il CSW si sta iriunendo mentre i progressi sui diritti delle donne stanno svanendo, anche in paesi come l'Afghanistan, dove le donne e le ragazze sono state, in effetti, cancellate dalla vita pubblica, e mentre l'uguaglianza di genere sta allontanandosi sempre di più. La vostra attenzione quest'anno per colmare i gap di genere nella tecnologia e nell'innovazione non potrebbe essere più opportuna. Perché mentre la tecnologia avanza, le donne e le ragazze vengono lasciate indietro. La matematica è semplice: senza le intuizioni e la creatività di mezzo mondo, la scienza e la tecnologia realizzeranno solo la metà del loro potenziale. Poiché la disuguaglianza di genere è in definitiva una questione di potere, chiedo un'azione urgente in tre aree, a partire dall'aumento dell'istruzione, del reddito e dell'occupazione per le donne e le ragazze, in particolare nel Sud del mondo. Occorre inoltre promuovere la piena partecipazione e la leadership delle donne e delle ragazze nel campo della scienza e della tecnologia. La comunità internazionale deve anche creare un ambiente digitale sicuro per donne e ragazze. A questo proposito, le Nazioni Unite stanno lavorando per promuovere un codice di condotta per l'integrità delle informazioni sulle piattaforme digitali, volto a ridurre i danni e aumentare la responsabilità».
Il capo dell’Onu ha poii ricordato che «Promuovere il pieno contributo delle donne alla scienza, alla tecnologia e all'innovazione non è un atto di beneficenza o un favore alle donne, ma un “must” a beneficio di tutti. La CSW è una dinamo e un catalizzatore per la trasformazione di cui abbiamo bisogno. Insieme, respingiamo la spinta verso la misoginia e andiamo avanti per le donne, le ragazze e il nostro mondo».
Ma la Bahous ha snocciolato cifre davvero preoccupanti che sono lo specchio di una regressione in corso: «I dati fanno riflettere. Le donne hanno il 18% in meno di probabilità rispetto agli uomini di possedere uno smartphone e molto meno probabilità di accedere o utilizzare Internet. Solo lo scorso anno, erano online 259 milioni di uomini in più rispetto alle donne. Solo il 28% dei laureati in ingegneria e il 22% dei lavoratori dell'intelligenza artificiale a livello globale sono donne, nonostante le ragazze eguaglino le prestazioni dei ragazzi nelle materie scientifiche e tecnologiche in molti Paesi. Nel settore tecnologico a livello globale, le donne non solo occupano meno posizioni, ma devono anche affrontare un gap retributivo di genere del 21%. Quasi la metà di tutte le donne che lavorano nella tecnologia ha subito molestie sul posto di lavoro. Il gap nell'accesso agli strumenti e alle opportunità digitali è più ampio laddove le donne e le ragazze sono spesso più vulnerabili. Questo gap colpisce in modo sproporzionato donne e ragazze con basso livello di alfabetizzazione o basso reddito, coloro che vivono in aree rurali o remote, migranti, donne con disabilità e donne anziane. Mette a repentaglio la nostra promessa di non lasciare indietro nessuno».
E queste differenze hanno gravi conseguenze per le donne e le ragazze: «Il digitali divide può limitare l'accesso delle donne alle informazioni salvavita, ai prodotti di denaro mobile, all'estensione dell'agricoltura o ai servizi pubblici online – ha ricordato la leader di UN Woman - A sua volta, questo influenza fondamentalmente se una donna completa la sua istruzione, possiede il proprio conto in banca, prende decisioni informate sul proprio corpo, nutre la sua famiglia o ottiene un impiego produttivo. Fondamentalmente, il digital divide è pervasivo perché la tecnologia è pervasiva in tutti gli aspetti della nostra vita moderna».
Inoltre, occorre anche affrontare con fermezza le minacce alla sicurezza e al benessere delle ragazze derivanti da un abuso tecnologico: «Anche dove hanno accesso a strumenti e servizi digitali, la discriminazione ha preso piede e continua a trovare nuovi modi per negare loro i propri diritti – ha detto la Bahous - Una ricerca ha dimostrato che l'80% dei bambini in 25 Paesi hanno riferito di sentirsi in pericolo di abuso e sfruttamento sessuale quando sono online, con le ragazze adolescenti che sono le più vulnerabili. Un sondaggio tra giornaliste donne di 125 Paesi ha rilevato che tre quarti avevano subito violenze online nel corso del loro lavoro e un terzo si era autocensurato in risposta. Le donne afghane che hanno parlato attraverso YouTube e blog hanno visto le loro porte contrassegnate dai talebani e molte sono fuggite dal loro Paese per mettersi in salvo. In Iran, e come rilevato nel rapporto del Segretario generale sulla situazione dei diritti umani in quel Paese, molte donne e ragazze continuano a essere prese di mira a causa della loro partecipazione a campagne online. Continuiamo a vedere gruppi radicali e alcuni governi che utilizzano i social media per prendere di mira le donne, in particolare le difensore dei diritti umani. Se temono rappresaglie, le attiviste per i diritti delle donne non possono svolgere il proprio ruolo nel promuovere l'uguaglianza. Diventano, in effetti, invisibili. Questa è la nuova repressione e oppressione digitale. Siamo totalmente solidali con le donne e le ragazze sottoposte a repressione e oppressione in tutto il mondo».
La vice-segretaria generale dell’Onu non si nasconde difficoltà e pericoli: «La realtà è che quelle forze e quegli attori che vorrebbero negare alle donne e alle ragazze i loro diritti sono tanto adattabili quanto malvagi. Quindi, dobbiamo adattarci più velocemente e in modo più efficace di loro, con risposte più forti, protezioni e, in definitiva, maggiore determinazione. La tecnologia e l'innovazione sono davvero fattori abilitanti. Ciò che consentono dipende da noi. Allo stesso tempo, la rivoluzione digitale offre il potenziale per un miglioramento senza precedenti nella vita delle donne e delle ragazze. Non dobbiamo respingerla».
Ma la ricerca di UN Women e DESA mostra che il progresso globale verso gli Obiettivi di sviluppo sostenibile è diventato più precario che mai: «Viviamo in un mondo di poli-crisi che rendono il progresso sempre più disomogeneo anche nello spazio digitale, creando barriere nuove e uniche per donne e ragazze – ha sottolineato la Bahous - Queste crisi spaziano dalle sfide ancora irrisolte del Covid, al divario economico globale che fa crescere disuguaglianze senza precedenti nell'accesso al cibo e all'energia, ai conflitti e all'instabilità come quelli in Afghanistan, Repubblica Democratica del Congo, Haiti, Myanmar, Territori palestinesi occupati, Ucraina e Yemen. Abbiamo bisogno di tutti gli incentivi che possiamo trovare per riportare in carreggiata gli SDG. La tecnologia e l'innovazione sono comprovati acceleratori per guidare progressi concreti, ancora una volta, attraverso l'Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. Sfruttate in modo efficace, la tecnologia e l'innovazione possono cambiare le regole del gioco per catalizzare la riduzione della povertà, ridurre la fame, aumentare la salute, creare nuovi posti di lavoro, mitigare i cambiamenti climatici, affrontare le crisi umanitarie, migliorare l'accesso all'energia e rendere intere città e comunità più sicure e più sostenibili, a beneficio donne e ragazze. In innumerevoli modi, gli obiettivi di sviluppo sostenibile dipendono dalla capacità del mondo di sfruttare la tecnologia e l'innovazione. Guardate i social media. Hanno permesso alle donne, che cercavano disperatamente aiuto di fronte all'aumento della violenza domestica durante i lockdowns dovuti al COVID-19, di accedere a informazioni e supporto. Ha generato "heat maps" per focalizzare la risposta ai disastri, come più di recente nei tragici terremoti di Turchia e Siria. I social media sono stati un connettore cruciale per il movimento delle donne all'interno e tra i Paesi. La tecnologia ha facilitato il nostro lavoro attraverso l'audace mandato di UN Women. In paesi come il Niger e Haiti, siamo state in grado di digitalizzare la raccolta dei dati nelle valutazioni rapide di genere, risparmiando tempo e denaro, oltre a offrire una nuova e più potente gestione e visualizzazione dei dati. In Ucraina, le autorità nazionali, le organizzazioni della società civile e il settore privato stanno lavorando insieme per costruire soluzioni digitali che sostengano gli aiuti di genere, la ripresa economica e riducano i digital divide. Dall'intelligenza artificiale alla realtà virtuale, fino alla blockchain: le possibilità di sfruttare la tecnologia, salvare e migliorare vite e raggiungere la visione della Carta delle Nazioni Unite, in cui ogni membro della famiglia umana vive una vita di libertà e dignità, sembrano davvero illimitate. Sta a noi decidere il corso che desideriamo tracciare e se, in ultima analisi, sfruttare l'opportunità che ci viene offerta per costruire un mondo migliore, senza lasciare indietro nessuna donna o ragazza nella rivoluzione digitale».
Poi la Bahous è passata a delineare le azioni necessarie: «La nostra sfida non è formare più donne o distribuire telefoni cellulari. Piuttosto, è per correggere le istituzioni e gli stereotipi di genere dannosi che circondano la tecnologia e l'innovazione che fanno fallire donne e le ragazze (…) Innanzitutto, dobbiamo colmare il digital divide di genere. Ogni componente della società, in particolare i più emarginati, deve avere pari accesso alle competenze e ai servizi digitali. I servizi digitali, in particolare i servizi di e-government, devono essere personalizzati e accessibili a tutte le donne e le ragazze. Secondo, dobbiamo investire nell'istruzione digitale, scientifica e tecnologica per ragazze e donne, comprese quelle ragazze che non hanno avuto l’istruzione elementare. Queste opportunità non possono limitarsi a fornire competenze informatiche di base. Devono estendersi all'intera gamma di funzionalità necessarie per garantire posti di lavoro del XXI secolo in un mondo digitale. Terzo, dobbiamo garantire posti di lavoro e posizioni di leadership alle donne nei settori della tecnologia e dell'innovazione. Come ha affermato il Segretario generale: “C'è un grande pericolo per l'uguaglianza di genere, la misoginia è radicata nelle Silicon Valley di questo mondo”. Questo richiede un profondo cambiamento istituzionale. Tale onere ricade in gran parte sui leader del settore tecnologico. Quarto, dobbiamo garantire la trasparenza e la responsabilità della tecnologia digitale. In base alla progettazione, la tecnologia deve essere sicura, inclusiva, conveniente e accessibile. Questo include garantire che i pregiudizi inconsci o consci non siano incorporati nelle nuove tecnologie e nel campo dell'intelligenza artificiale. Quinto, dobbiamo porre i principi di inclusione, intersezionalità e cambiamento sistemico al centro della digitalizzazione. Se le donne non sono incluse tra i creatori di tecnologia e intelligenza artificiale, o responsabili delle decisioni, i prodotti digitali non rifletteranno le priorità delle donne e delle ragazze. Dobbiamo garantire che le donne e le ragazze siano una parte centrale della progettazione, dello sviluppo e della diffusione della tecnologia. Sesto, dobbiamo affrontare la disinformazione a testa alta e dobbiamo lavorare con gli uomini e i ragazzi per promuovere un comportamento online etico e responsabile e fare dell'uguaglianza una pietra angolare della cittadinanza digitale. Infine, dobbiamo compiere gli sforzi e gli investimenti necessari per garantire che gli spazi online siano privi di violenza e abusi, con meccanismi e chiare responsabilità per affrontare tutte le forme di molestia, discriminazione e incitamento all'odio. Abbiamo chiuso un occhio sui loro effetti dannosi per troppo tempo. La tecnologia dovrebbe liberare, sta invece aggravando la violenza, con comportamenti online che cercano di controllare, danneggiare, mettere a tacere o screditare le voci di donne e ragazze. Se non lasciamo questa Sessione dopo aver detto collettivamente, senza ambiguità, “basta, non più”, allora avremo fallito».
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Gli allevamenti di bestiame producono grandi quantità di gas serra, soprattutto metano, particolarmente dannoso per il clima, che fuoriesce anche durante lo stoccaggio degli escrementi animali, il liquame. Ora, lo studio “Calcium cyanamide reduces methane and other trace gases during long-term storage of dairy cattle and fattening pig slurry”, pubblicato su Waste Management da Felix Holtkamp dell’ Institut für Nutzpflanzenwissenschaften und Ressourcenschutz (INRES) dell’Universität Bonn, Joachim Clemens del produttore di fertilizzanti SF-Soepenberg e da Manfred Trimborn dell'Institut für Landtechnik dell’Universität Bonn dimostra che «Le emissioni di metano possono essere ridotte del 99% con mezzi semplici ed economici» e afferma che « Il metodo potrebbe dare un importante contributo alla lotta contro il cambiamento climatico».
Negli ultimi 200 anni, la concentrazione di metano nell'atmosfera è più che raddoppiata, soprattutto a causa del consumo umano di carne: le mucche e altri ruminanti producono metano durante la digestione. Un'altra fonte importante sono gli escrementi degli animali. Holtkamp spiega che «Un terzo del metano prodotto dall'uomo nel mondo proviene dal bestiame. Si stima che fino al 50% provenga dai processi di fermentazione nel liquame». Per questo, in tutto il mondo, gli scienziati sono alla ricerca di modi per sopprimere questi processi. Holtkamp, Trimborn e Clemens hanno presentato una soluzione promettente al problema. «In laboratorio, abbiamo combinato il liquame di una fattoria con la calciocianamide, una sostanza chimica utilizzata come fertilizzante in agricoltura da oltre 100 anni. Questo ha portato a un arresto quasi completo della produzione di metano».
Infatti, secondo lo studio, «Nel complesso, le emissioni sono diminuite del 99%. Questo effetto è iniziato appena un'ora dopo l'aggiunta ed è persistito fino alla fine dell'esperimento 6 mesi dopo. La lunga efficacia è importante, perché il liquame non viene semplicemente scartato. Piuttosto, viene immagazzinato fino all'inizio della successiva stagione di crescita e poi sparso sui campi come prezioso fertilizzante. Mesi di stoccaggio sono quindi abbastanza comuni. Durante questo periodo, il liquame viene trasformato da batteri e funghi: scompongono il materiale organico non digerito in molecole sempre più piccole. Al termine di questi processi viene prodotto metano».
Holtkamp evidenzia che «La calciocianamide rompe questa catena di trasformazioni chimiche e lo fa contemporaneamente in punti diversi, come abbiamo potuto vedere nell'analisi chimica del liquame trattato. La sostanza sopprime la degradazione microbica degli acidi grassi a catena corta, un intermedio nella catena, e la loro conversione in metano. Non è ancora noto esattamente come ciò avvenga».
E la calciocianamide ha anche altri vantaggi: arricchisce il liquame con azoto e quindi migliora il suo effetto fertilizzante. Inoltre. previene la formazione dei cosiddetti strati galleggianti: depositi di materia organica che formano una solida crosta sul liquame e ostacolano lo scambio di gas. Questa crosta di solito deve essere regolarmente frantumata e mescolata. Holtkamp fa notare che «Il processo presenta anche vantaggi per gli animali stessi: spesso sono tenuti sui cosiddetti pavimenti a stecche. I loro escrementi cadono attraverso le aperture nel pavimento in un grande contenitore. La conversione microbica consente alla miscela fecale-urina di schiumare nel tempo e risalire attraverso gli spazi vuoti. Gli animali sono quindi in piedi nei loro stessi escrementi. La calciocianamide blocca questa formazione di schiuma».
Anche i costi sono gestibili: si aggirano tra 0,3 e 0,5 centesimi di euro per litro di latte per il bestiame di allevamento.
Non è ancora chiaro come il metodo influisca sul rilascio di ammoniaca dal liquame. L'ammoniaca è un gas tossico che, pur non essendo dannoso per il clima, può essere convertito in pericolosi gas serra Trimborn dice che «Abbiamo le prime indicazioni che a lungo termine si riduca anche la quantità di ammoniaca. Però, a questo punto, non possiamo dirlo con certezza».
C’è un problema: attualmente, in Germania, una legge ambientale impedisce l'aggiunta di calciocianamide perché ai fanghi stoccati in modo convenzionale si applica e un severo requisito di purezza.
L'articolo Un additivo per rendere climate-friendly i liquami degli allevamenti sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.
Intervenendo alla 52esima sessione dell’Human Rights Council, la Vice Alto Commissario Onu per i diritti umani Nada Al-Nashif ha denunciato che «La situazione dei diritti umani in Eritrea rimane grave e non mostra segni di miglioramento. Continua ad essere caratterizzato da gravi violazioni dei diritti umani. Il nostro Ufficio continua a ricevere segnalazioni credibili di torture; detenzione arbitraria; condizioni di detenzione disumane; sparizioni forzate; restrizioni dei diritti alle libertà di espressione, di associazione e di riunione pacifica. Secondo quanto riferito, migliaia di prigionieri politici e prigionieri di coscienza sono dietro le sbarre da decenni. Inoltre, le vessazioni e la detenzione arbitraria di persone a causa della loro fede continuano senza sosta, con centinaia stimati di leader e seguaci religiosi colpiti».
Come se non bastasse, nella ex colonia italiana dalla quale partì la feroce ed effimera conquista fascista dell’Abissinia a suon di “faccetta nera” e di iprite e di massacri, «Gli eritrei continuano ad essere sottoposti al servizio militare o nazionale a tempo indeterminato, che si è intensificato in seguito al conflitto del Tigray». E la Al-Nashif ha ricordato «La storia di un giovane il cui fratello è stato costretto a fuggire nella foresta per evitare la coscrizione forzata e vi ha trascorso gli ultimi 8 anni della sua vita nascondendosi, entrando occasionalmente in città di notte, per procurarsi cibo e acqua. I coscritti continuano ad essere arruolati per una durata di servizio a tempo indeterminato oltre i 18 mesi previsti dalla legge, spesso in condizioni abusive, che possono includere l'uso della tortura, della violenza sessuale e del lavoro forzato. Coloro che tentano di disertare il servizio militare vengono detenuti e puniti. L'Eritrea continua inoltre con la pratica di punire i familiari per il comportamento dei parenti che evadono la leva, anche mediante sgomberi dalle loro abitazioni».
E’ infatti il servizio militare nazionale che, in un paese militarizzato e in mano a un regime ossificato che ha tradito ogni promessa di socialismo e libertà dei tempi della lotto per l’indipendenza dall’Etiopia, a restare il motivo principale per cui gli eritrei fuggono dal Paese. Secondo l'UNHCR, «Alla fine del 2022 c'erano rispettivamente oltre 160.000 e 130.000 richiedenti asilo e rifugiati in Etiopia e in Sudan, in leggero aumento rispetto agli anni precedenti, principalmente nella fascia di età dai 18 ai 49 anni. Recentemente, ci sono state segnalazioni di alcuni altri Paesi impegnati in rimpatri forzati di richiedenti asilo eritrei, che espongono i rimpatriati a gravi violazioni dei diritti umani nel loro Paese – ha detto la Al-Nashif - Ribadiamo il nostro appello all'Eritrea affinché allinei il suo servizio militare nazionale con i suoi obblighi internazionali in materia di diritti umani e invitiamo gli Stati a fermare il rimpatrio forzato in Eritrea dei richiedenti asilo».
la Vice Alto Commissario Onu per i diritti umani ha evidenziato che «E’ allarmante che tutte queste violazioni dei diritti umani siano commesse in un contesto di completa impunità. L'Eritrea non ha adottato alcuna misura dimostrabile per garantire la responsabilità per le violazioni dei diritti umani passate e in corso. Nessuna persona è stata ritenuta responsabile per le violazioni dei diritti umani documentate dalla Commissione d'inchiesta sui diritti umani in Eritrea nel 2016 e nel 2017, che ha rilevato che l'Eritrea aveva commesso crimini contro l'umanità, tra i quali riduzione in schiavitù, detenzione, sparizione forzata, tortura e altri atti disumani, persecuzione, stupro e omicidio. Inoltre, l'Eritrea non ha adottato alcuna misura per stabilire meccanismi di responsabilità per le violazioni dei diritti umani internazionali e del diritto umanitario commesse dall’Eritrean Defence Forces (EDF) nel contesto del conflitto del Tigray in Etiopia, come rilevato dal Joint Investigation Team (JIT) del nostro Ufficio e della Commissione etiope per i diritti umani. L'Eritrea ha respinto questo rapporto del JIT e ha permesso ai perpetratori dell'EDF di agire impunemente. Non c'è alcuna reale prospettiva che il sistema giudiziario nazionale ne chieda conto ai colpevoli. Inoltre, i rapporti mostrano che mentre l'EDF ha avviato il ritiro dal Tigray, come richiesto nell'ambito dell'Accordo per una pace duratura attraverso una cessazione permanente delle ostilità firmato a Pretoria, in Sudafrica, nel novembre dello scorso anno, il ritiro rimane molto lento e in gran parte incompleto, il che richiede un monitoraggio e una segnalazione continui della situazione».
Poi la Al-Nashif è passata ad analizzare i rapporti dell’Eritrea con l’Human Rights Council: «Dopo la sua visita in Eritrea nel gennaio 2022 per partecipare al lancio delle discussioni sul quadro di cooperazione allo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, il nostro rappresentante regionale per l'Africa orientale ha condotto una seconda missione in Eritrea nel maggio 2022, su invito del governo. La missione ha esplorato le aree di supporto e assistenza tecnica a seguito delle visite di valutazione tecnica effettuate dal nostro Ufficio nel Paese nel 2015, 2016 e 2017. Durante la visita, il team ha incontrato i ministri degli esteri, della giustizia, dell'informazione e altri alti funzionari governativi, nonché i nostri partner per lo sviluppo. A seguito di discussioni con le controparti nazionali, sono state identificate cinque aree per una potenziale cooperazione tecnica e supporto da parte del nostro Ufficio, tra cui 1) il rafforzamento dei diritti come parte di un sistema giudiziario trasformativo; 2) l'armonizzazione delle “leggi indigene o tradizionali” in linea con le norme internazionali e regionali sui diritti umani; 3) sostegno a una conferenza regionale sulla giustizia tradizionale; 4) rafforzare i diritti e la protezione delle persone con disabilità; 5) rafforzamento delle capacità sull'impegno effettivo con i meccanismi delle Nazioni Unite per i diritti umani. Oltre a queste due missioni, le autorità non hanno risposto al nostro follow-up per l'elaborazione di un piano concreto di attività e attuazione. Analogamente, a Ginevra, la Missione Permanente [dell’Eritrea] non si è impegnata con il nostro Ufficio, né il nostro Ufficio ha ricevuto alcuna risposta alle comunicazioni relative al coinvolgimento dell'Eritrea nel conflitto nel Tigray. Questa totale mancanza di cooperazione è in netto contrasto con gli impegni dell'Eritrea come membro dell’Human Rights Council e il suo impegno volontario come membro di questo Consiglio a continuare il suo impegno con il nostro Ufficio. Alla luce della mancanza di risposta dell'Eritrea nel corso degli anni, l'OHCHR non è in grado di progredire con l'impegno tecnico e la cooperazione. Mentre accogliamo con favore il maggiore impegno del governo con il Country Team delle Nazioni Unite nel contesto dell'attuazione del quadro di cooperazione allo sviluppo sostenibile dell’Onu, è necessario impegnarsi su questioni fondamentali in materia di diritti umani, attraverso il dialogo con il nostro Ufficio e l'estensione della piena cooperazione ai meccanismi internazionali per i diritti umani. Questo include il relatore speciale sulla situazione dei diritti umani in Eritrea e i titolari del mandato tematico relativo alle procedure speciali, in particolare coloro che hanno richiesto di fare una visita, tra cui il gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria, il relatore speciale sulla tortura e il relatore speciale sui diritti alla libertà di riunione pacifica e di associazione. L'Eritrea è in ritardo anche su una serie di rapporti agli organi del trattato delle Nazioni Unite (il Committee on Economic, Social and Cultural Rights, il Committee on the Elimination of Racial Discrimination e il ommittee Against Torture). Durante il terzo ciclo dell’Universal Periodic Review, el gennaio 2019, l'Eritrea ha assunto importanti impegni a sostegno di 131 raccomandazioni su 261, anche in materia di pace, giustizia e sostegno a istituzioni più forti. Durante l'ultima visita del nostro Ufficio nel maggio 2022, il governo ha dichiarato che un organismo di coordinamento sul reporting aveva progettato un piano e un quadro d'azione per attuare queste raccomandazioni. Il nostro ufficio non ha visto questo piano nonostante il nostro follow-up».
La Al-Nashif ha concluso ribadendo il suo appello al governo eritreo «Affinché si impegni in un dialogo pieno e franco con il nostro Ufficio. Rimaniamo pronti a costruire su queste missioni in Eritrea, in particolare quelle dello scorso anno, per iniziare ad affrontare alcune delle più gravi preoccupazioni in materia di diritti umani, anche attraverso la fornitura di supporto tecnico. Chiedo inoltre agli Stati membri di incoraggiare e facilitare l'impegno dell'Eritrea con l’Human Rights Council e i suoi meccanismi».
L'articolo Eritrea: la situazione dei diritti umani rimane disastrosa sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.
Il 26 aprile 1986 due esplosioni squarciarono la centrale nucleare di Chernobyl (CNPP), allora nell’Ucraina sovietica, casando il più grande disastro nucleare civile che costrinse migliaia di persone a fuggire dall’area più contaminata, lasciandosi dietro case, cose e gli animali domestici. Nei giorni successivi al disastro, le squadre di intervento - i famosi liquidatori - hanno cercato i cani abbandonati e randagi per ucciderli ed evitare che diffondessero la radioattività.
Ma alcuni di quei cani sembrano essere sopravvissuti e il nuovo studio “The dogs of Chernobyl: Demographic insights into populations inhabiting the nuclear exclusion zone”, pubblicato su Science Advances da un team di ricercatori statunitensi, ucraini e polacchi, è il risultato della prima ricerca genetica su cani di Chernobyl e, quindi, su un grande mammifero che vive nell'area vietata e il primo passo di un progetto più ampio per determinare come i cani si sono adattati per sopravvivere in uno dei luoghi più radioattivi della Terra. Gli scienziati sperano di utilizzare le conoscenze acquisite per comprendere meglio gli effetti dell'esposizione alle radiazioni a lungo termine sulla genetica e sulla salute umana.
Intanto dallo studio pubblicato su Science Advances emerge che «Il DNA raccolto dai cani rinselvatichiti che vivono oggi vicino alla centrale elettrica rivela che sono i discendenti di cani che erano presenti al momento dell'incidente o che si erano stabiliti nell'area poco dopo».
I ricercatori evidenziano che «In questo studio, caratterizziamo la composizione genetica dei cani riproduttori liberi che vivono all'interno e intorno al sito del disastro nucleare di Chernobyl del 1986. Precedenti studi hanno dimostrato che i due più grandi disastri nucleari della storia, verificatisi al CNPP nel 1986 e alla centrale nucleare di Fukushima Daiichi nel 2011, hanno entrambi portato a enormi conseguenze ecologiche per la fauna selvatica e gli animali domestici (16-18 ) . Tuttavia, a Chernobyl è stata rilasciata molta più radioattività che a Fukushima, compreso circa sei volte più cesio-137, un radionuclide di lunga vita con un'emivita di oltre 30 anni».
Una delle autrici dello studio, Elaine Ostrander del National Human Genome Research Institute del National Institutes of Health Usa, sottolinea in un’intervista a Nature che «Abbiamo così tanto da imparare da questi animali. Questa è un'occasione d'oro per vedere cosa succede quando generazioni di grandi mammiferi vivono in un ambiente ostile».
Gli impatti immediati dell'incidente di Chernobyl sono stati evidenti: circa 30 persone che lavoravano alla centrale elettrica e vigili del fuoco e liquidatori sono morti per avvelenamento da radiazioni entro pochi mesi dalla catastrofe, ancora di più per cancro negli anni successivi. Nelle zone intorno alla centrale esplosa i pini sono appassiti e molte specie di insetti sono scomparse, incapaci di sopravvivere nel suolo radioattivo.
Quello che è meno chiaro è come i bassi livelli di materiale radioattivo persistente dopo il disastro colpiscano oggi le piante e gli animali che vivono nei dintorni di Chernobyl. Una manciata di studi ha riportato tassi di mutazione genetica insolitamente elevati nelle rondini e nei moscerini della frutta nelle vicinanze del reattore, che ora è sepolto in un sarcofago di acciaio e cemento. «Ma – ricorda David Brenner, un biofisico delle radiazioni alla Columbia University che non ha partecipato al nuovo studio - gli effetti sulla salute dei bassi livelli di radiazioni sono ancora oggetto di accesi dibattiti. Questo è importante perché le persone rischiano l'esposizione a basse dosi di radiazioni in tutti i tipi di contesti, anche attraverso determinate scansioni mediche o mentre lavorano in centrali nucleari. E’ davvero difficile capire gli effetti di questo tipo di esposizione, ma è piuttosto importante che lo facciamo».
E’ stato questo uno dei fattori che nel 2017 ha portato l’autore senior dello studio, Timothy Mousseau, Department of biological sciences dell’università della South Carolinaa unirsi a una missione di volontariato per fornire assistenza veterinaria alle centinaia di cani randagi che vivono nella zona di esclusione, un'area di 2.600 Km2 attorno alla centrale nucleare dove è limitato l'accesso per motivi di sicurezza e da dove i militari russi che hanno invaso l’Ucraina nel 2022 si sono ritirati rapidamente dopo che i soldati hanno cominciato ad ammalarsi in massa.
In tre anni di viaggi nell'area di Chernobyl, Mousseau e i suoi colleghi hanno raccolto campioni di sangue da circa 300 cani che vivevano accanto alla centrale nucleare e intorno alla città di Chernobyl e l'analisi del DNA dei cani ha rivelato che, a differenza di lupi e orsi e di altri animali che sono ritornati nell’area dalla quale erano scomparsi prima del disastro, i cani randagi «Non erano nuovi arrivati nella zona».
Confrontando i profili genetici dei cani di Chernobyl con quelli di altri cani randagi che vivono nell'Europa orientale, il team ha scoperto che «I canidi nelle vicinanze della centrale elettrica, alcuni dei quali sono imparentati con razze da pastore, sono rimasti isolati da altre popolazioni canine per decenni» e che, nonostante le preoccupazioni dei funzionari sovietici che i cani di Chernobyl migrassero e diffondessero materiale radioattivo, «La maggior parte di questi animali non si era spostata lontano: quelli che vivono più vicino alla centrale elettrica sono geneticamente distinti dai loro parenti che vivono a pochi chilometri di distanza».
I ricercatori sottolineano anche un altro aspetto: «Coerentemente con studi precedenti, i nostri risultati evidenziano la tendenza dei cani semi-selvatici, proprio come i loro antenati canidi selvatici, a formare branchi di individui imparentati. Tuttavia, i nostri risultati rivelano anche che all'interno di questa regione, piccoli gruppi familiari o branchi di cani in libertà coesistono in stretta vicinanza l'uno con l'altro, un fenomeno in contrasto con la natura generalmente territoriale del più vicino antenato del cane domestico, il lupo grigio. I cani in libertà nelle aree urbane tendono ad adattare la loro territorialità e il movimento quotidiano in risposta agli esseri umani nella regione; generalmente il loro home range è costituito da un piccolo nucleo, dove dormono, e da una zona cuscinetto, dove cercano il cibo. La combinazione dei comportamenti osservati nei cani di Chernobyl e delle loro complesse strutture familiari suggerisce che le popolazioni di cani di Chernobyl violano il presupposto dell'accoppiamento casuale che è inerente a molti modelli genetici di popolazione. Quando si aumenta la specificità del solo luogo di campionamento, ad esempio, considerando solo i cani del CNPP o della stessa città di Chernobyl, rimane l'osservazione della complessa struttura familiare».
Ostrander fa notare che «La continua presenza dei cani nell'area dimostra che sono stati in grado di sopravvivere e riprodursi, anche mentre vivevano vicino al reattore. Il che è notevole. L'incidente del 1986 ha depositato il micidiale isotopo radioattivo cesio-137 a livelli da 10 a 400 volte più alti vicino alla centrale che nella città di Chernobyl, a soli 15 chilometri di distanza. I campioni di DNA canino sono incredibilmente preziosi perché i cani tendono a condividere molti degli stessi spazi e diete degli esseri umani. Non abbiamo mai avuto l'opportunità di fare questo lavoro su un animale che ci rispecchia così come i cani».
Ma Brenner avverte che «Scoprire quali cambiamenti genetici nei cani sono causati dalle radiazioni e quali sono causati da altri fattori, come consanguineità o inquinanti non radioattivi, non sarà facile». Il team è consapevole di questi problemi, ma i ricercatori sostengono che «La nostra conoscenza dettagliata degli antenati di questi cani, così come la conoscenza dei livelli di radiazioni a cui diversi cani sono stati storicamente esposti, fornisce un focus group ideale per i nostri studi futuri».
Lo studio conclude: «In modo univoco, ogni singola popolazione [di cani]nella regione di Chernobyl ha sperimentato livelli differenziali di contaminazione che sono ben registrati, fornendo ulteriori vantaggi nella progettazione sperimentale. La nostra identificazione di aplotipi genomici condivisi e l'istituzione di origini moderne rispetto a quelle ancestrali rappresentano un obiettivo per futuri studi genetici sulle firme delle radiazioni. La popolazione di cani di Chernobyl ha un grande potenziale per informare gli studi sulla gestione delle risorse ambientali in una popolazione in ripresa. Il suo più grande potenziale, tuttavia, risiede nella comprensione delle basi biologiche della sopravvivenza animale e, in ultima analisi, umana in regioni ad alto e continuo impatto ambientale».
Intanto, guerra permettendo, Mousseau ha in programma un'altra spedizione di campionamento a giugno. Se la guerra non ha fermato la ricerca, meno turisti “della catastrofe” visitano l’area della centrale nucleare e quindi non lasciano avanzi di cibo e i cani di Chernobyl stanno lottando per cavarsela. Quindi il team di scienziati sta lavorando con l’ONG Clean Future Fund per fornire cibo ai randagi, salvaguardando la sopravvivenza dei cani di Chernobyl - e la loro eredità radioattiva – anche negli attuali durissimi tempi di guerra e nella penuria che seguirà la guerra.
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L'arsenico è un elemento chimico presente in natura a basse concentrazioni nelle rocce, nel suolo e nelle acque sotterranee: gli alimenti e l'acqua potabile sono le principali vie di esposizione umana a questo inquinante, in grado di aumentare il rischio cancerogeno.
Per questo la Commissione europea ha adottato nuove norme per ridurre la presenza di arsenico nei prodotti alimentari, considerando che le emissioni industriali dovute all'estrazione e alla combustione di combustibili fossili, come anche l'uso di fertilizzanti, preservanti del legno, insetticidi o erbicidi che contengono il contaminante, possono contribuire a livelli più elevati di arsenico nell'ambiente.
«Adottiamo nuove misure per ridurre ulteriormente il rischio di esposizione a un contaminante cancerogeno nella filiera alimentare. I cittadini vogliono sapere che gli alimenti che consumano sono sicuri e queste nuove norme sono un'ulteriore prova del fatto che le regole di sicurezza alimentare dell'Ue rimangono le più rigorose al mondo», commenta la commissaria per la Salute e la sicurezza alimentare, Stella Kyriakides.
La decisione, basata su una relazione scientifica dell'Efsa del 2021, è stata adottata dopo che gli Stati membri erano stati invitati a monitorare la presenza di arsenico negli alimenti; finora i tenori massimi di arsenico nei prodotti alimentari erano stati stabiliti nel 2015 sulla base di un parere dell'Efsa, secondo cui l'arsenico inorganico può provocare il cancro della pelle, della vescica e dei polmoni.
In particolare, la nuova misura riduce la concentrazione di arsenico inorganico consentita nel riso bianco e fissa nuovi limiti per l'arsenico in molti alimenti a base di riso, formule per lattanti, alimenti per la prima infanzia, succhi di frutta e nel sale.
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La Banca Europea per gli Investimenti (BEI), Crédit Agricole Corporate and Investment Bank filiale di Milano (Crédit Agricole CIB), Natixis Corporate and Investment Banking (Natixis CIB) e Reden hanno concluso un'operazione di project financing da 264 milioni di euro per finanziare uno dei più grandi portafogli fotovoltaici in Italia. La BEI spiega che «Il finanziamento sosterrà la costruzione e la gestione di un massimo di 26 centrali fotovoltaiche con una capacità installata totale fino a 255 MW in tutta Italia. 11 di queste saranno realizzati nel sud del Paese, 8 nel nord e 7 nel centro Italia. Tutte le centrali saranno operative entro il primo trimestre del 2025 e produrranno circa 470 GWh all'anno di energia elettrica rinnovabile, sufficienti a soddisfare la domanda di oltre 190.000 famiglie italiane».
Un’operazione contribuirà al raggiungimento degli ambiziosi obiettivi di RepowerEU della BEI e degli obiettivi di produzione di energia rinnovabile dell'Italia. Inoltre, si prevede inoltre che questi investimenti nel fotovoltaico eviteranno l’emissione di circa 3,3 milioni di tonnellate di CO2 nel corso della durata della vita utile degli impianti. La Bei specifica che «La maggior parte degli impianti beneficerà della tariffa incentivante prevista dal Decreto FER 1 in quanto sorgerà su terreni industriali e genererà quindi ricavi convenzionati per 20 anni. Per il resto, che sarà costruito su terreni agricoli, il mutuatario - Reden Development Italy - dovrebbe firmare contratti di acquisto di energia elettrica a lungo termine o vendere l'elettricità sul mercato».
Si tratta di un finanziamento classificato come prestito verde secondo i Green Loan Principles della Loan Market Association e per i partner dell’accordo «E’ un punto di riferimento importante per il settore, in quanto è uno dei più grandi portafogli fotovoltaici greenfield in Italia che combina tariffe incentivanti, contratti di acquisto di energia elettrica a lungo termine e entrate di mercato».
La vicepresidente della BEI Gelsomina Vigliotti ha commentato: «In qualità di banca climatica dell'Ue, siamo lieti di cofinanziare la costruzione di uno dei più grandi portafogli fotovoltaici greenfield in Italia, che genererà energia rinnovabile sufficiente a soddisfare la domanda di oltre 190.000 famiglie italiane. Questa operazione dimostra ancora una volta il forte impegno della BEI a sostenere il piano REPowerEU e a rendere l'Europa il primo continente a emissioni zero al mondo».
Thierry Carcel, AD di Reden Solar, ha ricordato che «Dopo la nostra decisione strategica di entrare nel mercato italiano nel 2021, questo primo finanziamento per Reden in Italia conferma la nostra forte ambizione di sviluppare la nostra presenza nel Paese e di contribuire attivamente alla crescita verde e alla transizione energetica dell'Italia. Con il supporto del gruppo, il nostro team, con sede a Roma e guidato da Luca Crisi, gestirà la costruzione e la gestione di questo portafoglio. Stanno inoltre già lavorando su ulteriori progetti avanzati per raggiungere più di 1 GW di capacità installata in Italia entro il 2027».
Jamie Mabilat, Country Head di Crédit Agricole CIB in Italia, ha sottolineato che «In qualità di banca di relazione chiave di Reden, siamo lieti di supportare l'espansione dell'azienda nel mercato italiano e i suoi ambiziosi piani di crescita. Questa transazione dimostra il forte impegno di Crédit Agricole CIB per la transizione energetica e la nostra posizione di leader nel mercato dei prestiti verdi. Vorremmo anche ringraziare il management di Reden per la fiducia dimostrata nell'affidare a Crédit Agricole CIB la guida di questa operazione molto importante.
Guido Pescione, Country Head della filiale milanese di Natixis CIB, ha aggiunto: «Siamo orgogliosi di essere stati incaricati come unico sottoscrittore della prima iniziativa greenfield di Reden in Italia. Questa straordinaria transazione dimostra ulteriormente gli sforzi di Natixis per sostenere lo sviluppo delle energie rinnovabili nella transizione verde e i suoi valori ambientali e di sostenibilità».
Tutti gli impianti saranno interamente di proprietà di Reden Development Italy Srl, che fa parte del Gruppo Reden Solar recentemente acquisito dal Mandel Consortium, la cui maggioranza è detenuta dal principale fondo di investimento globale Macquarie. La filiale italiana di Reden si occuperà anche dei lavori di costruzione e delle attività di gestione e manutenzione.
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Mentre l’Unione europea continua a reinviare il via libera definitivo ad una mobilità a emissioni zero – per auto e furgoni – a partire dal 2035, anche grazie alle pressioni messe in campo dal Governo italiano, la nascente industria delle batterie guarda alle opportunità garantite sull’altra sponda dell’Atlantico.
Una nuova analisi di Transport & Environment (T&E) documenta infatti che quasi la metà (48%) della produzione di batterie agli ioni di litio pianificata oggi in Italia rischia di andare incontro a ritardi, di essere ridimensionata o addirittura cancellata.
Emblematico il caso di Italvolt: «Il progetto inizialmente previsto a Scarmagno vicino Torino potrebbe subire ritardi o venire ridimensionato a favore del suo gemello Statevolt in California. Al momento sullo stabilimento che dovrebbe sorgere in Piemonte persistono incertezze in merito ai finanziamenti e ai permessi necessari alla costruzione».
Ma non si tratta di rischi che riguardano solo l’Italia, anzi. In tutta Europa sia a rischio il 68% della capacità produttiva di batterie agli ioni di litio prevista per i prossimi anni. A determinare questa situazione è soprattutto l’Inflation reduction act (Ira), la legge approvata da Washington per attirare la produzione di tecnologie verdi, in assenza di equivalenti strumenti comuni di sostegno finanziario da parte dell’Ue.
T&E ha analizzato la situazione delle 50 gigafactory annunciate in Europa, mostrando come 1,2 TWh di produzione europea di batterie, in grado di equipaggiare 18 milioni di auto elettriche, sia attualmente ad alto o medio rischio di interruzione o delocalizzazione.
A rischiare maggiormente di veder svanire la capacità industriale attualmente prevista sono Germania – Tesla ha già dichiarato che concentrerà la fabbricazione di celle negli Stati Uniti per sfruttare gli incentivi dell’Ira, piuttosto che nella gigafactory di Berlino – Ungheria, Spagna, Italia e Regno Unito.
«I piani industriali per la produzione di batterie nella Ue sono sotto il fuoco incrociato di Stati Uniti e Cina – commenta Carlo Tritto, policy officer di T&E Italia – Per competere efficacemente, l'Unione Europea deve dotarsi subito di una politica industriale verde incentrata sulle batterie, fornendo un robusto sostegno per aumentarne i volumi di produzione. In caso contrario si rischia di accumulare un ritardo che potrebbe tradursi in una pesante sconfitta industriale».
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Il paradosso è già nel fatto che la quinta United Nations Conference on the Least Developed Countries (LDC5) sia ospitata a Doha, la capitale di uno dei Paesi più ricchi del mondo. Aprendo ieri il summit che durerà fino al 9 marzo e che dovrebbe accelerare lo sviluppo sostenibile dove l'assistenza internazionale è più necessaria per sbloccare il pieno potenziale dei Paesi più vulnerabili del mondo e aiutarli ad avviarli verso la strada della prosperità, il segretario generale António Guterres ha ricordato che «Tre anni dopo che il mondo ha iniziato la sua epica lotta contro il Covid-19, i Paesi meno sviluppati (LDC) – già alle prese con gravi ostacoli strutturali allo sviluppo sostenibile e altamente vulnerabili agli shock economici e ambientali – si sono trovati bloccati in mezzo a una crescente ondata di crisi , incertezza, caos climatico e profonda ingiustizia globale. I sistemi, dalla sanità e dall'istruzione alla protezione sociale, alle infrastrutture e alla creazione di posti di lavoro, sono limitati o inesistenti. E sta solo peggiorando. Il sistema finanziario globale, creato dai Paesi ricchi per servire i propri interessi, è estremamente ingiusto nei confronti dei Paesi meno sviluppati, che devono pagare tassi di interesse che possono essere 8 volte superiori a quelli dei Paesi sviluppati. Oggi, 25 economie in via di sviluppo stanno spendendo oltre il 20% delle entrate pubbliche esclusivamente per pagare gli interessi sul debito».
E i leader delle nazioni più povere del mondo hanno espresso tutta la loro delusione e amarezza per il trattamento riservato ai loro Paesi da parte delle c
Nel nostro Paese le sindromi Nimby (not in my back yard, non nel mio giardino) e Nimto (not in my termo of office, non nel mio mandato elettorale) spiccano tra le principali difficoltà a mettere a terra gli impianti necessari a sostenere la transizione ecologica – da quelli per la gestione rifiuti a quelli per la produzione di energia rinnovabile –, ma un’alternativa esiste: quella Pimby, please in my back yard, che quest’anno verrà celebrata ancora una volta da Assoambiente con la IV edizione del premio Pimby green.
«Il nostro Paese sta cambiando: raccontare l'Italia che cresce, in cui la cultura del fare soppianta quella del no a tutto, è l'obiettivo del premio Pimby green – spiega Chicco Testa, presidente Assoambiente – Il Pnrr rappresenta una straordinaria opportunità per mettersi alle spalle ritardi e colmare lacune, dando vita a una crescita economica più sostenibile e inclusiva. Ripensare con innovazione settori come l’energia, la mobilità, la gestione dei rifiuti, il rinnovamento del manifatturiero richiede necessariamente una cooperazione efficace tra pubblico e privato, indispensabile se si vogliono finalmente affrontare e risolvere criticità e gap territoriali, come la carenza di infrastrutture in molte aree del Paese».
Da oggi sono aperte le candidature alla quarta edizione del premio che, come da tradizione, intende valorizzare le opportunità espresse dalla realizzazione di opere di pubblica utilità, scardinando le convinzioni, spesso pregiudiziali, legate alle contestazioni Nimby.
Possono candidarsi al premio Pimby green 2023 Pubbliche amministrazioni, imprese, associazioni e giornalisti impegnati a promuovere il rilancio industriale dell'Italia con: la progettazione e realizzazione di infrastrutture strategiche per i territori e impianti industriali tecnologicamente avanzati; il confronto, il dialogo e la partecipazione per creare coinvolgimento positivo e responsabile nei cittadini; la pubblicazione di articoli e contenuti scientifici che contribuiscano a diffondere un'informazione trasparente volta a contenere il fenomeno dell'opposizione aprioristico a qualsiasi opera.
È possibile presentare la candidatura al premio scrivendo a assoambiente@assoambiente.org entro il 25 maggio 2023. Le proposte verranno valutate da una giuria che decreterà i vincitori, che saranno premiati nel corso di un evento promosso dall’associazione il 18 luglio a Roma. Il regolamento e tutte le informazioni per poter presentare le candidature sono disponibili su https://assoambiente.org/entry_p/News/news/14124/.
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