Sanremo-Zelensky, strategia dell’astensione e cultura della resa
Se non fosse stato Sanremo, sarebbe stato un altro evento. La verità è che più trascorrono i giorni, più diminuiscono in Occidente gli amici dell’Ucraina e i sostenitori del presidente Volodymyr Zelensky. E meno male che i governi d’America e d’Europa non hanno abbandonato gli aggrediti al loro destino. Altrimenti… Ma fino a quando durerà il sostegno militare a Kiev? Fino a quando i governanti occidentali saranno in grado di resistere al pressing “pacifistico” di consistenti settori dell’intellighenzia e dell’opinione pubblica? Che poi significherebbe ratificare la resa ucraina al despota moscovita.
Ecco. Non c’entra il festival di Sanremo in questo mutato atteggiamento italico verso la guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina. Non c’entra l’esigenza, sottolineata dai più refrattari al telemessaggio di Zelensky, di preservare la rassegna canora dalle ingerenze di tipo politico o, addirittura, geopolitico. Uno, perché Sanremo è anche una gara di ugole. Di fatto, è soprattutto l’autorappresentazione del Belpaese, una sorta di annuale Rapporto Censis modello De Rita in versione musical-televisiva.
Due, perché anche se Sanremo fosse soltanto una sfida tra cantanti, parolieri e orchestrali
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