202 anni d’Infinito. Da Leopardi all’eternità
“Sempre caro mi fu quest’ermo colle”: 202 anni fa Giacomo Leopardi compose l’Infinito.
Sono trascorsi due secoli da quando il poeta, appena ventenne, compose una delle liriche più belle, intense e significative di tutta la letteratura italiana; una poesia che, come un dipinto, un monumento, un’opera d’arte, parla agli uomini di qualsiasi epoca con la stessa forza evocativa ed emozionante di quando fu scritta. È la lingua pura della poesia: essa non conosce tempo, nè spazio, nè età. Profumo di un fiore sull’abisso.
Il testo, apparentemente semplice e comprensibile anche ai ragazzi più piccoli, racchiude però tutto un universo, tanti significati profondissimi, propri di una sensibilità e una complessità d’animo non comuni; versi che si perdono in “sovrumani silenzi” e “profondissima quiete”. Il desiderio di creare un “oltre” rispetto alla semplice vista delle cose è umano. Un oltre che non esiste, che è solo prodotto dell’immaginazione, un aldilà, un infinito, oltre ciò che ha fine, che da sempre affascina.
Fin da fanciullo, lo ricorda lo “Zibaldone” nelle pagine scritte fra il 12 e il 13 Luglio del 1820, il poeta amava guardare il cielo “attraverso una finestra, una porta, una passatoia fra due case; nella poesia “L’Infinito” il poeta ha trovato le ragioni di questa preferenza: infatti, “da una veduta ristretta e confinata” nasce il desiderio dell’infinito, perché solo allora, in luogo della vista, lavora l’immaginazione ed il fantastico subentra al reale.
La lirica venne pubblicata soltanto nel 1826, negli “Idilli”, ma fu composta nel 1819, mentre Leopardi, ancora ragazzo, passeggiava sul Tabor. Egli era solito salire molto spesso, durante i suoi lunghi pomeriggi solitari, sulla cima del colle nei pressi della sua casa di Recanati. Amava sedersi a terra, pensare, scrivere, immaginare. Io vidi quei luoghi. Ne rimasi affascinata.
Quell’occasionale momento di libertà all’aria aperta diventava per lui, e forse anche per me, l’occasione per provare ad uscire, anche se solo con l’immaginazione, dagli angusti confini di una vita provinciale. La famosa siepe della poesia esclude “il guardo”, certo, ma è proprio grazie alla sua invalicabilità materiale che il poeta trova il desiderio e il coraggio di guardare oltre, al di là di essa. “Sedendo e mirando”, Leopardi guarda col cuore e sente con l’anima tutto l’abisso meraviglioso che si apre innanzi a lui.
L’ingenuo sentimento di paura ma anche di beatitudine di fronte all’infinito è descritto però con parole che nulla lasciano al caso, con un ritmo meraviglioso. Pura Poesia.
Sempre caro mi fu quest’ermo colle
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando : e mi sovvien l’eterno
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio.
E il naufragar m’è dolce in questo mare.
Già il primo verso – “Sempre caro mi fu quest’ermo colle” – pone subito al centro dell’affezione che supera ogni temporalità limitata, un “mi” (a me), come percezione di un sé al quale appartiene una profonda relazione sia visiva che affettiva. Il poeta, un colle e una siepe. Colle e siepe appartengono profondamente a Leopardi, con una consuetudine e con un legame, che come i sentimenti profondi, va al di là dello spazio e del tempo. Un avverbio di tempo (sempre) unito a “mi”, posto nel cuore del primo verso, muove un arco che si posa sul mi del settimo verso (“io nel pensier mi fingo”), e da qui rimbalza nel mi che è nel cuore dell’ultimo verso: “E il naufragar m’è dolce in questo mare”.
Anche per noi è dolce il naufragio nella sua poesia.