Sufjan Stevens, un poeta delicato e gentile: la recensione di Javelin
Javelin, il nuovo album di Sufjan Stevens, è un disco pieno di domande oneste. Interrogativi posti in modo talmente schietto da risultare quasi brutali. L’artista di Detroit scava nella sua intimità, e con essa in tutte quelle di chi lo ascolta. Ma questo viaggio introspettivo non fa paura né a Stevens, né al suo pubblico. L’oscurità in cui si addentra Javelin non terrorizza. È commovente, elegante e gentile, come la voce del cantautore statunitense. Il suo timbro ha un colore luminoso, in grado di rischiarare anche le vulnerabilità più profonde. Scava e aiuta a comprendere se stessi, al di là delle interpretazioni che il mondo esterno dà di noi. Mentre si chiede «Will anybody ever love me?», Sufjan Stevens è consapevole che, se non farà il faticoso sforzo di conoscersi a fondo, nessuno potrà mai amarlo «senza rimostranze, non per sport, ma per delle buone ragioni».
Come i precedenti dischi, anche Javelin, il decimo album in studio del musicista, esce per
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